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Guardate la mia startup, non il fatto che sono una donna please

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Bolla o meno, si fa certo un gran parlare di startup, in Italia come nel resto del mondo. E aumentando in generale il numero di articoli sul tema, viene a galla anche un argomento correlato: la scarsa presenza di donne.

Il 2012 è iniziato con un augurio da parte di Alberto Onetti, co-fondatore della business plan competition Mind The Bridge, affinché quest’anno sboccino più “startup rosa”. Mi sono trovata citata nell’articolo tra le donne italiane che “ci stanno provando” a portare avanti una startup, e ciò mi ha fatto sentire certamente lusingata, anche se, allo stesso tempo, etichettata come parte di un fenomeno che non sono sicura abbia senso esistere.

L’articolo ha scatenato un effetto a catena: sono seguiti altri interventi (un follow-up di Onetti stesso e un paio di articoli di Riccardo Luna) e diversi thread sul gruppo Facebook Italian Startup Scene.

Perché il tema donne e startup è uno di quelli che spacca a metà l’audience, e non necessariamente con uomini da una parte e donne dall’altra.

L’articolo di Onetti citava uno studio fatto all’interno del progetto Startup Genome, che sta producendo diverse statistiche interessanti sugli ecosistemi startup mondiali. Questo sostiene che le donne sono meno propense al rischio, hanno paura di chiedere soldi ai VC e sono troppo trasparenti e prudenti, nel senso che non pensano abbastanza in grande. Queste generalizzazioni hanno suscitato reazioni forti da parte di alcune startupper italiane, che hanno ribattuto citando doti femminili non riconosciute e altri fattori che non favoriscono la presenza femminile in ambiti lavorativi prevalentemente maschili.

Gioia Pistola, co-fondatrice di Atooma, risponde all’articolo di Onetti evidenziando che le donne a suo parere sono dotate di “pragmatismo, empatia, tenacia e abitudine a fare il doppio dei task”, e questo le aiuta ad avere buone performance anche in ambito startup.

Elena Favilli, co-fondatrice di Timbuktu, risponde invece con un blog post in cui critica il valore scientifico dello studio dello Startup Genome. Elena ribatte citando uno studio di Catalyst, ripreso da Forbes, che sottolinea come le donne, a parità di curriculum e posizione all’interno di un’azienda, ricevono stipendi più bassi e un minor numero di promozioni rispetto agli uomini. In conclusione, suggerisce di dare semplicemente più valore e potere alle donne.

Mi viene da pensare che la reazione sia stata anche dovuta al fatto che si è trattato di articoli (e studi) sulle donne scritti da uomini. Ma le donne sono maggiormente capaci di rappresentare la loro condizione in modo empatico e condivisibile? Pare di no. Al ricorrente appello “servono più donne startupper”, Penelope Trunk risponde su TechCrunch che se ci sono poche donne è perché preferiscono fare figli e avere un lavoro meno rischioso, preferibilmente parttime.

E anche questo articolo riesce a spaccare l’audience in due, con critiche sia da parte di donne che di uomini (uno dei miei preferiti, di Anik Doht: “the tone sounded like my wife when she’s mad at me for not taking out the trash”).

La risposta “ufficiale” arriva subito per mano di Alexia Tsotsis, che su TechCruch spesso lotta apertamente contro stereotipi e luoghi comuni espressi nei confronti delle donne. Il tono di Alexia è a dir poco rabbioso e l’articolo si trasforma in un contrattacco che lascia da parte scientificità e diplomazia, e si conclude con un appello agli uomini che hanno potere decisionale sulle assunzioni: “I am driven, so please don’t discount me based on gender”.

Nel frattempo sempre il nostro Startup Genome rivela che a New York ci sono il doppio di donne fondatrici di startup rispetto alla Silicon Valley. E forse il numero sta crescendo, dato che nell’ultima edizione di TechStars NYC, uno tra i più famosi acceleratori al mondo, quasi la metà delle startup scelte hanno una donna come co-founder. Infatti fa notizia, l’articolo su TNW si intitola: “TechStars NY announces its latest class of startups, featuring 6 female founders”. Di rimpallo, dalla Silicon Valley arriva una risposta del tipo “le donne ci sono anche qui!”, che però a confronto sembra ancora deboluccia: Kim-Mai Cutler, di solito avversa agli articoli sulle donne-in-startup, annuncia fiera su TechCrunch che all’ultimo demo-day di Y-Combinator, altro acceleratore molto famoso, quasi un 10% delle startup avevano almeno una donna come co-founder.

