A me la pubblicità di Enel è piaciuta subito.
Mi è piaciuta l’intenzione, la creatività, lo stile del video, la bellezza delle pagine stampa, di ogni fotografia e delle parole che l’accompagnano… Parlo da creativo, da professionista e docente, attento ai linguaggi della comunicazione e a come la nostra retorica sa coinvolgere, raccontare, costruire ancora suggestioni di grande impatto visivo.
Peccato per quell’hashtag e per la rincorsa allo storytelling digitale che fa tanto duepuntozero e ci rende tutti un po’ più simpa.
Peccato, perché la Rete è piena di socialmediaguruexpertpionierivisionarieveterani dell’Internet. E questi hanno il comando breve sulla tastiera che scrive “epic fail” alla prima incertezza, ma non è di loro che dobbiamo curarci. Perché loro sono come i tanti allenatori al bar, prima e dopo le partite della nazionale.
Sono il rumore di sottofondo necessario, ma Prandelli non si basa su questo per scegliere la sua formazione.
Dobbiamo invece curarci dei guerrieri veri. E allora sì, forse questo hashtag ha peccato di leggerezza. Si è fatto prendere la mano e ha sottovalutato la rabbia e la frustrazione dei tanti che lottano e che stanno perdendo la loro battaglia.
Quando scegliamo lo storytelling, dobbiamo avere un lieto fine tra le mani, il territorio narrativo dev’essere condiviso e il patto con il lettore dichiarato subito, nella prima riga del nostro scrivere.
Qui ci si rivolge ai guerrieri, ai tanti guerrieri della vita, dimenticando i tanti che stanno cadendo in battaglia e che forse non sapranno come rialzarsi.
E ancora, lo scrivo con grandissimo e profondo rispetto del lavoro di tutti i colleghi che hanno firmato questa campagna, forse valeva tentare un estremo atto di coraggio: rinunciare al logo su ogni oggetto di comunicazione.
Lanciarla questa conversazione. Lanciarla così. Con quel video, con quelle pagine, con un sito internet e un hashtag pronto a raccogliere ogni testimonianza. Bella o brutta.
E poi osservare. Senza loghi di mezzo. Osservare la conversazione. Monitorarla. Ascoltare le storie positive e quelle negative. Un po’ nascosti. Tra le righe. E capire poi, solo dopo, come inserirsi in quel thread, senza chiamarlo storytelling, perché quelli che scrivono i libri sullo storytelling non fanno il nostro mestiere e gli uffici marketing sono diversi dalle aule universitarie.
Facile scriverlo adesso. “Del senno di poi, son piene le fosse”, ma qui abbiamo tutti una lezione da imparare e questa bella campagna ci sta insegnando a fare un passo indietro, quando la pubblicità si avventura sui nervi scoperti e non tutte le marche possono permetterselo.
Anzi.
@iabicus