Il 20 giugno si è tenuta la serata di presentazione dei progetti selezionati attraverso il maker contest attivato da Make in Italy. È stata un’occasione per conoscere un po’ di persone interessanti, per provare a far crescere nel settore sanitario la consapevolezza dell’efficacia delle nuove tecnologie, e per iniziare a creare massa critica.
Personalmente, il confronto con gli investitori che hanno partecipato, rientranti per lo più nella tipologia dei business angel, mi ha permesso di capire meglio il settore, costringendomi a pensare alle criticità che occorre comunicare, pensare e rimuovere al più presto.
L’imitazione
Se devi investire di tasca tua qualche migliaio di euro, ti domandi naturalmente non solo quanto puoi guadagnare, ma quanto puoi perdere. Ecco allora che investire in un progetto che possa essere facilmente imitato diventa molto impegnativo.
Occorre capire se ci sono brevetti, se servono effettivamente a qualcosa. Perché tra i grandi player mondiali ci sarà presto o tardi qualcuno che verrà a copiarti e distruggerti. Diversi pensano di poter vendere a loro la propria impresa: in molti casi si riesce. Ma temo che la realtà sia più infida, perché offre diverse alternative. Entrando subito in argomento, una grande azienda che entra più tardi sul mercato può, nell’ordine:
- valutare il successo del first mover;
- copiare le soluzioni tecniche o migliorarle;
- spostare cifre da capogiro sulla promozione;
- utilizzare enormi economie di scala;
- puntare su una distribuzione ampissima.
Non si tratta di ipotesi: l’attuale mondo dell’high-tech è retto in buona parte da prodotti in cui ci sono state forti imitazioni reciproche, basti pensare agli smartphone e ai tablet, nati (o riesplosi) seguendo da vicino progetti di successo.
Nello sviluppo del mercato degli indossabili sono evidenti le imitazioni in ambito di smartwatch e di wristband, con interessanti dinamiche tra big player e start up. Xiaomi, tra i produttori di smartphone di maggiore successo, ha appena lanciato un braccialetto da fitness da 13 dollari, un prezzo che mette fuori gioco molti concorrenti.
Mi domando allora, per essere franco, chi continuerà a comprare il Peeble (smart watch protagonista di una campagna di crowdfunding di successo) ora che sono uscite Samsung, Sony e presto uscirà Apple? Se hai atteso un anno per la consegna, perché non pazientare ancora un po’ e comprare Apple? I dati di vendita sembrerebbero già darmi ragione.
Ogni consumatore dovrebbe domandarsi che cosa cerca, se la novità o il buon prodotto.
Davvero ha senso accontentarsi di prodotti ancora imperfetti, a volte un po’ artigianali (se comprati su Kickstarter), non sempre dal grande design, quando società già affermate potrebbero riprodurli nel giro di pochi anni?
Considerando che i produttori di componenti sono gli stessi per tutti, la copia è facile. Non facilissima, per fortuna.
I fattori che rallentano l’imitazione
Tra i fattori che rallentano l’imitazione c’è, in primo luogo, il rischio di rovinarsi il brand: un big player come Apple non può permettersi di fare un prodotto medio, e impiega quindi il suo tempo per entrare nel mercato dopo un periodo di progettazione e test approfonditi.
Alcuni brand oggi hanno completamente esaurito il proprio fascino, penso per esempio a Sony, e non è detto che riescano a riconquistarlo. In terzo luogo, un brand molto forte in un settore specifico può non essere percepito come cool in un altro: chi comprerebbe un tablet da Nike? In effetti i canali di vendita abituali della società potrebbero essere inadatti a raggiungere il target: comprereste uno smartwatch a Decathlon? Se il tuo target sono gli uomini di affari, non li raggiungi coi negozi di telefonia o i Mediaworld.
Alla luce di quanto sopra, un aspirante imprenditore nel campo delle tecnologie indossabili (wearable devices) deve valutare attentamente se, nella nicchia in cui intende operare, esistono dei concorrenti temibili, cercando tra:
- società che producono tecnologia di consumo (X);
- società che producono materiali rivolti alla nicchia cui si rivolgono (Y);
- altri nuovi entranti (cercando su Kickstarter, Indiegogo e altre piattaforme di crowdfunding).
Nella sua ricerca, dovrà poi domandarsi se:
- X ha o può avere appeal nella nicchia a cui ci si rivolge;
- Y ha le competenze per riprodurre l’oggetto;
- quanto ci mette Y per farsi le competenze richieste (denaro e tempo).
Credo che questi ragionamenti debbano essere fatti anche da un investitore che, inoltre, deve domandarsi se il prodotto che intende finanziare sia in qualche modo difendibile da imitazione, magari attraverso brevetti.
Ho già avuto modo in altre sedi di discutere della presunta difesa offerta dai brevetti (rimando a Impresa open source qui scaricabile); a mio avviso, il problema per la maggior parte delle invenzioni hardware attuali è che non sono brevettabili, perché difficilmente presentano soluzioni tecniche davvero non banali per un esperto del settore.