Il dibattito dunque continua senza soluzione di continuità, senza portare segno di un consenso, e sempre con reazioni molto forti e contraddittorie. Io personalmente fino ad ora ho deciso di non entrarci. Avrei voluto, ma sinceramente una mancanza di opinione mi ha bloccato, e me ne sono stata zitta. E invece ora eccomi qui ad affrontare l’argomento. Come donna startupper ho quasi una spinta morale a dire la mia a questo punto, anche se non me la sento di proporre generalizzazioni o analizzare gli studi, perché penso che le prime finiscono sempre per essere poco rappresentative e non trovo i secondi particolarmente convincenti, piuttosto strumentali a sostenere specifiche argomentazioni. Parlerò perciò della mia esperienza personale, e più che altro delle sensazioni che questa mi ha suscitato.

Che ci sia una maggioranza di uomini nella scena startup è piuttosto evidente. Avendo lavorato in un campo tecnologico per diversi anni prima di aprire una startup, per me non è stato un grande shock. Andare a grandi conferenze piene di ingegneri, informatici e interaction designer significa perlopiù trovarsi in un “sausagefest” (suona un po’ male ma è anche il titolo di un panel sul tema presente nell’edizione 2011 di South By Southwest). Devo ammettere che, rispetto all’ambiente di ricerca di interazione uomo-macchina, negli eventi startup si vedono ancora meno donne. La domanda è: mi sono mai sentita discriminata in questo contesto? Sicuramente non in modo volontario. Alcuni articoli sul tema donne-startup mettono in evidenza come gli uomini, trattasi di investitori come di startupper, fanno una certa fatica a relazionarsi con modelli che non rientrano nello standard a cui sono abituati.

In effetti è capitato che alcuni uomini, soprattutto in posizioni di potere, mi abbiano approcciato con diffidenza e preferito rivolgersi a uomini nella mia stessa posizione. In altri casi, mi sono sentita considerata un po’ come un animale da circo e vista come donna piuttosto che startupper. E posso assicurare che questo non succede solo in Italia. Mi ricordo quando la mia socia Johanna è tornata da un meetup a Londra infuriata per essersi sentita giudicata per il look e il modo di vestire da parte di alcuni uomini. Questi comportamenti sono per fortuna abbastanza rari, spesso dovuti al fattore precedentemente descritto, ad aspetti culturali, o semplicemente generati dall’ignoranza. Ma possono decisamente contribuire a far sentire una donna a disagio e fuori posto.

D’altronde non necessariamente le donne sono in grado di far sentire le altre a proprio agio, soprattutto se ricoprono ruoli di potere. Non ho avuto ancora esperienze negative nell’ambito startup (anche perché ne ho conosciute davvero poche), ma nell’ambito della ricerca ho più di una volta avuto a che fare con donne che mi hanno reso la vita piuttosto difficile. Mi rendo conto che può essere arduo raggiungere cariche elevate anche nell’ambiente accademico per una donna, ma dimostrare avversione e anche invidia verso altre che stanno intraprendendo la stessa carriera certo non migliora la situazione.

Quando poi il dibattito sulla condizione della donna in ambienti lavorativi prevalentemente maschili comincia a ricevere una massiccia copertura da parte dei media, allora improvvisamente ti trovi ancora più al centro dell’attenzione e ti chiedi anche il perché. Cosa ho io di diverso? E cominci seriamente a riflettere sulla tua condizione, sul perché fai quello che fai, più di quanto non lo fai ogni giorno quando ti svegli. Ti chiedi perché tu come donna abbia bisogno di fare questo lavoro extra di auto-analisi e ti rendi conto che non ti sei mai chiesta prima se è davvero così strano l’aver scelto di intraprendere una carriera del genere essendo una donna. Io ho fatto il mio percorso, è stato ed è ancora travagliato, e al momento ho una startup. Punto. Poi ti senti continuamente ribadire l’ovvio, e cioè che sei parte di una minoranza, e ti vedi rinchiusa in una sotto-categoria con caratteristiche del tipo “sei una donna con le palle perché hai una startup”.

Oppure “ora sei parte di una startup rosa”. Ma perché rosa? Io odio il rosa. Io sono parte di una startup. Punto.

Detto ciò, concordo che al momento essere una donna startupper richieda forse più coraggio e tenacia che essere un uomo, visto il contesto ancora in parte poco favorevole. Così come essere un italiano startupper richiede forse più convinzione e propensione al rischio rispetto a essere californiano (come suggerivo nel mio articolo del mese scorso), considerando che l’ecosistema startup della Silicon Valley è decisamente più favorevole.

