«Chi sono davvero gli influencer? Cialtroni. Di dimensioni cosmiche. Convinti di poter vivere di vuoto social, di selfie e di markette». Inizia così un divertissement di Domenico Nasi sul Fatto quotidiano che attacca la bolla degli influencer che l’autore si augura scoppi presto.
Il testo è spassoso e assesta colpi ben dosati a tutti gli influencer e, soprattutto, ai wannabe, ragazzini e non, il cui sogno è, un giorno, diventare la nuova Chiara Ferragni. O chi per lei.
Ma, leggendolo, vengono almeno due dubbi.
Il primo ha il sapore del déjà-vu.
Prima li chiamavamo blogger, ora influencer, ma la polemica pare la stessa di una decina di anni fa.
Accadeva quando ai primi pionieri della Rete che avevano aperto blog riscuotendo un certo successo le aziende offrivano prodotti in prova o in regalo in cambio di recensioni.
Se ne discusse molto allora nella blogosfera, in post che si citavano l’un l’altro, in barcamp (te li ricordi i barcamp?) e qualsiasi altra occasione di incontro tra blogger. Che poi alla fine la questione era quella: blogger che discutevano con blogger dell’opportunità per i blogger di adottare certi comportamenti. E tutto il mondo fuori.
Che male vi hanno fatto gli influencer?
C’era chi accettava regali in cambio di recensioni senza dichiararlo ai propri lettori, chi lo dichiarava, sentendosi così a posto con la propria coscienza perché la professionalizzazione dei blogger pareva inevitabile, quando non auspicabile, e chi riteneva che chi esce da una dinamica sociale (scrivere per il piacere, generalmente inteso, di condividere con la propria community) per entrare in una editoriale (scrivere su richiesta di un “editore”, in senso lato) cambia capo di gioco e risponde a regole diverse.
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In effetti cambia il tipo di responsabilità (anche in termini di aspettative), si realizza un’asimmetria nella quale i propri interlocutori diventano audience e non sono più interlocutori alla pari che, con la propria competenza, possono contribuire ad arricchire il sistema. Quest’ultimo è il parere, per esempio, di Mafe de Baggis.
È giusto influenzare le opinioni delle persone per un biglietto alla sfilata?
Oggi si parla più genericamente di influencer perché lo strumento che viene usato non è più (solo) il blog, ma una varietà di social network più o meno specifici e settoriali. Ma la questione resta identica: è giusto che una persona utilizzi la propria presenza online per trarre una qualsiasi forma di profitto, che sia il biglietto gratuito per il cinema o una conferenza retribuita? E in che modo è giusto, corretto, rispettoso delle relazioni che costruiscono la presenza online di quella persona? Fino a che punto è giusto spingersi, trasformarsi in paid media senza tradire la fiducia che sta alla base delle relazioni offline e di quelle online, della reputazione che costruisce il successo di un influencer?
Tutte domande a cui si è già più o meno risposto nel dibattito sui blogger anni fa, ma che non è ozioso riproporre e riproporsi, alla luce delle mutazioni degli ambienti che abitiamo online.
Domande che, però, non compaiono nell’articolo di Domenico Nasi, il quale probabilmente ha già deciso da che parte stare: pensare di essere “pagati” (in qualsiasi forma) per farsi strumento di promozione di prodotti e servizi presso la propria audience è sbagliato.
Ci troveremmo di fronte a un esercito di braccia rubate all’agricoltura che rincorrono un sogno che non è solo impossibile, è anche ridicolo: guadagnare dalla propria presenza online.
Ma i paraculi sono le aziende o gli influencer?
Quello che manca è il soggetto. Chi è che paga queste persone e perché lo fa? Chi costruisce quel sogno? Chi lo alimenta? Chi vuole che per migliaia di ragazzini l’idea di realizzazione consista nell’apparire, in qualsiasi modo, in TV? Chi ha fatto in modo che si sia diffusa l’idea che esiste una scorciatoia al “successo”, intendendolo come “realizzazione di sé e costruzione di un proprio autonomo percorso di vita”?
E, attenzione, non sto assumendo atteggiamenti complottistici insinuando esistano oscuri poteri che, nell’ombra, tramano affinché intere generazioni mettano più impegno per partecipare all’ultima edizione del Grande Fratello che per laurearsi con profitto. È un fatto, però, che un complesso insieme di fattori ha costruito la società in cui viviamo, quella in cui vivono i wannabe influencer che della nostra epoca, dei suoi sogni, dei suoi obiettivi possibili e di quelli possibili sono figli, oltre che agenti che rafforzano e perpetuano dinamiche.
Prima di prendermela con i ragazzini che sognano di campare di snap su Snapchat e foto su Instagram cercherei di capire qual è la responsabilità, per esempio, delle aziende che li usano, che li illudono che con una snap e una foto si possa campare, che evidentemente trovano conveniente, nel mondo connesso e social in cui viviamo, ingaggiare influencer invece che attivare forme più antiche di promozione. Avendo presente che anche quelle aziende sono solo uno dei raggi della ruota, non sono la ruota e di sicuro non sono la prima ruota del carro.
L’obiettivo dovrebbe essere scendere dal carro e aiutare a scendere chi ha meno strumenti per difendersi. Fermare quella ruota. Non accusare chi, non vedendo alternative, decide di salire sperando che così il percorso si accorci.