Vita di uno startupper in un’economia open source
Provando allora a mettermi nella mente di uno startupper, dovrei valutare se riesco a entrare in un mercato che possa rimanere sufficientemente libero, farlo il più rapidamente possibile e sperare di farmi comprare da un big player – solo se il suo costo di imitazione, dato soprattutto dalla tecnologia adottata, è troppo alto. A tutta prima, è difficile essere ottimisti. Il motivo è semplice: stiamo ancora ragionando con le vecchie logiche, e fatichiamo a vedere le alternative già esistenti.
Il caso Arduino
Forse gli investitori non hanno ancora compreso l’importanza dell’approccio open source né lo conoscono abbastanza. Dovrebbero invece studiarsi a fondo il caso di Arduino, per capire le basi di altri modelli economici e trovare formule in grado di sfidare le potenze tecnologiche globali.
Per chi non lo conoscesse, Arduino è una scheda elettronica dotata di microcontrollore, rilasciata in modalità open source. Comodo per fare prototipi, creazioni originali, per creare prodotti capaci di interagire. Chiunque, possedendo le architetture, può produrlo. Eppure i consumatori comprano l’originale, perché si fidano di più, e perché Arduino non è solo un microcontrollore: è una comunità. Comprare Arduino significa, in un certo senso, scommettere un po’ su se stessi, in quanto membri della comunità. In effetti i soldi che vanno ad Arduino – che non produce le schede ma viene pagato per l’uso del nome – sono impiegati per gestire un forum con un milione di post, la promozione e la narrazione del micro-controller, anche attraverso iniziative di community building. Pagare un concorrente significa sottrarre risorse a questa azione catalitica, e rallentare l’innovazione – a cui si può facilmente partecipare.
In alcuni settori l’open source ha avuto un enorme successo; Internet, per esempio, conta sempre più su infrastrutture aperte: Apache copre il 60% del mercato dei server.
L’open source sembra funzionare molto bene per le nicchie: facilita l’estrema personalizzazione richiesta, amplifica l’aspetto comunitario. Uniti alla forza dell’ingaggio, mi viene da concludere che sia ben più efficace di un brevetto nel difendersi dall’ingresso di un grande player: perché le società affermate sono più lente ad adottare l’open source. D’altronde hanno vincoli di impresa ben diversi: brevetti, azionisti a cui rendere conto. Come reagisce la borsa se libero i miei brevetti? Se consento ad altre aziende, magari concorrenti, di riprodurre il mio prodotto, potrei avere delle perdite iniziali, ma allo stesso tempo estenderei il mio business oltre l’oggetto fisico.
L’open source, in effetti, ha anche la forte tendenza a portare a un modo nuovo di fare impresa, perché facilita l’inserimento dei prodotti all’interno di piattaforme aperte: attorno ad Arduino sono nati moltissimi prodotti Arduino friendly, che ne rafforzano la posizione di leader nel suo segmento.
I vantaggi dell’approccio open source
Non è facile dimostrare che l’approccio open sia sempre vincente, di certo ci sono diversi casi di chiusura, soprattutto software, che hanno provocato dei flop: penso per esempio a Microsoft Zune (poteva scambiare in wi-fi le canzoni solo con un altro Zune, e doveva cancellarle dopo tre ascolti per venire incontro alle richieste delle major), oppure al Facebook fonino, l’HTC First (troppo centrato sul Social network); la domotica, una promessa da parecchi anni, ancora non esplode per la mancanza di linguaggi aperti e in grado di integrare i dispositivi distribuiti per la casa.
Dal punto di vista degli investitori, l’open source abbassa molto le soglie di investimento: perché buona parte della ricerca e dello sviluppo possono essere portate avanti da early adopters; in secondo luogo, consente strategie di investimento flessibili: il successo di una comunità consente di avere proiezioni affidabili sul successo di mercato. Pare pertanto una formula interessante per investimenti seed e per business angel, in una fascia da 100.000 a 500.000 euro.
L’open source nelle wearable technology
Nel caso dei dispositivi indossabili, l’open source non è solo un modo per sopravvivere agli imitatori: è un’esigenza di sicurezza e privacy fondamentale. Non mi fido a lasciare i miei dati vitali in mano a giganti come Google o Apple: usano policy valide per altre giurisdizioni, dispongono ormai di molte informazioni sensibili che possono quadrare. Una società che mi propone un approccio open mi dà modo di conoscere tutti i rilevatori e sensori che impiega, di capire quali dati conserva e fino a quando. E difficilmente dispone di tutti i dati di cui dispone Google.
In ultimo, l’open source è uno strumento di personalizzazione ideale per chiunque voglia avere un maggiore controllo sul proprio oggetto, e di conseguenza, sul proprio corpo.
Roma, 31 luglio 2014ANDREA DANIELLI