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Grazie Obama, adesso i politici corrono tutti sui social (e le elezioni non finiscono mai)

innovaizone

Siamo in campagna elettorale. Ancora. Nel senso di “di nuovo”, e lo specifico perché in questo paese la campagna elettorale è iniziata un quarto di secolo fa e pare durare ininterrottamente da allora. Siamo un paese così affezionato all’idea di essere in campagna elettorale che, quando non ne abbiamo una noi, prendiamo a prestito quelle degli altri.

Hillary Clinton. Credits: wdtv.com

Per esempio, la campagna di Hillary Clinton che ha annunciato la sua candidatura alle primarie democratiche per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo con un video caricato su YouTube.

Un video particolarmente emblematico e significativo, per chi si occupa di comunicazione, di comunicazione online, di comunicazione politica.

Intanto, è un video lungo per i tempi del web. Due minuti e 18 secondi in cui mi sono trovata diverse volte a pensare: «Ma non mi avevano detto in lungo e in largo che il video ideale dura il meno possibile».

E mano a mano che scorrevano le immagini di persone comuni – e di Hillary Clinton nessuna traccia – che raccontavano a quale nuovo inizio si stavano preparando, mi chiedevo perché accidenti lo stessi guardando, fino al momento in cui quel perché mi è diventato chiaro: perché quelle persone avrei potuto essere io. Quelle persone ero io (o meglio, sarei stata io se fossi statunitense e vivessi con quello stile di vita lì e quelle aspettative lì) e quello mi stava dicendo Hillary, e mi diceva esplicitamente negli ultimi secondi di video: se io sono qui, se mi sto candidando, è perché ci sei tu e tutte le persone come te che compongono, come tessere di un mosaico, uno stile di vita che io mi candido a rappresentare e difendere nel mondo.

Credits: thefiscaltimes.com

Da Obama in poi, negli Stati Uniti le campagne elettorali sono diventate lo spazio e il tempo in cui le persone prendono la parola, viene data loro voce, diventano protagoniste. Ciascuno è chiamato a fare la propria parte per il candidato. E non potrebbe essere altrimenti, in un mondo in cui la comunicazione, ormai disintermediata, si fa su piattaforme che vivono grazie a noi e ai nostri contenuti.

Noi siamo i protagonisti di ciò che ogni giorno esprimiamo con la nostra stessa voce amplificata da Facebook o Twitter.

O più o meno. Perché, come sappiamo, la presunta orizzontalità dei social media nasconde in realtà nuove forme di gerarchizzazione: diffuse, meno evidenti, ma non meno verticali. E perché la presunzione di avere voce in capitolo dura lo spazio di una campagna elettorale in una società che, pur comunicando in Rete, non è ancora diventata a rete e in cui le gerarchie sopravvivono, inattaccate e inattaccabili.

La disintermediazione, insomma, non è che simulata, nella migliore delle ipotesi, strumento per indebolire i deboli, nella maggior parte dei casi.

Buon lavoro, Presidente Mattarella. Viva l’Italia!

Posted by Matteo Renzi on Sabato 31 gennaio 2015

E in Italia?

Anche in Italia, ovviamente, le campagne elettorali vivono sul web. Nella maggior parte dei casi i candidati vivono il web come un male necessario: uno strumento di cui non capiscono le dinamiche, in cui si adotta un linguaggio che non padroneggiano, ma che decidono di abitare perché una strana equazione impone di essere rintracciabili online, anche se non si è capaci di starci. Nella testa di molti politici nostrani il web è come la televisione, però non costa nulla: se uno spot in tv costa un sacco di soldi, una pagina Facebook (aperta e gestita dal nipote del vicino di casa, che è bravo col computer) non costa nulla. Il web per questi politici ha la stessa unidirezionalità della televisione: arrivano, rilasciano la propria dichiarazione, se ne vanno. Tanto nessuno può rispondere.

O quasi.

Quasi, perché a volte c’è chi risponde. A volte risponde sollecitato dallo stesso politico, o meglio, dal consulente del politico, che inventa improbabili modi per coinvolgere cittadini ed elettori in un improbabile confronto ad armi impari dal risultato certo. Perché quando l’ascolto, il dialogo, la partecipazione non sono strumenti abituali dell’agire politico, gli strumenti da soli non spostano di un metro la distanza tra cittadini e classe dirigente. E però, se male utilizzati, possono creare notevoli danni.

Siamo ormai abituati a un Presidente del Consiglio che twitta, vertici di maggioranza annunciati con foto su Twitter, con grande fastidio per i fotografi di mestiere.

Abbiamo avuto question time di Presidenti del Consiglio su Twitter e siamo abituati a leggere commenti alle riforme in corso di votazione da parte di ministri e parlamentari.

Il premieri Matteo Renzi. Foto: studenti.it

Eppure non abbiamo l’impressione che il paese in cui viviamo sia più inclusivo, favorisca maggiormente la partecipazione. Non ci sentiamo più protagonisti della vita civile del nostro paese. Anzi, se possibile ne siamo lontani come non mai.

Se gli strumenti offerti dal digitale fossero realmente interiorizzati, se pensare digitale diventasse la norma, il web diventerebbe uno strumento al servizio del nostro vivere in collettività, non solo un canale in più attraverso il quale fare le stesse cose che si fanno da sempre.

Senza scadere in un facile entusiasmo per la Rete e la tecnologia, è indubbio che la possibilità di costruire reti di persone e idee indipendentemente dai limiti imposti dallo spazio e dal tempo sia un’opportunità unica della nostra epoca.

Un’opportunità che aspetta di essere colta nella sua pienezza. Forse perché abbiamo bisogno che a disegnare il nostro mondo siano persone che nel digitale sono nate e cresciute.

E allora, ben vengano i video che mi mettono al centro della campagna elettorale, facendomene sentire protagonista, ben venga la app per smartphone per coinvolgere elettori e sostenitori nella campagna elettorale, ma meglio ancora se la partecipazione e il coinvolgimento escono dalla rete e si fanno azione politica. Non perché ci sia contrapposizione tra reale e virtuale, tra Rete e mondo tangibile: ma perché la Rete formi un poco di più il mondo e il suo modo di funzionare, dopo averne profondamente modificato il modo di pensare.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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