Figli miei, confesso: non sono più un architetto

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Da anni mi sono rassegnato all’idea che quello che faccio, il mio lavoro, per essere più chiari con i termini, è quasi impossibile da definire.

Ogni volta che uno dei miei figli mi chiede quale sia la mia professione incomincia una penosissima (per me) descrizione fatta di strani contenuti: parole che non corrispondono alle realtà, azioni che non riescono in alcun modo a ricollocarsi in una delle figure lavorative tradizionali a cui eravamo abituati.

Man mano che parlo leggo il vuoto interrogativo negli occhi dei miei ragazzi e, alla fine, taglio corto e dico: architetto!

Il loro sguardo si fa subito limpido e rasserenato, e io mi allontano carico di dubbi sul senso che questa parola ha per me e per il senso di quello che faccio quotidianamente.

In effetti non è che io sia completamente impazzito. Il fatto è che sempre di più le diverse realtà che viviamo e attraversiamo ogni giorno in Italia, ma soprattutto fuori nel Mondo, stanno mettendo a durissima prova le parole con cui davamo senso alle cose. I termini con cui indicavamo quello che facevamo nella realtà.

E’ possibile chiamare ancora “città” una megalopoli lunga 120 chilometri e con diciotto milioni di abitanti? La casa, nell’era di Internet, è ancora un luogo privato e chiuso al mondo che sta fuori? E’ possibile chiamare “piazza” un grande spiazzo coperto in un centro commerciale dove ogni giorno s’incontrano centinaia di persone?

Questi anni saranno decisivi per il nostro prossimo futuro perché sono tempi di presa di coscienza.

Tempi di sperimentazione libera e di rifondazione generosa di tutta una serie di contenuti e parole chiave che daranno il senso e la direzione di quanto andremo a cercare e condividere nei prossimi decenni.

Ed è per questo che con Anna Barbara, socia e collega di avventure e ricerche, abbiamo deciso di ritmare la nostra presenza su CheFuturo! con un dialogo a distanza intorno a una serie di parole semplici. Parole in attesa di riformulazione, che partano sempre da storie minute che incontriamo nel nostro lavoro quotidiano.

Se ripenso quindi alla parola “architetto” o “designer” mi viene da sorridere. Succede quando sento discorsi di tanti colleghi universitari (soprattutto italiani) che parlano di questi antichi mestieri come di qualcosa che non muta nel tempo.

Questo vale per i fondamenti della professione, come per i temi e i problemi che affronteremo.

E proprio su questo le università non sembrano essersi accorte che il mondo fuori dalla loro porta è completamente cambiato!

I giovani architetti lavorano ormai in maniera completamente diversa e con modalità che stanno riplasmando, da sole, le pratiche e i modi di essere architetto oggi.

Gli studi più interessanti composti da giovani progettisti innanzitutto cercano di aprire i loro orizzonti verso realtà geografiche più accoglienti e aperte. Sono persone consapevoli del fatto che oggi spostarsi e comunicare costa una cifra irrisoria rispetto a quella affrontata dai loro colleghi solo pochi anni fa. Così, i nuovi studi di giovani autori italiani aprono a Barcellona, Parigi, Rotterdam, Londra. E insieme si attivano reti di collegamenti, scambi e professionalità che annullano ogni giorno i limiti novecenteschi dei confini nazionali.

Alla base della rifondazione del mestiere del progettista oggi ci sono tutte le forme possibili di social network e scambio open source, mentre la possibilità di appoggiarsi a più sistemi cloud permette una mobilità leggera e continuamente aggiornabile. Sia in modo individuale, sia in sistemi di scambio federativo.

Le scale dei progetti si stanno rimescolando con passaggi vertiginosi dai micron alle visioni territoriali, ma come tema di fondo rimane sempre una sola grande sfida:

Ripulire il nostro mondo delle scorie mentali e fisiche accumulate nel secolo precedente, e attivare forme progettuali diverse, ambiziose e consapevoli.

Ci dobbiamo ormai confrontare con temi come la decrescita sia demografica che di risorse su scala continentale; non dobbiamo più avere paura che demolire e riforestare sia considerato un tabù; dobbiamo usare come mantra benefico la sfida dello zero-consumo di suolo e della ridensificazione intelligente. Una dimensione aperta e sociale in cui ridiscutere confini e limiti tra individuale e collettivo, tra proprietà privata e condivisione di risorse, strutture e reti.

Il nostro rapporto con la Natura sta tornando a essere una straordinaria risorsa progettuale e culturale, senza cadere in quel “fascismo ecologista” paventato da troppi, ma considerando il rapporto con il paesaggio e con gli spazi verdi il vero investimento per tornare a respirare tutti e meglio.

L’architettura e il design dovranno riconquistare quella carica sociale e di ascolto del mondo in cui siamo immersi per ridare senso e peso specifico a quello che progettiamo ogni giorno.

E non è un caso che alcuni dei giovani progettisti europei più evoluti e sperimentali siano impegnati nel lavoro con ONG in Africa, Asia e Sud America. Là arrivano a testare materiali e contesti comunitari con una rara e delicata attenzione per gli spazi, il territorio in cui sono situati i lavori e le comunità con cui si confrontano.

Molti degli spunti che noi portiamo avanti tutti i giorni riguardano la ridefinizione strategica degli obiettivi che le grandi industrie vogliono portare avanti nei prossimi anni. Queste vogliono dirigere la loro attenzione a temi come la qualità diffusa e solidale degli spazi da abitare, la riduzione radicale del consumo di risorse, la capacità di produrre spazi e oggetti che nei prossimi anni non inquinino il mondo con il loro corpo e la loro materia. In parallelo, vogliono attivare processi di rieducazione dell’utente mirati a promuovere un uso delle cose e dei luoghi in maniera completamente diversa.

Tutti questi spunti e molto altro ancora, sono alla base della metamorfosi dell’antico mestiere dell’architetto che, speriamo, cambierà molto nei prossimi anni.

Tornando ad essere quella straordinaria commistione di arte e tecnica capace di dare forme e risposte ai desideri di abitare meglio e insieme il mondo che ci è stato affidato. E che stiamo ancora troppo maltrattando.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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