Chi è stato alla Maker Faire di Roma, chi se l’è sentita raccontare perché non ci è potuto essere, chi ci è stato un giorno solo e quelli che invece l’hanno costruita lungo tutta la settimana hanno provato una sensazione comune:
sono stati travolti da un’energia trasformativa straordinaria fatta di progetti ma soprattutto di persone.
Ancora non riusciamo a spiegarci esattamente qual’è stata la ricetta che ha portato a tale risultato. Ma alcune considerazioni possiamo farle specialmente insieme a qualcuno, come David Gauntlett, che negli ultimi due anni ha riflettuto su alcuni temi che sono al centro della Maker Faire dal suo inizio.
Pochi sanno, per esempio, che la Maker Faire di Roma è stata sí una fiera ma con un format particolare, mai collaudato in Italia in questo ambito, e che la avvicina più al modo in cui si organizzano le mostre d’arte rispetto alle fiere commerciali.
Nata nel 2006 negli Stati Uniti da un’idea di Make Magazine, è diventato negli anni un evento per famiglie e appassionati che vogliono celebrare un approccio DIY ( do it yourself, fai-da-te) alla scienza, alle invenzioni, all’artigianato e all’elettronica.
Il format è diverso perchè la maggior parte gli espositori/maker per partecipare devono presentare qualche mese prima un progetto e, se verranno scelti sulla base di quello, avranno a disposizione uno stand gratuito.
Nelle fiere classiche funziona invece in maniera opposta, gli organizzatori suddividono gli spazi in mq che poi sono venduti agli espositori che hanno la necessità di ritagliarsi uno spazio piú o meno grande di visibilità durante la fiera.
La Maker Faire a Roma ha quindi ospitato 230 maker di cui piú della metà italiani e il resto provenienti da tutta Europa.
Ha messo al centro i loro progetti, per la maggior parte dei casi non commerciali, per creare un’esperienza di valore e scoperta non solo per i visitatori, ma anche per i maker stessi.E loro si sono trovati circondati da progetti con cui confrontarsi e spesso complementari ai propri, ricreando quelle connessioni virtuose che caratterizzano la cultura Maker nel suo insieme e che per tre giorni abbiamo potuto sperimentare dal vivo in fiera.
Durante la conferenza che ha preceduto il weekend l’intervento di David Gauntlett, sociologo e teorico dei media, ha proprio approfondito questo aspetto riassumendo al pubblico i contenuti chiave del suo libro “Making is connecting” appena uscito nella traduzione italiana dal titolo “La società dei Makers”.
David ci ha raccontato in che modo il “making” sia importante per la società in cui viviamo, per attivare l’innovazione ma soprattutto per rendere le persone addirittura piú felici perché in grado di realizzarsi.
Questo il video della sua presentazione.
Nella prefazione al suo libro, Stefano Micelli fa una riflessione interessante, ossia nota come
l’affiancarsi di “fare” (da soli e insieme) e “condividere” (passione e documentazione) in rete ci consente di tradurre tale insieme di relazioni in nuovi rapporti sia economici che sociali sino a trasformare i luoghi della manifattura in spazi veri e propri di socializzazione.
Si spinge anche oltre dichiarando: “la rete è la piattaforma che connette, amplifica e consolida queste dinamiche economiche e sociali fino a far loro assumere le caratteristiche di un cambiamento epocale.”
Ho incontrato David durante le fiera per cercare di approfondire alcuni aspetti di cui racconta ne ‘La società dei makers’ e in particolare rispetto al modo in cui la collaborazione in rete sia trasformativa della societa.
ZR: In molti hanno notato come i media digitali e in particolare il web 2.0 ha creato un’infrastruttura aperta in cui molte piú persone sono in grado di imparare, esprimersi, partecipare e trasformarsi in comunità resilienti. Tale processo si sta espandendo e diffondendo cosí tanto che in alcuni casi è considerato come un attacco a veri e propri settori industriali che in alcuni casi crea. Un pó come la diffusione del p2p lo è stato per l’industria musicale.
DG: Oh si certo. La cultura del fai-da-te supportata da internet è diventata incredibilmente dirompente nei confronti delle professioni esistenti. Io lo reputo un fatto positivo.Un tema chiave del libro racconta come nel ventesimo secolo abbiamo imparato a essere “pubblico” di oggetti fatti da professionisti, e “consumatori” di cose create da produttori esperti.Tale condizione è interessante e gratificante per una piccola parte di professionisti, e potrebbe essere conveniente per il pubblico e i consumatori, ma non è necessariamente una gran cosa per la società nel suo insieme.
