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#hewifi Roma: da qui è partita la rivoluzione pubblica

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I paletti normativi aguzzano l’ingegno. Le ristrettezze delle risorse spingono a fare di più con meno inventandosi sistemi innovativi. E alla fine bisogna avere anche la forza di ignorare chi ti scoraggia, pensandolo legato a logiche stantie, destinate a cedere il passo al futuro. È la storia di Provincia Wi-Fi, uno dei progetti che ha fatto scuola per la diffusione di hotspot pubblici gestiti dalle pubbliche amministrazioni. Ce lo racconta Francesco Loriga, ideatore del progetto e ora, da dirigente Agenda Digitale alla Regione Lazio, intenzionato a sviluppare lo stesso spirito di Provincia Wi-Fi in un contesto più grande. Verso la creazione della prima rete federata del Lazio.

«Spesso l’apparato nazionale è in ritardo sulla tecnologia. Quando avevamo visto che si poteva usare il Wi-FI per l’accesso pubblico avevamo un decreto che imponeva, ancora nel 2005, di farlo solo in aree circoscritte.

Una cosa assurda anche dal punto di vista tecnico: come è possibile limitare un’emissione radio a un luogo circoscritto…», spiega Loriga.

Primo paletto, prima idea per aggirarlo. «Allora, per fare innovazione è sempre necessario fare qualche piccolo stretching sulle norme. Abbiamo messo i primi hotspot a Villa Borghese dicendo che era un luogo circoscritto perché recintato. Qualche burocrate si era opposto, ma poi il flusso della rivoluzione internet pubblica è stato più forte di lui e quindi siamo andati avanti. E poi- a dimostrazione- è pure cambiata la legge, togliendo quel paletto». Primo passo, nel 2008, mettere 80 hotspot in una trentina di comuni, con una spesa, per installarli e per la gestione della rete, di appena 100 mila euro. Per arrivare a 500 hot spot nel 2010, con un investimento di due milioni di euro.

Adesso sono 1100, di cui circa 600 nel comune di Roma. È possibile perché la spesa per la connessione è praticamente zero. La Provincia ha reinventato il modello di Fon, basato su reti condivise e connessioni già esistenti. A dimostrazione che a volte innovare significa tradurre esperienze altrui adattandole ad altri contesti e altre risorse. La Provincia ha collegato gli hotspot alle connessioni internet di edifici provinciali e di vari soggetti aderenti all’iniziativa, che è aperta. Si è partiti con montane, biblioteche, ristoranti, un circolo velico, l’università di Roma Tre. Loro mettono la connessione, la Provincia fa il resto. Tutti gli hot spot fanno parte della stessa rete, gestita da un software libero, che dirige gli accessi verso i server dell’iniziativa, posti presso il Caspur (consorzio interuniversitario).

L’utente può quindi usare le stesse credenziali e avere le stesse condizioni di accesso, su tutti gli hot spot. Questo principio si è poi allargato alla rete federata Free Italia Wi-Fi, di diverse pubbliche amministrazioni in giro per l’Italia. Quest’idea ha dato alcuni vantaggi ulteriori, oltre al risparmio di risorse pubbliche. Ha permesso di superare un altro paletto normativo, un’altra assurdità partorita dal legislatore italiano: il decreto Pisanu, che imponeva alcuni obblighi al gestore di una rete Wi-Fi (tra cui quello di identificare l’utente).

«Un bar può offrire il Wi-Fi senza doversi preoccupare della gestione della rete e dell’autenticazione dell’utente. Facciamo tutto noi, soddisfacendo i requisiti dell’allora legge Pisanu. E così abbiamo aggirato un problema che ha scoraggiato i piccoli esercizi italiani (a differenza di quelli di altri Paesi) dall’offrire il Wi-Fi».

Le regole Wi-Fi del decreto sono scadute, nel frattempo. Un’altra conferma che l’innovatore fa bene ad andare avanti, stringere i denti, trovare modi per convivere con leggi perniciose. Fiducioso che poi queste cadranno sotto i colpi della Storia.

«Ci hanno detto anche che il ruolo della Pa non è fare reti. Amministratori di altre città ci scoraggiavano, dopo essersi consultati con i propri uffici legali. Ma noi pensavamo che mettere il Wi-Fi non è solo innovazione tecnologica, è anche politica nel senso alto della parola. È spingere a favore della diffusione di internet, ossia delle nuove forme della conoscenza e dell’espressione. I fatti ci hanno dato ragione. Adesso, anche in Italia, l’accesso a internet è percepito sempre più come un diritto (come dichiarato anche dal giurista Stefano Rodotà, Ndr.)».

«In Italia c’è un problema storico di digital divide. Culturale, certo: troppe persone non colgono ancora il valore di internet. Ma quando siamo partiti noi era notevole anche il digital divide infrastrutturale: oltre il 10 per cento degli italiani non aveva copertura banda larga. Alcuni pensano che basti il mercato per risolvere questi gap, ma si è sempre visto che non è così». «Provincia Wi-Fi ha messo quindi hot spot anche nelle zone prive di Adsl e ha contribuito a creare la domanda di internet. Quando abbiamo messo un’antenna Wi-Fi su un comune vicino al lago di Bracciano, il sindaco era commosso, “finalmente i giovani possono navigare in piazza e così restare nel loro territorio”, ci diceva. “E dopo gli utenti di quel comune hanno chiesto la connettività a casa. Alcuni operatori hanno capito il vantaggio per il Wi-Fi. Altri ancora no e con miopia lo considerano un concorrente”.

Ma miopia è anche continuare a fare reti Wi-Fi pubbliche senza considerare quelle esistenti. Chiudersi alla collaborazione con progetti simili. Paradossale, anche, perché significa cercare di diffondere internet opponendosi al principio fondante della stessa internet: la condivisione, la collaborazione.

«Il Comune di Roma– con la precedente giunta- ha messo hot spot Wi-Fi spesso sovrapponendosi a quelli della Provincia. Noi avevamo offerto al sindaco di collaborare, abbiamo detto che era possibile mettere 500 hot spot con 300 mila euro collaborando con la nostra rete. Sono andati avanti da soli, con 2 milioni di euro». «Il Comune ha ora tre reti Wi-Fi separate. Ha infatti anche quella storica di Roma Wireless- con cui però Provincia Wi-Fi ha collaborato- e quella sperimentale dell’Atac».

«Adesso come Regione vogliamo provare a integrare queste reti. E non solo. Anche aiutare le province di Rieti, Latina e Viterbo a sviluppare le proprie reti e poi farne una sola, includendo quelle già diffuse a Roma e Frosinone».

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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