Non ricordo se fosse il 2008 o 2009, ma è stato all’ultimo ETech (Emerging Technology Conference) che ho visto – a San Diego, CA – che mi sono trovato dinanzi la prima pianta che mandava dei tweet e degli sms al suo proprietario quando necessitava di essere innaffiata. La trovai una cosa bizzarra, ma il mio cuore geek la apprezzò per quello che era: un piccolo lavoro di cesello fatto da un maker per il suo balcone.
Oggi, lo scenario che vedo di fronte ai miei occhi è quello di un fermento in cui ognuno di noi muove il proprio tassello di innovazione. Qualcuno preferisce viverlo dentro a quelli che Bruce Sterling ha recentemente definito i “silos della Rete”, ovvero i Facebook di turno; altri si divertono a fare SEO e contro-SEO, rischiando ogni giorno di più di varcare il confine tra marketing intelligente e neo-contafagioli; altri si dilettano di 3D printing e così via.
Tutti però viviamo immersi nel nuovo mare vasto che è la Rete. Una Rete che è stata Web 1.0, luogo di informazione disponibile always on e gratis ma ancora – tutto sommato – broadcast. Una Rete che già da anni è entrata nella fase Web 2.0, ovvero delle applicazioni real-time, e dei website come luogo di incontro sociale. Una Rete, che a ben guardare si è già diffusa molto oltre l’archetipo classico da PC desktop o portatile sulle ginocchia in zona divano, e che ha pervaso – con o senza browser – migliaia di luoghi diversi: telefonini certamente, ma anche bilance, cornici digitali, macchine per la misurazione della pressione sanguigna, automobili, microproiettori e microstampanti, internet radio, lampada, impianti di sicurezza e giocattoli di vario genere.
Il vasto mare in cui siamo immersi sta mutando ancora. La Rete degli oggetti connessi è già qui. Gli Oggetti connessi hanno superato il numero degli esseri umani presenti sul pianeta già nel 2008. E adesso, questo numero procede verso il suo tipping point: 50 miliardi di oggetti connessi – e per conseguenza del numero in parte autonomi – entro il 2020.
Lo scenario della Internet degli Oggetti è ben lungi dall’essere uno scenario monolitico. Nessuna fase dello sviluppo della tecnologia è mai stata più caotica e più simile ad un ecosistema. E in questo ecosistema si possono ideare, prototipare, mettere sul mercato un numero apparentemente infinito di prodotti. Guardando al limite minimo, direi esattamente il numero dei prodotti non ancora connessi che esistono oggi e che avrebbe senso connettere.
Già, ma cosa ha senso che sia connesso rispetto a ciò che non lo è? Inutile girarci intorno, l’unica risposta possibile è: tutto. Nessuno di noi probabilmente avrebbe investito un suo euro o un suo minuto per riprogettare la bilancia pesapersone che tiene in bagno. E neanche il termostato che c’è accanto alla porta di ingresso. Eppure, a ripensare questi oggetti come hanno fatto Withings e Nest, si comprende subito quale potenziale intrinseco fosse celato in quegli oggetti e quanto valore è possibile scatenare nel “liberarli dal loro isolamento”.
Come Kevin Kelly stesso dice in “What Technology Wants”, la tecnologia vuole ciò che la vita vuole.
Se per un attimo guardiamo ai “prodotti” di questa Era Internet, non possiamo non notare il continuo rimescolarsi e ibridarsi di pratiche e conoscenza. Gli artefatti si arricchiscono di layer digitali come i servizi digitali emergono continuamente in nuove protuberanze mobili, indossabili, sottocutanee, entrambe queste forze divergendo e gemmando – quasi per prova ed errore – sempre più numerose esistenze. Le quali evolveranno o diverranno rapidissimamente insostenibile spazzatura nel mondo.
Lo scenario – a seconda degli occhi dell’interlocutore – può apparire un revival del cyberpunk o una nuova era della magia (“Ogni tecnologia adeguatamente sofisticata è indistinguibile dalla magia” – Sir Arthur C. Clarke), ma la parte più incredibile di questo racconto è che questa tecnologia la stiamo facendo noi.
Non sono discesi i santi o gli alieni. Siamo noi, nei nostri R&D Lab ma ancora più spesso nei nostri garage a cercare la fusione nucleare fredda, sequenziare il DNA con apparecchiature da pochi dollari, stamparci un sostituto osseo o produrre con un open source hardware un piccolo impianto per irrigare il balcone, abbastanza stupido da chiamare noi al telefono anziché aprire un rubinetto.
Fuck the Spread! Non c’è mai stata una opportunità di innovazione e di business più grande del vasto mare di Internet al tempo degli Oggetti. Nessuno meglio di un maker può prototipare il futuro che desidera vivere. Nessuno più di uno startupper può provare a realizzarlo. Bisogna che questa sia una alleanza e bisogna che sia concepita per pensare in grande.
“Siamo qui per cambiare l’universo, altrimenti perché saremmo qui?” (Steve Jobs).
LEANDRO AGRO’