Edoardo Bosio, CEO e Founder di Embed Capital, spiega a Think perché la sua società è diversa da qualsiasi fondo di investimento e il suo approccio totalmente nuovo e innovativo. Un approccio che ha portato Embed Capital a molti successi e anche a qualche insuccesso. Inoltre Bosio racconta a Think.it quali saranno i progetti futuri e come l’emergenza Coronavirus ha impattato sul settore delle startup e delle PMI italiane.
Come selezionate i progetti su cui investire?
Embed è un veicolo di famiglia, non è strutturato come un fondo, sono capitali privati. Abbiamo iniziato nel 2013 e l’approccio si è evoluto nel tempo. All’inizio era un’attività che non facevamo full time, ci siamo iscritti ai vari club di investitori e business angels per imparare come funzionava questo ecosistema, realizzando investimenti molto piccoli: tagli da 20, 25, massimo 50mila euro, come follower di altri investitori.
Io vengo dal mondo finanziario ma con focus su aziende non digital, quindi all’inizio prediligevamo startup che realizzassero un prodotto fisico o una tecnologia tendenzialmente B2B. Ero scettico e lo sono tutt’ora sulle probabilità di successo delle startup italiane puramente B2C internet based.
Piano piano questa attività è diventata la mia attività principale e perciò mi sono dovuto creare degli schemi ben precisi per investire. Ora tendiamo a fare ticket un po’ più grandi e abbiamo iniziato a essere anche i Lead Investor, di round tra i 200 e i 500 mila euro in cui noi investiamo 100/250mila.
Abbiamo iniziato anche a essere proattivi per dare una mano laddove ce ne fosse bisogno, soprattutto dal punto di vista finanziario: creazione del business plan, gestione del business model e, in alcuni casi, anche business development.
Il deal flow è sempre stato basato sulla frequentazione di eventi startup, ma anche molto sul passaparola. Nel 2016/17, appena pronunciavo la parola startup, chiunque mi diceva che conosceva qualcuno che ne aveva una. Il criterio di selezione principale era il team, non ho mai avuto un focus settoriale. Ora nel portafoglio abbiamo un po’ di tutto, dal farmaceutico a medical devices, da prodotti consumer fisici a software per il mondo HR, fino a un’azienda di arredamento.
Il criterio principale era il team e la sua precedente esperienza .
Raramente abbiamo investito in team molto giovani o di neolaureati, per quanto l’idea fosse buona. In quel caso cercavamo di affiancargli qualcuno che avesse expertise del settore.
L’altro aspetto che guardo sempre è la capacità di generare cassa nel breve periodo, quindi non business dove sono necessari round da milioni di euro prima di arrivare al break even.Inoltre mi interessa che abbia un grosso mercato potenziale.
L’ultimo aspetto a cui sto molto attento sono le valutazioni. Le valutazioni nel mondo VC devono seguire degli standard internazionali, altrimenti i fondi non mostrano interesse. Però in Italia il mercato è piccolo, l’ecosistema è poco sviluppato e quindi non sempre vale la pena pagare una valutazione molto alta nel round seed, perché poi gli investitori dei round successivi, tipicamente privati, hanno un metro di valutazione differente.
Qual è, quindi, la differenza tra voi ed un fondo?
Io sono sempre molto proattivo e addirittura vengo considerato co-founder in alcune startup. Al momento, tra dirette e indirette, abbiamo 25 partecipazioni quindi è impensabile che io sia attivo su tutte. Ce ne sono alcune su cui non sono mai stato attivo, altre in cui sono stato attivo e poi non c’è stato più bisogno della mia partecipazione attiva. Oggi mi considero co-founder di almeno 4 startup in cui sono coinvolto quotidianamente.
L’altra fondamentale differenza è che io ho investito soldi miei, di famiglia. Questo comporta un approccio molto diverso, in cui si cerca di buttare il cuore oltre l’ostacolo. I fondi hanno da rendere conto ad altri investitori istituzionali che sono più schematici, hanno un approccio meno imprenditoriale.
Quello che ho io, invece, è un approccio più imprenditoriale in cui cerco di mettermi allo stesso livello dei co-founder e del team e di dare una mano nel quotidiano, che può voler dire anche andare a spostare i mobili da una parte all’altra.
Non nego che alle volte penso possa essere sbagliato: il mio ruolo è quello di investitore e dare una mano è corretto ma fino ad un certo punto. Però è una cosa che mi sento di fare, poi si crea un rapporto personale con i co-founder più profondo rispetto a quello che può avere il gestore di un fondo.
Quali sono al momento i casi di maggior successo nel vostro portafoglio?
