Circa 2002. Seraina sta attraversando, in auto con suo figlio, un passo d’alta montagna per cercare della lana appena tosata. Le servirà per creare gioielli con la tecnica dell’infeltrimento, un procedimento antico che da noi si sta perdendo.
Marzo 2012: alle 23:29 di un giorno qualsiasi ricevo un direct message su Twitter che mi conferma l’appuntamento con una persona di un Ministero. In mezzo a questi due estremi ci sono i segni di come sta cambiando il mondo. Anzi: di come è già cambiata l’Italia.
Ho conosciuto Seraina all’inizio del 2010 in una Fiera per arte, artigianato, oggettistica, alimentazione naturale, altro. Sto studiando, perché da qualche tempo con Nicola Junior Vitto ci siamo messi in testa che si possa creare un business per iniziative del genere.
Ci chiediamo come. Siamo abituati a pensare all’Italia come individualista. Vorranno gli italiani fare rete tra loro?
Ci diciamo che siamo un Paese resistente all’innovazione. Si può pensare di costruire con la Rete, Internet e il Web? La scommessa è rischiosa.
Nello stand di fianco a Seraina c’è un signore di una certa età, con un banco di erboristeria. Mi racconta che ha aperto da poco, dopo il prepensionamento. Prima faceva ricerca in una importante multinazionale del pharma. Ha pubblicato su Nature. Dall’altra parte del padiglione c’è un Museo della Stampa. Insegna ai bambini, giocando, come funzionano i caratteri mobili della macchina di Gutenberg.
In fondo c’è Critical Fashion, un gruppo di hacktivist che usa le macchine da cucire per creare una nuova moda condivisa (probabilmente avrete modo di leggerne su queste pagine presto, ndr).
In mezzo c’è chi fa oggetti di carta, accessori di tessuto, vassoi con vecchi vinili, vestiti disegnati, gioielli in laser-cut.
Tutti, qui dentro, stanno inventando qualcosa. E stanno costruendo. Mi guardo intorno e mi esplode la testa: è la lunga coda degli oggetti.
Competenze nuove e antiche, analogiche e digitali, se messe di fianco le une alle altre hanno una potenzialità dirompente. Sono pronte ad emergere. A diventare movimento.
Torno a casa e apro il nostro blog-magazine, LikePicasso (“Non ti senti un po’ artista anche tu?”), che oggi è diventato anche una vetrina con migliaia di prodotti unici. Iniziamo ad ascoltare, a cercare in Rete. Li troviamo. Hanno un sito, un blog, una presenza su Facebook. Parliamo di loro, li mettiamo in contatto.
Grazie a commenti, cross-link, segnalazioni si conoscono a vicenda: “Ah ma anche tu… ?”. Si collegano. E quelle relazioni che nelle fiere sono limitate a una decina di persone diventano centinaia, e più solide perché non limitate nello spazio o nel tempo.
Litigano, anche. Si copiano i modelli e si arrabbiano, per poi scoprire che di anelli come quello – o lampade, borse, qualsiasi cosa – ne esistono in quantità. E ne fanno altri. Imparano. Si linkano a vicenda tra blog, creano pagine collettive su Facebook dove condividere le loro creazioni, pervadono la Rete con le loro idee e con la loro voglia di fare. Diventano esempio e insegnano agli altri. Sono migliaia. Hanno fatto rete. In Rete. Chi è che diceva che gli italiani sono resistenti all’innovazione? Ah!
Dai piccoli hobby locali, limitati dal territorio, che prendono respiro nazionale (e non solo), alle iniziative più ampie e professionali, che con la Rete reinnescano lo sviluppo. Anche per business al cuore della tradizione italiana, come l’artigianato di qualità, la meccanica, la sartoria, il lusso. Il movimento si estende anche lì.
Ma è ovvio: gli italiani hanno gambe lunghe, braccia forti, mani abili. E’ ora di cambiare la testa: di rivedere la governance.
Norme più leggere, barriere più basse, velocità, apertura e, soprattutto, più Rete. In tutto. Ovunque. Perché usando la Rete si fa rete. E sviluppo. Come insegna quel tweet delle 23:29.
Alberto D’Ottavi