Le ultime settimane sono state certamente molto interessanti e ricche di nuovi spunti per chi, come me, si occupa di innovazione con uno sguardo speciale su temi quali l’hardware, la produzione industriale e la manifattura.
Solo pochi giorni fa infatti è stato pubblicato un meraviglioso documentario di circa mezz’ora, interamente girato a Barcellona durante FAB10, l’ultima conferenza internazionale dei Fablab tenutasi (nella sua decima edizione) nella città che, come forse già saprete da pezzi scritti in precedenza, più di tutte ha scelto di credere nei principi, nelle prospettive e nelle potenzialità della fabbricazione digitale, al punto di dichiararsi la “Fab City”.
Tomas Diez del FabLab Barcellona a FAB10
Proprio durante FAB10 – e il fatidico momento è ben documentato nel video – il sindaco Xavier Trias ha premuto il bottone virtuale e ha fatto scattare un countdown di 40 anni: quelli che nella volontà dei protagonisti del progetto, come spiegato bene nel video da Vicente Guallart – urbanista e chief architect del municipio di Barcellona – separano la città dal passare dal modello PITO (Product In Trash Out) al modello DIDO (Data In Data Out), verso una città globalmente connessa sì, ma localmente autosufficiente.
Il FabKids al FAB10 di Barcellona
Queste settimane hanno anche visto il rilascio della quinta edizione del Journal of Peer Production, un’interessante pubblicazione indipendente periodica che guarda dentro le potenzialità dei modelli peer to peer, collaborativi e partecipativi, e che questa volta lo ha fatto guardando ai cosiddetti “shared machine shops”, ovvero i luoghi dove – come nei Fablab appunto – si condividono non solo le macchine per la produzione e per la fabbricazione digitale, ma anche le competenze legate ad esse. E di fatto questa pubblicazione ha tentato di farne una fotografia in termini di potenzialità, culture e limitazioni.
Ripensare un modello produttivo superato
Malgrado quarant’anni siano tanti, ripensare radicalmente un modello produttivo – quello manifatturiero e della produzione industriale massificata dei beni tangibili e degli oggetti – è una sfida enormemente complessa.
Credo che questa sfida vada, ad oggi, al di là dei più ottimistici annunci e delle più ottimistiche visioni sulle potenzialità del movimento dei Fablab e dei Makers. E tutto questo per una serie complessa di motivi che spaziano dai gap tecnologici ancora esistenti alla ancora scarsa coscienza “politica” del movimento stesso.
In un passaggio cruciale dell’editoriale di apertura del Journal, Peter Troxler analizza in modo abbastanza brutale il livello di comprensione che i makers avrebbero delle complessità della produzione industriale: “Siamo così ignoranti della complessità dei beni che ci circondano che qualsiasi cosa che vada oltre l’assemblaggio di un puzzle o un mobile Ikea può essere battezzato come una conquista del fai da te […] Più piacevole che il semplice uso di un bene di consumo, l’autonomia in questo caso diventa sinonimo di assemblaggio e riparazione [ma] il kit svuota il fare da se’ della sua sostanza, in quanto solo una buona offerta di marketing”.
In una ulteriore considerazione Troxler spiega inoltre come, alla fine della fiera, i makers e i fabbers potrebbero divenire null’altro che superconsumatori che richiedono prodotti ancora più complessi (poiché estremamente personalizzabili e abilitanti) a produttori che si trovano dunque a confrontarsi con sfide tecnologiche e di progettazione ancora maggiori: “Gli strumenti e i prodotti utilizzati e rivendicati dall’utente creativo e innovativo spesso significano esattamente il contrario per i loro produttori. Senza arrivare a pensare all’estrazione di minerali necessari per la produzione di componenti elettronici, è difficile comunque immaginare che questo processo sia autogestito e divertente. Quello che significa semplicità per gli utenti, significa simplessità (simplexity) per gli ingegneri, o come dice Alain Besnie rendere le cose più facili per l’utente significa necessariamente doverle rendere più difficili per l’ingegnere che le inventa”.
Come ridisegnare l’industria del domani
Capire come i modelli collaborativi, peer to peer e aperti propri della rete e del digitale, potrebbero essere credibili in questo campo (produzione di oggetti) è importante nella misura in cui questi si sono dimostrati profondamente trasformativi nei confronti delle industrie digitali. Allo stesso modo in cui oggi siamo in grado di ascoltare ottimi dischi di band indie della Virginia o di gruppi death metal norvegesi che magari hanno solo qualche migliaio di fans, prettamente locali, domani potremmo essere in grado di acquistare un telefono o un comodino disegnato da un designer indipendente del Pakistan, magari andandolo a ritirare sotto casa, prodotto on demand per noi. E magari come facciamo oggi con la musica, saremo sempre più in grado di remixare e modificare queste tecnologie per creare nuovi oggetti o rispondere alle nostre esigenze.