Quella che sta andando meglio, anche oltre le aspettative, si chiama Concrete Investing ed è un portale di equity crowdfunding verticale sull’immobiliare. Il crowdfunding fino al 2018 era riservato alle startup innovative, poi è stato esteso alle PMI innovative e poi a tutte le PMI ed è nato anche il filone immobiliare, che solo negli Stati Uniti vale 8 miliardi di dollari. In Italia non si poteva fare e quindi non esistevano. Siamo regolamentati come un portale di crowdfunding a tutti gli effetti, autorizzati da CONSOB, ma andiamo a proporre delle offerte qualitativamente più strutturate perchè il nostro target non sono gli investitori da 500 euro ma quelli un po’ più sofisticati. Ad oggi abbiamo un ticket medio di 16.000, molto più elevato di quello degli altri portali. Sta andando molto bene perchè in un anno e mezzo di attività abbiamo già raccolto 13 milioni di euro su 8 progetti. Sta crescendo bene, è un settore che tira molto. Nonostante ci sia un po’ di confusione tra lending ed equity e stiano nascendo piattaforme non del tutto regolamentate e trasparenti, è un mercato interessante. (Leggi la nostra intervista a Lorenzo Pedotti, CEO di Concrete Investing)
Un’altra startup che citerei si chiama Glickon, che ha di recente chiuso un’acquisizione. È la prima volta che una mia startup fa un’acquisizione. Fattura circa un milione di euro ed è attiva nel People Analytics, una serie di servizi alle aziende finalizzati ad ottimizzare i rapporti tra i dipendenti dell’azienda stessa e migliorare la gestione delle competenze interne. Possono essere test attitudinali, test per verificare le competenze e mettere insieme i team in base ad esse, fino ad un’analisi comportamentale del dipendente estrapolando i dati delle applicazioni aziendali che usa. Si riesce così a mappare il know-how dell’azienda e capire quali sono gli esseri umani centrali nei processi aziendali. È basato su un algoritmo matematico proprietario che macina questi dati e tira fuori un risultato.
C’è stato invece qualche insuccesso?
Sicuramente. Il mio più grosso fallimento si chiama Wecare, una startup che è nata troppo presto. È nata nel 2015 e l’idea era quella di creare una app dove gli utenti avrebbero potuto archiviare tutta la loro vita dal punto di vista medico. Quindi un archivio digitale di tutti i documenti sanitari in un’unica app. Al di là di caricare i dati, l’idea era quella di collegarsi ai database delle strutture ospedaliere esistenti e integrare il tutto all’interno dello stesso archivio. Una cosa che per l’utente sarebbe stata utilissima. L’idea era quella di creare una cartella clinica digitale nazionale, cosa che in altri paesi già esiste. Ci siamo scontrati con la burocrazia e la difficoltà di interfacciarci con soggetti pubblici, dove erano tutti d’accordo nelle centinaia di riunioni che abbiamo fatto ma poi mancava sempre l’ok di qualcuno e non se ne veniva a capo. Quindi piano piano la cosa è andata scemando.
Però abbiamo pivotato, come si dice in gergo, e lo facciamo sugli animali. Ci siamo resi conto che avere una cartella veterinaria degli animali da allevamento poteva essere utile agli allevatori. Dati molto meno sensibili, molti meno problemi di privacy.
Qual è il suggerimento che daresti a chi sta avviando una startup e volesse rivolgersi ad una società come la tua?
Secondo me rispetto a qualche anno fa c’è molta più propensione all’investimento da parte dei privati. Dall’altro lato c’è molta più attenzione e gli investitori stanno diventando un po’ più demanding. Il suggerimento che io darei è che la prima parte di autofinanziamento, proveniente dalla cerchia ristretta dei founder, deve essere sufficiente quantomeno ad avere un piccolo flusso di revenue, un piccolo bacino di clienti o, nel caso sia B2C, dimostrare che ci sono degli utenti, anche pochi, che sono disposti a pagare per quello che hai creato.
Molte volte mi propongono idee buone, ma da parte dei founder non c’è la disponibilità di finanziare i primi 50/100 mila euro per arrivare ad avere una bozza di prodotto finito (MVP) ed un primo cliente. Il primo suggerimento è questo: all’inizio, cercare di autofinanziarsi convincendo familiari, amici, conoscenti a credere nel progetto, perché così si evita di perdere tempo e di andare a cercare investitori che non sono interessati a quella fase. Non appena ci si riesce, ci sono molte strade per raccogliere. All’inizio ero un po’ scettico sui club di investitori, ora noto più interesse e soprattutto sono diventati più veloci nel dire sì o no agli investimenti. Se uno non ha la possibilità di raccogliere privatamente dalla sua cerchia di network io inizierei a rivolgermi a questi soggetti.
Avere un team al completo, essere full time. È necessario che il team sia dedicato. Molto spesso vedo cose interessantissime ma l’imprenditore non è disposto a lasciare il suo lavoro per dedicarsi full time a questa cosa e ciò non è accettabile per nessun investitore. Se uno ci crede, ci deve credere fino in fondo.