Poi c’è anche l’altro lato della medaglia. Siccome sei una donna e sei una minoranza, sei nello spotlight, hai i riflettori puntati addosso. E siccome fa moda e fa figo, come donna vieni invitata spesso a eventi startup, anche come speaker, si parla di te e hai chance maggiori di vincere contest. Personalmente anch’io sto sfruttando quest’onda. Perché non dovrei? Intorno all’8 marzo mi sono fatta un bel tour di eventi e probabilmente in parte l’essere donna startupper è anche uno dei motivi che mi ha portato a poter far sentire la mia voce qui. Sono certo contenta di avere visibilità e opportunità, ma ormai non posso che chiedermi ogni volta che cosa venga prima, l’essere una donna, o l’essere una brava startupper. È un dubbio amletico che mi affligge e che non è nato da me, ma che ora si proietta come ombra (e luce) sulla mia carriera.

La verità è che preferirei essere vista prima di tutto come startupper, vorrei non essere trattata come “diversa” e vorrei che mi venissero date pari opportunità rispetto agli uomini (e tutto ciò suona anche troppo femminista per i miei gusti). Penso che non sia giusto neanche per gli uomini che le donne ricevano maggior attenzione; mettendomi nei loro panni penserei “almeno loro hanno più possibilità di essere notate”, ed è vero. E penso anche che non sia così necessario portare avanti un dibattito del tipo “vogliamo più donne startupper” perché non ha molto senso. Le donne devono aver la possibilità di fare questa scelta, poi se decidono di farla oppure no è un loro problema. Infine penso che ci siano ancora troppi stereotipi sul tipo di startup fatte da donne. Può essere vero che un’alta percentuale di donne si occupino di prodotti che riguardano shopping, matrimonio, bambini, ma non rinchiudiamole tutte in un numero definito di spazi semantici. E soprattutto, non discriminatemi se non rientro in uno di questi spazi. Io sono appassionata di musica, e di quello sono esperta. Punto.

Sebbene non appoggi a pieno il dibattito donne-startup, penso che abbia in parte contribuito a una crescita del numero delle donne che vengono selezionate all’interno di incubatori, acceleratori e contest. Si parlava prima di Techstars NYC e del fatto che il loro programma appena cominciato ha quasi la metà di donne fondatrici. Io sono stata all’evento TechStars for a day a New York lo scorso gennaio insieme a circa altre 70 startup preselezionate, e posso assicurare che la presenza femminile arrivava a malapena al 10%. Il fatto che siano state scelte così tante donne rispetto alla media dei partecipanti può voler dire diverse cose. Principalmente, o che le donne sono meglio degli uomini nel fare startup, o che i responsabili del programma hanno voluto essere “politically correct” e mantenere una ratio equilibrata tra uomini e donne.

Per quanto mi piacerebbe pensare che la prima sia vera, sono propensa a puntare sulla seconda. Penso comunque che questo bilanciamento sia un buon segno, anche per creare un ambiente più variegato all’interno del programma stesso, e per incoraggiare altre donne startupper. Che poi l’essere donna sia ancora un fattore predominante e che una selezione del genere possa fare notizia sono forse parte del prezzo che ora dobbiamo pagare. Quando entrambe le cose non ci sanno più, sarà il segno che noi donne abbiamo raggiunto l’emancipazione anche nel mondo startup.

In conclusione, chiederei agli uomini investitori, giornalisti, startupper di provare a vederci prima di tutto per quello che facciamo e per il nostro contributo alla scena startup, e passare sopra al fatto che siamo donne. Di cercare di mantenere un equilibrio se possibile tra presenza maschile e femminile all’interno di programmi di incubazione, pitch contest, articoli sul tema startup, ma senza sottolineare il genere che in fondo è irrilevante. E alle donne che ricoprono ruoli di potere di mostrare empatia e supporto verso le altre che stanno cercando di scalare la montagna, lasciando da parte invidie e quell’atteggiamento da “se ho sofferto io devono soffrire anche le altre”. Perché se non ci aiutiamo a vicenda prima di tutto, è inutile che ci lamentiamo della nostra condizione.

Cosa suggerisco alle donne che vogliono aprire una startup? Che se vi è venuta questa idea, vuol dire che avete tutte le carte in regola per farlo. Il resto è storia, la vostra storia. E, credetemi, sarà avvincente ed irta d’ostacoli, così come quella di qualunque altro startupper.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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