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Generazione sharing: perché credo che sia facile cambiare l’Italia

innovaizone

“La generazione mille euro. La mia, fino a ieri. Che poi: parlarne così oggi, non ha nemmeno senso. Cinque anni dopo, l’incubo si è fatto speranza. Generazione ottocento euro scarsi, dovrebbero chiamarla. Ma il problema, comun­que, non è mio. Non ora. Non più. Io ce l’ho fatta, da domani posto fisso e signor stipendio. E ho anche la casa di proprietà. Altro che stanza singola, coinquilini e pavimenti che si sfon­dano manco fossi in un film”.

Questo è l’incipit di Berlino sono io, il mio secondo romanzo uscito nel novembre 2010, seguito di Generazione mille euro. In quanti possono vantare una storia di questo tipo? E in quanti, invece, della generazione mille euro sono rimasti prigionieri?

I trenta e quarantenni in difficoltà sono tantissimi; i ven­tenni, invece, dalla loro hanno un vantaggio: diventano grandi senza un modello di riferimento.

Mi spiego: i trentenni e quarantenni sono cresciuti con l’aspettativa del posto fisso, del lavoro nella stessa azienda per tutta la vita, della casa di proprietà, del matrimonio. È il modello che hanno – abbiamo, visto che io sono del 1975 – visto fin da piccoli, quello dei nostri padri, l’unico che un tempo si riteneva possibile e immaginabile. Poi è accaduto che il mondo è cambiato e che il tassello centrale della vita fondata sul posto fisso, sul lavoro a tempo indeterminato, è venuto a mancare, decretando uno stato di incertezza senza fine. Capite bene che, per chi è cresciuto pensando che la pro­ pria vita si sarebbe svolta secondo una sequenza preordinata, questo è stato un trauma durissimo. Per chi, fin da bambino, si è immaginato un preciso schema di gioco, adattarsi non a un altro modello, ma addirittura a un non modello, risulta francamente complesso.

Il punto, infatti, è che il modello del posto fisso totale non è stato sostituito da qualcos’altro, ma è semplicemente scomparso, senza un’alternativa reale e prati­ cabile. Si è passati da un modello a un calderone di ipotesi che sono ancora in via di definizione.

I ventenni, invece, sono cresciuti senza esempi: fin dall’in­ fanzia hanno visto madri e padri che perdevano il lavoro, posti fissi che scomparivano, costante ricerca di un impiego, preca­ riato come unica possibilità. Insomma, prima di sperimentare sulla propria pelle tutte queste difficoltà, le hanno osservate su quella dei genitori, degli insegnanti, degli allenatori. A loro è stato detto che nulla sarebbe stato certo nella vita. Crescere in questo modo ha un doppio risvolto: fortifica e fa immaginare strade alternative.

Ecco perché il vantaggio competitivo dei ventenni è incommensurabile.

Nel luglio 2012 Mario Monti, allora presidente del Consiglio, dichiarò a Sette, il settimanale del Corriere della Sera, che ai trenta­quarantenni “le risposte corrette l’Italia avrebbe dovuto darle dieci, vent’anni fa, gestendo in modo diverso la politica economica, pensando di più al futuro e un po’ meno all’immediato presente”.Ha poi aggiunto: “Messaggi di speranza, nel senso della trasformazione e del miglioramento del sistema, possono essere dati ai giovani che verranno tra qualche anno. Ma esiste un aspetto di genera­ zione perduta, purtroppo. Credo che chi partecipa alle deci­sioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci seria­ mente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di generazioni perdute”.

In sostanza, senza giri di parole, Monti ha liquidato i tren­ta­-quarantenni come generazione perduta e invitato tutti a impegnarsi per far sì che invece i ventenni abbiano un futuro degno. Di quel discorso vanno apprezzate trasparenza e onestà, ma certo non si può esaurire la questione in un modo simile. Da quell’intervista è scaturita la risposta di un gruppo di per­ sone che ha dato vita al Manifesto della generazione perduta. Scrivevano i promotori sul sito web: “Noi siamo la genera­zione perduta. Siamo consapevoli che le responsabilità di que­ sta situazione sono di un’altra generazione: quella alla quale appartiene buona parte della classe dirigente che negli ultimi venti anni ha guidato questo Paese. Oggi i quasi dieci milioni di italiani che appartengono alla nostra generazione vengono considerati perduti e invitati ad accettare con rassegnazione un destino senza speranze né futuro. Praticamente, il risul­ tato di un esperimento dall’esito fallimentare, che ha avuto per laboratorio il Paese intero e noi come cavie. Dieci milioni di vittime sono un bilancio inaccettabile.

Eppure non ci sen­tiamo perduti.