In tal caso, come sarà fatta l’industria che si occuperà di darci accesso a questi prodotti? Quali saranno i player, quali i modelli e che ruolo avremo noi?
Le dinamiche che hanno creato il mercato attuale della produzione dei beni tangibili sono piuttosto chiare. La competizione, si sa, è foriera di basse marginalità: in una competizione perfetta, su mercati maturi, si produce in sostanza a costo e si innova poco; pensate alle vostre lavatrici o ai vostri frigoriferi, quanto si sono realmente evoluti in quasi un secolo? In sostanza questi oggetti sono praticamente tutti uguali tra loro, sono prodotti interamente o in parte in fabbriche comuni basate su competenze e macchinari comuni, dai cosiddetti OEMs (Original Equipment Manufacturer), a loro volta in competizione furiosa tra di loro.
Per produrre ricavi e costituire un investimento a basso rischio, la produzione massificata funziona su due basi: da una parte aumentare i numeri, così che i costi di allestimento delle catene di produzione – il tooling – impattino meno sui costi marginali di produzione, aumentando la marginalità del singolo pezzo. Produrre 100 lavatrici è molto meno efficiente che produrne 1000000. La globalizzazione è stato l’approccio chiave di questa fase: creando consumatori uguali in tutto il mondo ha permesso di estendere i ricavi, sostanzialmente senza grossi rischi (e investimenti in reale innovazione trasformativa).
Dall’altra parte queste aziende mirano a differenziarsi dalla competizione con un brand forte, rinforzato non solo dalla qualità dei prodotti ma anche da ingenti investimenti in marketing e advertising. Per un ottimo approfondimento sull’intangibilizzazione del valore nei brand rimando a questo meraviglioso articolo di Adam Ardvisson, “Rifkin e il capitalismo”, da cui traggo questa immagine che spiega proprio come, negli ultimi 35 anni, il valore dell’S&P500 si sia appunto spostato dagli asset tangibili (come le fabbriche) ai brand e agli asset intangibili.
Se dunque da una parte siamo stati abituati a pensare che la produzione capitalistica industriale odierna sia sostanzialmente sostenibile per il mercato solo se i numeri della produzione sono grandi, enormi, vediamo che dall’altra parte le aziende stesse tendono all’intangibile e dunque vedranno presumibilmente sempre più la produzione tangibile (la “fabbrica”) come una zavorra, che tenteranno di affidare a partner e fornitori: possiamo realmente dire che Apple produce fisicamente l’iPhone? Non credo abbia senso.
Le questioni chiave sono a mio parere due: in questa rincorsa all’intangibilizzazione c’è spazio per la nascita di un nuovo meccanismo di produzione manifatturiera decentralizzato, a basso impatto ambientale, on demand? E che ruolo avranno la rete dei Fablab e la cultura maker (per quanto entrambi fenomeni ancora immaturi) in questo processo?
Ma il panorama è cambiato
Premetto che probabilmente noi europei abbiamo un punto di vista molto particolare e parziale su questi aspetti in quanto viviamo in Paesi tecnologicamente avanzati (e durante la maggiore crisi sistemica della nostra storia). Dunque sarà certamente interessante, per me, confrontarmi con il punto di vista cinese quando – forse mentre starete leggendo questo pezzo – sarò tra i partecipanti ad una tavola rotonda sull’innovazione e sulla produzione aperta durante la China Industrial Design Fair di Shenzhen. Certamente dal nostro punto di vista possiamo dire che le prospettive di riferimento, il quadro culturale e le aspettative nei mercati avanzati, oggi sono radicalmente cambiati. Almeno quattro sono i trend che spingono per la digitalizzazione dei prodotti e per l’intangibilizzazione dei brand e, relativamente, anche dei mercati:
Hyper Reality: vediamo i prodotti sempre più come esperienze ibride, online e offline; quello che normalmente chiamiamo Internet of things sarebbe meglio definibile, come fa Claudio Carnevali (CEO di OpenPicus) Internet on things.
Era dell’Accesso: cambiano le prospettive sulla proprietà e i prodotti si trasformano in servizi e poi in piattaforme; emblematico il caso del car sharing – ormai ubiquo nelle città europee più grandi – e nelle prospettive della rete globale di trasporto del discusso Uber.
Nuova Etica ambientale: utenti più informati degli impatti che le loro abitudini di consumo possono avere (grazie alla rete) tendono a adottare abitudini di consumo più responsabili, nasce un karma collettivo di urgenza al cambiamento.