E’ troppo facile per le persone adottare quello che chiamo una cultura improntata sul “mettiti comodo e ascolta”, quando invece avremmo bisogno di una cultura del “fare e costruire”.La gente dovrebbe partecipare alla creazione di cultura, e lo sta davvero facendo quando fa qualcosa, lo condivide con gli altri e si attivano delle conversazioni.
Essere un consumatore di cultura va bene – in momenti differenti tutti facciamo attenzione alle cose che fanno gli altri e che sono interessanti.
Ma per mandare avanti una società c’è bisogno di più enfasi sull’aspetto creativo.
ZR. Interessante quando affermi che nel lungo periodo quello che rende felici le persone è la possibilità di avere il controllo su un progetto, quando fai un’attività dall’inizio alla fine mettendo le tue idee in pratica, per poi esserne fiero e condividerlo con gli amici e colleghi.
DG. Sí è proprio così. Alcune ricerche hanno esplorato proprio questo aspetto e nel libro cerco di mettere insieme le evidenze in cui si mostra come le persone sono più felici quando possono controllare un progetto e sono in grado di condividerlo all’interno di una comunità di persone interessate.
ZR. Non è facile però riuscire a raggiungere questo tipo di attività attraverso il lavoro con cui ci paghiamo l’affitto e le bollette, che, solitamente, è noioso e ripetitivo, o addirittura fintamente creativo. Pensi sia possibile raggiungere questi livelli di soddisfazione oppure siamo nell’ambito dell’utopia?
DG. Ci sono semplici meccanismi che i manager possono attivare così da dare ai lavoratori più controllo sui progetti – o, se possibile, almeno parti di progetti più grandi. Molte persone rispondono positivamente quando gli vengono assegnate più responsabilità e gli viene chiesto di assumere un ruolo più creativo. In questo senso penso sia un cambio positivo sia per i singoli lavoratori che per il prodotto finale.
ZR. Non è più una novità. Molti i mercati hanno già raggiunto la saturazione e per differenziare i prodotti, le aziende si appoggiano a valori immateriali per creare esperienze intorno al proprio brand che aumentino il valore del prodotto materiale.E’ iniziato come un trend legato a strategie di marketing ma ora, molte più persone si lasciano trascinare non tanto nell’acquistare qualcosa ma nel credere in qualcosa.
Il risultato è che la cultura maker derivante dal piú antico approccio DIY non solo fornisce loro valori più autentici ma crea dei manufatti dai codici aperti che coinvolgono le persone in un processo reale di attivazione e partecipazione.
Ti sembra che si stia diffondendo un’attitudine anti-consumista o si stanno attivando meccanismi diversi?
DG. Talvolta parlare di “anti-consumismo” sembra voglia dire che le persone si oppongano ad accogliere cose belle nelle loro vite. Ma tutti noi possediamo qualcosa e si sta meglio quando tali cose sono fatte bene, piacevoli e interessanti.Il cambiamento di cui parli riguarda il momento in cui le persone non vogliono solo cose già fatte – specialmente se non sono di buona qualità – ma anche se sono di buona qualità, perché diventa più eccitante e coinvolgente farsele da soli o insieme agli altri.
E poi questi oggetti entrano a far parte della cultura che ci circonda, ci aiutano a esprimere parte della nostra identità, a lasciare un segno nel mondo e mostrare cosa ti distingue dagli altri.
Inoltre, questi simboli culturali che hai prodotto diventano parte di una cultura collettiva che condividiamo con altri e che ci aiuta a construire significati e conversazioni.E’ una combinazione felice tra individualismo e collettivismo, in cui le persone possono dire la loro invece che arrendersi solo perchè qualche professionista sa come si comunica in modo più chiaro e distinto.
ZR. Hai esplorato quanto la capacità di resilienza e autodeterminazione delle comunità potrebbe crescere con l’accesso a macchine di prototipazione come stampanti 3D e per il taglio laser che sino a poco tempo fa non erano accessibili alle masse?