Né abbiamo voglia di rassegnarci a un destino che altri hanno scritto per noi. Siamo professionisti, diri­ genti, giornalisti, docenti, ricercatori, imprenditori, cocopro, che non vogliono – e, visti i risultati, non possono – delegare ancora ad altri il compito di scrivere il proprio futuro e quello dell’Italia”. Individuavano poi cinque parole fondamen­tali, cinque tag attorno a cui unirsi: rispetto, merito, impe­ gno, progetto, fiducia. Cinque termini che in questo libro sono centrali. Cinque termini che gli stessi promotori di quel manifesto hanno evidentemente accantonato, dato che di quel movimento non se n’è fatto più nulla: dopo una iniziale espo­ sizione mediatica altissima, sono state raccolte appena 2.585 firme, su un totale di dieci milioni di trenta­quarantenni in Italia, e delle azioni promesse nei mesi successivi non si è più avuta notizia. Molto rumore per nulla.

Non credo che la generazione che fu prima delle speranze e poi dei mille euro possa essere considerata perduta: è però necessario un processo di integrazione con la generazione successiva, quella dei ventenni, che nasce più aperta, meno individualista, attrezzata per un cambiamento continuo, disposta a includere, fiduciosa e con le maniche ben rimboccate. È la generazione sharing.

Parlare di generazione sharing significa fare riferimento a coloro che della condivisione fanno non solo un semplice generazione sharing stile di vita, ma la filosofia primaria che guida scelte e azioni. Francesco Enrico Gentile, ventenne direttore dell’Osservato­ rio giovani che costruiscono il cambiamento dell’associazione Amesci, ha scritto su Servizio civile magazine: “La crisi eco­nomica e le difficoltà complessive di una generazione diventano lo strumento del cambiamento, in barba a cliché e luoghi comuni”. Sottolinea, cioè, come una serie di aspetti negativi divenga motore di un modo di agire, comportarsi, relazionarsi totalmente diverso e nuovo. Innovativo.

La condivisione, per la generazione sharing, si attua in cin­ que campi:

  • esperienze: questa generazione utilizza i social media per comunicare, confrontarsi, raccontare storie ed emozioni. Da Twitter a Facebook, passando per i blog, Instagram e YouTube, discutono di politica, condividono delusioni e successi, lanciano campagne sociali, manifestazioni, proteste e proposte;
  • servizi e prodotti: all’auto di proprietà preferiscono car­ sharing e carpooling, utilizzano servizi pubblici di affitto biciclette, nei viaggi scelgono il couchsurfing o l’affitto di appartamenti al posto dell’hotel, pensano a un futuro in co­housing;
  • idee: non hanno paura di diffonderle, anzi per loro la fi­ losofia dell’“uno più uno maggiore di due” è alla base di qualsiasi azione, così come lo sono la progettazione par­ tecipata e la co­creazione;
  • lavoro: il co­working, per questa generazione, non è sol­ tanto uno spazio comune di lavoro, ma anche un modo di intendere il lavoro stesso. Quando lanciano una startup non lo fanno mai da soli, ma sempre con dei co­founder;
  • responsabilità: sono social non solo in riferimento all’u­tilizzo dei social media, ma perché credono nell’etica e nell’equità sociale, cioè nella condivisione delle respon­ sabilità, nell’impegno diretto per migliorare la società e nel social business.

In più, i ragazzi della generazione sharing non sono esclusivi. Sono per l’inclusione di persone e generazioni, pronti quindi ad accogliere donne e uomini di qualsiasi provenienza ed età, che siano disposti a sposare, sostenere e promuovere un diverso stile di vita. Di fatto, insomma, non possiamo iden­tificare la generazione sharing con i millennials, i ventenni, perché sarebbe riduttivo e perché quando lo sharing diventa economy a sostenere e sfruttare questo tipo di economia tro­ viamo persone di tutte le età, in primis trenta­quarantenni.

Ecco perché non esiste una generazione perduta: non sol­ tanto perché gli italiani tra i 30 e i 44 anni sono 13 milioni, due terzi dei quali sono lavoratori attivi e rappresentano quasi la metà dell’intera nostra forza lavoro, ma soprattutto perché oggi esiste un nuovo valore, la condivisione, che va oltre le distinzioni di età. Lo sharing sta diventando minimo comune denominatore tra persone di ogni età ed estrazione politica, sociale e culturale. Si tratta di una tendenza in crescita e che affonda le proprie radici nel consumo collaborativo e nella sharing economy, indicata da Forbes come uno dei trend del 2014, definita da Wikipedia come “un sistema economico sostenibile costruito sulla condivisione di attività umane e fisiche. Include la co­creazione, oltre a produzione, distribu­zione, commercio e consumo condivisi di beni e servizi da parte di persone e organizzazioni diverse”. La sharing economy fa sì che si passi dal concetto di possesso a quello di condivisione. […]

Questo testo è tratto dal capitolo dedicato alla Sharing economy del libro di ALESSANDRO RIMASSA “E’ facile cambiare l’Italia se sai come farlo. 10 metodi che ognuno può mettere in pratica per ricostruire insieme il paese”, edito da Hoepli,

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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