Ultra-personalizzazione: in ultima analisi, la forte spinta verso la ultra-personalizzazione dei prodotti richiesta dagli utenti vuole un design modulare e accessibile agli stessi come agli altri attori del mercato. Il termine mass market customization, coniato da Paul Eremenko, capo del Progetto Ara di Google, rende bene l’idea di prodotto che, in realtà, massifica la struttura e le linee guida ma abilita la personalizzazione di massa (secondo Eremenko fino a un quarto del valore di un prodotto è nelle scelte personalizzabili dall’utente).
Cosa possiamo aspettarci?
Dunque cosa possiamo aspettarci realisticamente? Difficile a dirsi, ma certamente, ancora una volta possiamo valutare alcuni segnali e prospettive. Da un punto di vista puramente tecnologico non c’è dubbio che le mosse di grandissimi brand fanno capire che l’intensità di investimenti nella fabbricazione digitale e nel 3D printing stanno aumentando: HP, peraltro principale sostenitore di FAB10, ha recentemente annunciato la sua nuova Multi Jet Fusion Technology che promette di essere rivoluzionaria. Autodesk, probabilmente tra le aziende più innovative del mondo, ma cosciente che oggi l’innovazione si fa soprattutto fuori dagli uffici aziendali, ha lanciato un fondo da 100 milioni per le 3D printing startups.
Sul piano politico, sociale e delle policy ambientali i recenti accordi tra Usa e Cina sul clima hanno positivamente anticipato gli incontri che avverranno a Parigi nel luglio 2015 e hanno settato obiettivi piuttosto ambiziosi per la riduzione dei gas serra: non è ancora chiaro se il raggiungimento di questi obiettivi passerà attraverso l’applicazione di una Carbon Tax internazionale, ma in generale è plausibile che policy restrittive sull’uso dei carburanti fossili potrebbero arrivare a breve: questo impatterebbe in primis sui modelli logistici e inevitabilmente spingerebbe verso una produzione manifatturiera più responsabile, frugale e di certo più decentralizzata.
Inoltre, almeno per la mia esperienza recente, con OuiShare (ma anche in relazione al progetto Open Source Vehicle) è crescente il numero di attori pubblici (per esempio distretti industriali o decisori politici locali) radicalmente interessati a politiche di sviluppo in grado di riportare il lavoro indietro e la produzione a una dimensione che abbia senso e produca opportunità di lavoro localmente, interessati a ripercorrere all’indietro gli stessi processi di globalizzazione che sono stati permessi e incoraggiati negli anni.
Nel frattempo certamente la comunità bottom-up dei Fablab e dei makerspace non sta a guardare: crescono in maniera esponenziale: sono già oltre 430 – solo a luglio 2014 durante FAB10 erano 350 – e avranno di certo un ruolo centrale nella misura in cui forniranno una capacità disponibile di produzione (di oggetti pensati e realizzati in maniera almeno parzialmente diversa) ma anche e soprattutto di complemento alla produzione (modifica, personalizzazione, riparazione, riciclo). Come ha detto giustamente qualche giorno fa Alessandro Ranellucci durante una conversazione su Facebook (nota: ho editato per chiarezza): “considerando l’opportunità di creare o trattenere localmente del valore economico, è tutto molto difficile (e forse un po’ scoraggiante) se ragioniamo in chiave di sostituzione dei prodotti esistenti che conosciamo – campo su cui comunque abbiamo tantissimo da fare. Probabilmente dobbiamo ragionare in chiave di soddisfacimento delle stesse esigenze con prodotti nuovi”
D’altronde stiamo già vedendo modelli di aggregazione della capacità produttiva locale definirsi gradualmente
Malgrado sia strettamente legato a OpenDesk, il progetto inglese Fabhub costituisce già oggi un network di produzione “unbundled” (che aggrega decine di fabbricatori sparsi quasi in tutto il mondo) e che sarebbe potenzialmente disponibile per altri brand. Proprio qualche settimana fa, io stesso ho introdotto Nick Ierodiaconou, tra i padri del progetto, ad Andrea Cattabriga, CEO di Slowd.it, azienda italiana che sta facendo un lavoro molto simile. Anche negli Stati Uniti progetti come Maker’s Row o Britehub stanno facendo più o meno la stessa cosa e stanno, configurandosi come un efficace strumento di produzione locale, per ora destinato a creativi e brand di piccola dimensione.
Da non sottovalutare inoltre il ruolo che veri e propri servizi on demand manufacturing potrebbero avere nel futuro, grazie al miglioramento delle tecnologie di fabbricazione digitale e di additive manufacturing. Non a caso Peter Weijmarshausen, CEO di Shapeways, appare proprio sulla pagina di presentazione della nuova tecnologia Hp. Shapeways, azienda di origine olandese che offre già oggi molteplici soluzioni per la produzione on demand di oggetti di dimensioni limitate (dall’arte, agli oggetti per la casa), è già oggi distribuita su due continenti e ha le sue Factory of the Future sparse tra l’Europa e le due coste degli Stati Uniti, in un evidente sforzo di riduzione degli impatti della logistica.
