Marzo 2016: Hillary Clinton deve scegliere il suo vice presidente. Riceve una mail dal capo dello staff John Podesta con la lista dei 39 papabili. Ci sono anche Tim Cook e Bill Gates. Febbraio 2016: Donald Trump sostiene che Jeff Bezos abbia comprato il Washington Post per eludere le tasse e conquistare peso politico. Promette che, se sarà eletto, “Amazon avrà dei problemi”. Due episodi che già, da soli, indicano lo scarto tra i candidati nei confronti del mondo tech. Un’impressione che si conferma osservando i loro programmi e spulciando la lista dei loro finanziatori. Ma con alcune zone grigie.
I FINANZIAMENTI DEL MONDO TECH
Le esternazioni di Donald Trump hanno allontanato simpatie e finanziamenti del mondo tech. Con alcune (pochissime) eccezioni.
I fondi raccolti da Hillary Clinton hanno un ordine di grandezza diverso. Un po’ perché la tendenza è quella di puntare sul favorito. E un po’ perché Trump, soprattutto nella prima parte della sua campagna, ha giocato la carta dell’autofinanziamento, che tanto bene si combina con l’antagonismo al “politico di professione”. Secondo i dati di OpenSecret.org, tra comitati elettorali e donazioni personali, Hillary Clinton ha raccolto 687,2 milioni di dollari. Donald Trump meno della metà: 307 milioni. Distinguendo per settori, le imprese di comunicazione ed elettronica hanno affidato alla Clinton 55,6 milioni. Solo finanza, assicurazioni e immobiliare sono stati più generosi. Per Trump solo un milione. In entrambi i casi vanno aggiunte le donazioni fatte a titolo personale e quelle destinate ai partiti.
Le simpatie si trasformano in dollari
Il settore tech sembra essersi schierato in modo quasi unanime dalla parte della candidata democratica. In realtà, la distribuzione è più sfumata di quanto sembri. Sono poche le società che si siano schierate solo da una parte. Molto più spesso le grandi imprese hanno dato sia al partito democratico sia a quello repubblicano. È la diversificazione del rischio applicato al sostegno politico. Il ragionamento è più o meno questo: sono d’accordo con Hillary, anche perché dimostra più attenzione all’innovazione. Bene. Ma se vincesse Trump?
Prendiamo ad esempio Amazon, che sulla campagna presidenziale ha piazzato 1,2 milioni di dollari. Il ceo Jeff Bezos non ha certo ricevuto carezze da Trump. Ma il suo gruppo ha comunque affidato ai repubblicani il 30% della somma.
Non si sa mai. Alphabet ha dato il 70% dei 5,8 milioni ai democratici. Facebook ha piazzato due terzi dei 4 milioni sborsati sui democratici e il resto sui repubblicani. È più o meno la stessa spartizione operata da Intel (1,4 milioni), Twitter (747 mila dollari), Ibm (684), Hp (599 mila), Ebay (501 mila), Yahoo (344 mila) e PayPal (158 mila). Microsoft è stato ancora più equilibrato: 5,8 milioni, per il 51% ai democratici e per il 49% ai repubblicani.
Sono molte meno le tech company che hanno puntato tutto o quasi su un solo partito. Anche qui, la maggioranza è democratica. Apple ha distribuito 1,3 milioni, lasciando ai repubblicani solo il 13% della somma. LinkedIn ha piazzato sul partito di Hillary il 99,6% dei suoi 509 mila dollari, Salesforce il 94,8% di 633 mila dollari, Netflix il 95% di 330 mila, Adobe il 98% di 204 mila, Dropbox il 98% di 190 mila.
In linea di massima, chi ha usato il bilancino con i fondi delle proprie società ha preferito non esporsi sul piano personale
Poche, pochissime le eccezioni. Una è Cisco, che ha puntato due terzi dei suoi 3,1 milioni sul partito repubblicano. L’altra è Oracle. Le risorse aziendali sono in leggero favore dei democratici (510 mila dollari su un milione totale). Ma il fondatore Larry Ellison bilancia con i 5,1 milioni di dollari offerti ai conservatori. Alle donazioni che arrivano dalle casse delle aziende vanno infatti affiancate quelle individuali.