DG. C’è un sacco di attenzione intorno alla stampa 3D in questo periodo. Personalmente mi interessano tutte le tipologie di “making” e non solo la stampa 3D anche se ora rappresenta il nuovo. Si incontrano persone che stampano un sacco di oggetti inutili solo perché ne hanno la possibilità e mi sembra un po’ strano perché prima non avevo l’impressione che la mia vita avesse bisogno di oggetti di plastica inutili.
Alla Maker Faire di New York mi hanno peró confortato dicendomi che ora ci troviamo in un periodo analogo all’alba del Web.Le persone si entusiasmano, ci pasticciano, fanno un sacco di cose inutili perché lo possono fare.
Poi, col passare del tempo, arriveremo a una maturazione e sempre più persone realizzeranno anche belle cose. Da quel momento sono diventato molto più accomodante.
ZR. Ma cosa succederà, per esempio, quando in molti vorranno esercitare il proprio diritto di riparare i propri oggetti, mentre le aziende si imporranno per mantenere il controllo dell’obsolescenza programmata che gli assicura profitti?
DG. Bene, questo è un ottimo esempio in cui le nuove tecnologie possono aiutare le persone a spingere le aziende a migliorare il modo in cui si fa impresa. L’obsolescenza programmata non è positiva; se i consumatori possono aggiustare i loro oggetti o forzare le aziende a fare prodotti migliori e più sostenibili all’origine, è ovviamente un fatto positivo.
ZR. Si parla molto di interdisciplinarità in quanto luogo in cui l’innovazione accade con più frequenza. Per esempio come quando i programmatori incontrano designer, o gli artigiani incontrano i maker.Una delle sfide a cui dobbiamo rispondere è proprio la capacità di riuscire a comunicare superando i retroterra culturali che caratterizzano le varie discipline e che diventano un recinto quando i custodi si trasformano in guardiani che non lasciano passare più nessuno. Come affronti tali questioni?
DG. Non penso dovremmo preoccuparci dei custodi che hanno paura di essere sfidati. Il modo in cui la cultura del fa-da-te sta provocando editori, aziende e istituzioni si rivela sempre eccitante e rinfrescante.
Se il loro prodotto è sufficientemente valido e unico non dovrebbero avere nulla di cui preoccuparsi. Se invece, non fanno altro che fare i guardiani del proprio, allora in internet troviamo molti modi per scegliere e filtrare le cose che privilegiano aspetti più aperti e partecipativi.
C’è un caso da prendere in considerazione rispetto alla nuova cultura che presuppone che le cose creative come la musica dovrebbero essere libere, o più o meno libere nel momento in cui hai pagato una piccola quota mensile.
Alcuni sostengono che questa gratuità si rivela dannosa per gli artisti perché significa che non sono adeguatamente ricompensati per il loro lavoro creativo.
Penso sia vero ma questo non significa che la soluzione sia di tornare a un modello che ha gonfiato i cosiddetti “guardiani” (gatekeepers) che si sono tenuti la maggior parte dei proventi.
Abbiamo bisogno di creare modalità più efficaci per ridistribuire la ricchezza più di quanto si faccia ora e compensare i produttori creativi è perfettamente realizzabile se diventiamo un po’ meno compiacenti nel lasciare che un pugno di grandi aziende si appropri di tutto il valore generato online.
Il tema più rilevante quindi riguarda la capacità abilitante di internet e le connessioni creative che le persone possono realizzare.La maggior parte di loro, in ogni caso, non pensano di poter fare soldi con la loro creatività. O, se lo pensano, non è perché ritengano che i loro prodotti digitali possano produrre soldi in modo diretto. Ma piuttosto che la reputazione e l’ispirazione che ricavano da quello che condividono online li porterà a una ricompensa.
È proprio qui che l’interdisciplinarità di cui tu parli, entra in azione. All’università, nelle biblioteche e nelle librerie, conoscenze e pratiche sono divise in sezioni e soggetti. Nella formazione e nel lavoro, le persone spesso si specializzano. Online è diverso e le culture che si sviluppano tendono a mescolare i confini e le divisioni tradizionali – non si riescono più a individuare le divisioni, e ci rendiamo conto che non abbiamo bisogno di classificare ogni cosa. Le persone si incontrano nel solito modo, mettono insieme le idee provenienti da luoghi diversi e creano qualcosa di nuovo. Ed è sempre molto stimolante.