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Giovani, studiosi, disoccupati. La “boomerang generation” fa rete

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Quella dei 25-30enni di oggi, in America, la chiamano la “boomerang generation”.

La ragione è semplice. Dopo aver studiato, fatto esperienze, stage, internship e quant’altro, questi post-adolescenti che all’epoca di Dante sarebbero stati nel mezzo del cammin della loro vita, oggi non si trovano nemmeno all’inizio di questo fantomatico percorso. Anzi, vengono ributtati indietro e sono costretti a vivere con i genitori e a farsi mantenere. Come dei ragazzini, anche se ragazzini non sono. Come dei liceali, anche se magari hanno in tasca lauree, master, perfino dottorati.

Una delle storiche copertine del New Yorker sulla “boomerang generation

Non succede solo in USA, chiaro. È un problema diffuso in tutto il mondo occidentale, Italia inclusa. Anche sei noi, giovani trentenni italici, non siamo poi in fin dei conti “studiosi” quanto il resto dei nostri coetanei: il numero dei laureati nella nostra nazione è il più basso d’Europa (fonte Eurostat) e anche quello dei dottori di ricerca non è poi così alto (fonte OCSE).

Come però ben dimostrano sia i dati sulla disoccupazione che le azioni a favore del terziario avanzato dell’ACTA, il vero problema – sia all’estero che soprattutto qui in patria – è doppio ed è un altro. Chi si laurea e chi studia poi si ritrova ad essere un “nuovo povero”, nel tentativo di perseguire una carriera lavorativa spesso impossibile da realizzare e da allineare alle proprie ambizioni, e in quello altrettanto arduo di sopravvivere alla sempre fulgida burocrazia italiana.

L’inchiesta del Daily Mail sulla “boomernag generation”. Credits: Dailymail.co.uk

Negli Stati Uniti però, a trovare una qualche soluzione pratica e concreta di sbocco lavorativo per chi ha studiato tanto (a prescindere da quante in effetti siano queste persone) almeno, ci provano. Un bell’esempio è il progetto Versatile PhD, nato per spiegare a chi ancora aveva o avrebbe l’ambizione di tentare una carriera accademica (forse una delle strade più difficili da percorrere, ovunque in occidente) che rinunciare a provarci non vuol dire avere, come unica altra opzione, quella di finire a lavorare in un bar.

Anche se si ha un dottorato in materie umanistiche.

Tutto sta nella capacità di capire le potenzialità di noi stessi (idea molto americana) e del nostro percorso formativo, e applicarsi per sfruttare entrambe le cose verso percorsi alternativi

Oltre l’università e verso il mondo del lavoro vero. Versatile PhD ora è un portale web e ha una bella community digitale, che connette dottori di ricerca di tutti i tipi tra gli USA e il Canada. Ma in realtà il progetto, fondato da un consorzio di università tra cui Yale e Harvard, esiste nella sua versione non web già dal 1999.

Una schermata della community

Oggi il portale (accessibile nella sua interezza solo previa registrazione) contiene consigli di carriera associati a esempi e storie di successo, una bacheca di offerte di lavoro per chi possiede un PhD, uno spazio di dialogo e scambio privato e sicuro (“nothing shows up in Google”, giurano).

Piacerebbe e servirebbe anche qui, uno strumento del genere. Un po’ più concreto rispetto ai servizi offerti dal sistema universitario italiano, che come pressochè uniche attività di mentoring post-universitario include i sondaggi e i curricula da compilare su Almalaurea e gli stage di 2-3 mesi

Perché non è detto (anche se non è del tutto sbagliato) che se si è italiani l’unico tipo di impresa che si possa mettere su è una pizzeria, come disse Briatore. E non è detto che studiare (anche tanto, anche facendo un dottorato) sia inutile, anzi

È assolutamente vero però che la teoria, da sola, non porta da nessuna parte. Per andare avanti serve spirito imprenditoriale e da self-made-man. Insomma, un po’ di buon vecchio pragmatismo spicciolo americano.

FRANCESCA MASOERO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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