Avere le idee chiare sul mercato, su chi è il tuo cliente potenziale, e su che problema gli risolvi. Non è necessario avere un Business Plan con proiezioni fino al 2025 perchè tutti sanno che sono proiezioni variabili in mille modi. Ma costruire ll BP serve innanzitutto ad avere molto chiaro chi è il cliente, che problema gli risolvi e quanto è disposto a pagare per il tuo servizio, ed è fondamentale.
L’ultima cosa che direi è non aver paura di cedere quote, soprattutto all’inizio. Trovare qualcuno disposto a investire non solo denaro, ma anche a fare business developement lasciando sul tavolo quote non deve essere un problema. Meglio pochi, maledetti, subito, che impuntarsi su valutazioni da startup americana, berlinese o londinese e fare molta fatica a raccoglierli. Il tempo per monetizzare è più avanti. Se le cose ingranano, la valutazione si fa sempre in tempo ad alzarla dopo, quando vai a parlare con soggetti che sono più disposti a digerirla. Quelli come me, piccoli privati che magari non lo fanno nemmeno full time, sono abituati a vedere valutazioni più da PMI che da startup e quindi molto spesso non si trova la quadra.
Quali sono i vostri prossimi progetti? Inoltre, il Coronavirus ha fatto avere una battuta d’arresto o ha accelerato l’interesse verso questa realtà?
Per quanto riguarda la prima domanda, la mia idea è sempre stata quella di far crescere quest’attività. Non ho mai avuto la presunzione di raccogliere soldi da terze parti senza prima aver provato sulla mia pelle di essere capace. In questo momento abbiamo fatto un paio di piccole exit e stiamo iniziando a vedere qualcosa di più grosso. L’idea è quella di fare un po’ di massa critica: in Italia ci sono tanti Angel che hanno 2,3,4,5 piccoli investimenti e se ne occupano poco.
Una buona idea può essere quella di fare massa critica magari unendo questi veicoli, conferendo partecipazioni in startup all’interno di un unico calderone e gestendolo come un portafoglio più diversificato. Con questo veicolo sei più credibile e si esce dalla logica della srl. Bisogna strutturarsi in modo che si possa fare raccolta del risparmio. Al di là della forma giuridica, gli investitori privati sono più interessati ad entrare in un qualcosa che abbia già numerose partecipazioni e diverse teste dentro, piuttosto che sul singolo piccolo veicolo che non ha dimostrato appieno il suo track record. Stiamo parlando con soggetti più o meno simili per capire se questa cosa si può fare. Non starei a fare un fondo vero e proprio perchè per quanto mi riguarda è ancora presto. Raccogliere è molto difficile, bisogna parlare con gli istituzionali che hanno tutt’altra logica e sappiamo quanto è difficile fare fundraising su Venture Capital in questo paese. Lo step intermedio potrebbe essere aggregare veicoli simili e creare un soggetto più solido e diversificato.
Per quanto riguarda il Coronavirus, ovviamente nessuno poteva aspettarsi tutto ciò. Le startup che andavano bene prima hanno resistito e in alcuni casi si sono rinnovate e hanno nuova energia per andare avanti. Quelle che già zoppicavano prima sono state molto penalizzate dall’impossibilità di fare business per due o tre mesi.
Permettimi di essere un po’ critico su come è stato gestito lo schema di supporto all’emergenza, dove di fatto hanno dato le chiavi in mano alle banche, non considerando che spesso, quando sei a questo livello di micro-impresa, vai a parlare in banca con uno sportellista che non sa nemmeno di cosa stai parlando. Per quanto i finanziamenti siano garantiti dallo Stato, ti chiedono delle garanzie personali, fideiussioni…Sulla carta tutto è garantito dallo Stato, quando vai nel concreto a parlare non è così. Per non parlare delle tempistiche, troppo lunghe e non compatibili con una startup.
tralasciando che tutte le startup nate nel 2019 se le sono praticamente dimenticate. Il criterio per avere questi finanziamenti garantiti era il calo del fatturato tra il 2020 e il 2019 e tutte le startup nate nel 2019 avevano zero di fatturato e ovviamente non può esserci stato un calo. Adesso vedremo nei decreti attuativi se ovvieranno a questa cosa.
Volendo vedere un lato positivo, invece, ci si è accorti che tante cose si possono fare usando tecnologie digitali che prima soggetti, per esempio, dai 50 anni in su non avrebbero mai considerato. Stanno iniziando a capire che questo mondo c’è. Ci sono perciò delle startup che ne stanno beneficiando.
Per esempio, il nostro ultimo investimento è stato OH Working, che gestisce due spazi di coworking a Milano. Adesso è tutto fermo, ma pensiamo che da settembre il trend possa essere positivo per questa nuova tipologia di soluzione che offre maggiore flessibilità rispetto all’ufficio fisso.