Potrebbero dunque un giorno questi player diventare una nuova opzione, un nuovo tipo di contractor, per brand globali e non solo per piccoli attori? La domanda forse da porsi è: quanto senso avranno, in qualche decennio, quegli stessi brand globali?
Dalla open Innovation in closed company alla shared innovation in open company
D’altronde più il mercato in esame (manifattura) si digitalizza, più segue le meccaniche che ho tentato recentemente di spiegare in un pezzo sulla sharing economy e i monopoli digitali e che richiamo brevemente. Questi mercati seguono la legge di potenza (detta anche della “Long Tail”) e presentano tre ruoli/layer disponibili (cercherò di legarli a esempi in questa industria, allo scopo di renderlo più chiaro):
1. I micromercati della coda lunga: quelli dei prodotti e servizi dove si gareggia sulla velocità e sull’elasticità e si creano e alimentano nicchie di mercato, dove il brand ha vita breve e spesso effimera e i player sono piccoli (ad esempio un designer che crea un prodotto per la sua Fan Base).
2. Le infrastrutture abilitanti: piattaforme di aggregazione che offrono i processi di routine (es. la logistica) e supportano i piccoli player frammentati (es. i servizi di 3d printing on demand).
3. I customer relationship business: agenti che connettono le esigenze ai servizi abilitanti e sono in grado di comprendere le aspettative dei mercati e creare prodotti a immagine delle stesse (es. Arduino, per la capacità che ha avuto di connettere creatività a semplici tecnologie e, recentemente, di sviluppare un prodotto – una stampante 3D – dopo aver compreso che questo era uno degli usi più comuni della sua elettronica).
Nella definizioni classiche di Open Innovation (quelle di Henry Chesbrough in “Open Innovation: The new imperative for creating and profiting from technology”), essa prescrive che “le imprese possano e debbano usare idee creative e percorsi verso il mercato, che siano sia interni che esterni, quando cercano di innovare la loro tecnologia” e “innovare condividendo rischio e ricompensa con i partner “ , dato che i limiti dell’azienda con la società e l’ambiente sono diventati più permeabili.
Nella ricerca di un’evoluzione del concetto di open innovation verso una shared innovation che vada bene per questa era di urgenza del cambiamento, le aziende di produzione e brand dovranno guardare a due aspetti principali
Da un lato, quello della supply chain e delle infrastrutture abilitanti, dovranno saper progettarsi come aziende multi-stakeholder in grado non solo di rendere conto e collaborare felicemente con comunità e amministrazioni pubbliche locali, ma di rappresentare un’opportunità ai loro occhi (di generazione di lavoro di valore): queste aziende dovranno sempre di più essere in grado di ritirarsi da parti del ciclo di manifattura lasciando spazio appunto a un tessuto produttivo distribuito e locale, con catene di generazione di profitto e value chain più partecipative e, non ultimo, ecologicamente e socialmente sostenibili.
Dall’altro lato i loro prodotti e servizi dovranno essere abilitanti della creatività e dell’innovazione significativa, che risiede nelle nicchie e verrà sempre più dalle comunità digitali. Questi stessi utenti oggi si trasformano: da semplici acquirenti diventano makers e, nei casi più fortunati (e ancora limitati come dice Troxler nel pezzo segnalato all’inizio), sanno diventare cittadini di quel mondo nuovo che tutti aspettiamo e ricerchiamo.
Operando in questa fetta di mercato-società – come ad esempio fa Arduino – l’open (source) è il fattore che abilita creatori e aziende all’utilizzo e alla reintepretazione delle tecnologie. Se si sceglie invece di operare nelle infrastrutture, sarà importante saper aggregare la capacità produttiva e farlo in maniera trasparente a aperta, tramite dati e informazioni accessibili sui servizi (e i metodi) di produzione offerti on demand, magari esponendo API che permettano di integrarli in processi di business ben più complessi. Se infine si opera nell’area della Customer Relationship, ciò che sarà importante sarà saper legare la creatività alle opportunità e alle necessità di cambiamento, come stanno facendo egregiamente Kickstarter o altri portali di crowdfunding di tutto il mondo.
Come ha detto recentemente Alain De Botton, costruire una migliore versione del capitalismo – che sappia guardare a vere necessità e farlo in maniera responsabile – è un’enorme opportunità di mercato e di crescita. Cominciare dalla produzione è possibile.
SIMONE CICERO