In linea di massima, chi ha usato il bilancino con i fondi delle proprie società ha preferito non esporsi sul piano personale. Ellison è una delle eccezioni: equilibrato con Oracle, partigiano con il proprio portafogli. Scorrendo la lista, tra i repubblicani ci sono Mark Epstein (il vicepresidente di Qualcomm ha donato 3,8 milioni di dollari) e l’angel investor Scott Banister (con 2 milioni). Il caso più eclatante è stato però quello di Peter Thiel che, secondo Opensecrets.org, ha sborsato 3 milioni. Il suo appoggio ha fatto scalpore, non solo perché arriva da un mondo che si è schierato dall’altra parte. Thiel ha supportato Trump (e non semplicemente il partito repubblicano) nel momento più basso della sua campagna, mentre piovevano le accuse di sessismo. Ha dichiarato di essere gay durante la convention repubblicana (ed è stato il primo a farlo da quel palco). È un immigrato tedesco (oggi con passaporto americano). E ci ha messo la faccia più di altri generosi sostenitori. Il perché forse non sarà mai chiaro del tutto. Ma Thiel ha tentato di spiegarlo così: “Dobbiamo puntare verso un nuovo partito repubblicano, al di là dei dogmi reaganiani. Trump indica la strada di una nuova politica americana, che si confronta in modo diretto con la realtà”. Anche se “non sono d’accordo con tutto ciò che ha detto e fatto”.
Sullo schieramento opposto, il più acceso sostenitore di Hillary Clinton è Dustin Moskovitz, co-fondatore di Facebook. Ha sborsato 13 milioni di dollari a titolo personale, cui si aggiungono gli 8,5 provenienti dalla sua società di software, Asana. Senza neppure un centesimo ai repubblicani.
Il programma di Clinton e le accuse di Trump
Donald Trump non ha fatto nulla per rabbonire la Silicon Valley. Hillary Clinton, come dimostra l’ipotesi (remota) di Cook e Gates come vicepresidenti, ha invece strizzato l’occhio al mondo dell’innovazione. Tra le promesse del suo programma c’è un intero capitolo dedicato al settore, con 5 punti fissati in agenda.
Primo: incentivare le materie scientifiche e diffondere lo studio del coding nelle scuole, ingaggiando anche il settore privato. Secondo: investire sulla banda larga in modo che possa essere accessibile a tutti gli americani entro il 2020 e incentivare le istituzioni pubbliche a diffondere il WiFi gratuito. Terzo: “Facilitare l’accesso ai capitali per piccoli business e startup”, creando nuovi hub oltre la Silicon Valley, con nuove risorse statali dedicate a incubatori e acceleratori. Per attrarre talenti, la candidata democratica propone un canale preferenziale per ottenere la green card (il documento che consente agli stranieri di risiedere negli Stati Uniti) a studenti in materie scientifiche e startupper. Quarto: open data e digitalizzazione delle istituzioni sono una “priorità”, per rendere più efficiente e trasparente il rapporto con i cittadini. Quinto: l’innovazione deve andare di pari passo con la cybersecurity. Ed è questo l’unico punto in comune con Trump, cui il candidato repubblicano dà spazio nel proprio programma. Promette l’istituzione di un Cyber Review Team, un gruppo di militari ed esperti che dovrà coordinare una sorta di piano nazionale per la sicurezza informatica.
Nel capitolo dedicato all’economia la parola “innovazione”, invece, non compare mai. Un’assenza colmata da parole, interviste e accuse. Trump ha più volte manifestato il suo scetticismo nei confronti delle tech company, indicando la possibilità di una nuova bolla. Ha invitato a boicottare Apple se non avesse collaborato con gli inquirenti americani. Salvo twittare l’appello con un iPhone. Il comitato elettorale repubblicano ha bloccato le inserzioni sul Washington Post (giornale di Jeff Bezos) perché ritenuto fazioso. Per tutta risposta, il fondatore di Amazon ha definito Trump “un pericolo per la democrazia”. Mark Zuckerberg è stato accusato di aver fatto pressioni sui dipendenti di Facebook per manipolare il newsfeed e penalizzare i post che riguardavano il candidato repubblicano.
Un gruppo di manager, imprenditori e investititori ha scritto una lettera aperta per affermare che la sua elezione sarebbe “un disastro per il mondo dell’innovazione”. Tra i firmatari ci sono il co-fondatore di Apple Steve Wozniak, il ceo di Slack Stewart Butterfield, il fondatore di eBay Pierre Omidyar e quello di Wikipedia Jimmy Wales.
Da una parte non è detto che le promesse di Hillary vengano mantenute. Dall’altra, Trump alla Casa Bianca sarà costretto a ricorrere alle sfumature e mitigare le tinte forti
Quelli di Clinton sono punti di un programma. E quelle di Trump esternazioni in tono con il personaggio e la sua campagna elettorale. Sono segnali, importanti ma da pesare. Da una parte non è detto che le promesse di Hillary vengano mantenute. Dall’altra, Trump alla Casa Bianca sarà costretto a ricorrere alle sfumature e mitigare le tinte forti. Il presidente ha interesse a mantenere rapporti decenti con Apple e Amazon. E anche a Jeff Bezos e Tim Cook conviene avere un dialogo con lo studio ovale. Lo dicono (più delle parole) i finanziamenti elettorali. Perché, al di là delle convinzioni politiche e delle beghe personali, gli affari si fanno con chi vince. E in una gara incerta non si scommette tutto su un solo cavallo.
PAOLO FIORE@paolofiore