Tecnologiche, iperconnesse, sostenibili. Le smart city me le immagino così: manciate di grattacieli e spazi verdi, auto elettriche, rinnovabili, emissioni zero. Provate a immaginare il mio stupore quando sono arrivata a Dahshur, quaranta chilometri dal Cairo: edifici scarnificati, niente acqua potabile, rifiuti un po’ dovunque, asini e cavalli che circolano più delle automobili lungo le strade fatte di terra. Sarebbe questa la nuova green e smart city che, nelle intenzioni del governo egiziano, entro pochi anni dovrebbe attirare fiumi di turisti e migliorare le condizioni di vita dei residenti?
Il mio primo impulso è stato quello di scappare per andare a visitare le piramidi poco distanti, dichiarate dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Invece sono entrata nella sala dove rappresentanti istituzionali e un gruppo di cittadini di Dahshur, uomini e donne seduti in cerchio, parlavano del loro futuro.
Ascolto e scopro che i cittadini di Dahshur frequentano corsi di formazione, stanno imparando l’inglese, l’informatica, la gestione dei rifiuti e alcune normative igieniche di base per l’accoglienza dei turisti.
Mi stupisce che uomini e donne (tutte a capo coperto) in questo che è poco più che un villaggio siedano gli uni vicino agli altri e con uguale facoltà di parlare. Nei paesi qui intorno le cose vanno in modo completamente diverso. E allora chiedo: come funziona qui?
“Con Internet siamo tutti uguali – mi risponde in un inglese traballante Ghada Sayed, che mi dice di essere la cofondatrice di Dahshur Today – Abbiamo imparato a costruire siti Internet per promuovere i nostri prodotti commerciali e uomini e donne lavorano insieme. Poi nel social network di Dahshur ognuno può dire quello che vuole e confrontarsi sui problemi della città, perché mai nella vita dovrebbe essere diverso?”.
Come? Un social network cittadino in mezzo a capre e polvere, dove non c’è neanche l’acqua potabile? Chiedo a Ghada di farmelo vedere, ma è tutto in arabo e purtroppo non capisco nulla. “Qui c’è la chat – mi spiega orgoglioso un capannello di persone formatosi alle mie spalle – e qui le notizie del giorno. Poi c’è il forum, e si possono anche conoscere nuove persone”.
Ma come fate, se la connessione Internet arriva solo in due punti, in tutta Dashur? “Con i telefonini”, mi rispondono ridendo come se fossi io quella che vive fuori dal mondo.
E forse hanno ragione. Mi sono dimenticata che la primavera araba, l’insieme di sommosse che nell’ultimo anno e mezzo ha spazzato via dittatori e governi militari in alcuni paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, ha fatto largo uso dei media digitali e in particolare dei social network per organizzare e comunicare le proteste eludendo i numerosi tentativi di repressione.
Sono stati gli smartphone a fare la differenza, fotografando, postando, denunciando.
Come ho fatto a non pensarci? Sarà perché, visto da fuori, l’Egitto non dà proprio l’impressione di essere sull’onda della rivoluzione digitale. Eppure sono qui per raggiungere Marsa Alam, sul Mar Rosso, dove si tiene la seconda conferenza internazionale su Turismo e Media a cura dell’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite, che tra le altre cose presenta una vera novità nel settore della comunicazione. La conferenza quest’anno si chiama “Partnering with media in challenging times” e ha una sezione dedicata ai blogger. Una prima assoluta.
Il fatto è che insieme alle dittature, le rivoluzioni della primavera araba hanno colato a picco anche le presenze turistiche in decine di paesi, compromettendo gravemente economie già martoriate dalla guerra. Sono milioni, le persone che hanno cambiato meta per le loro vacanze, spaventate dalle notizie diffuse dai media. Una rinuncia che vale miliardi di euro e che in paesi in cui il turismo rappresenta oltre il 30% del PIL (come per esempio l’Egitto), è una disgrazia che si somma alle altre e che impedisce all’economia di ripartire.
Qui però arriva la novità. Per provare a rimediare a questo tracollo economico, prima la Giordania e poi l’Egitto si sono inventati una nuova strategia di marketing: hanno invitato decine di blogger di tutto il mondo a visitare il paese. Li hanno ospitati, cibati, scorrazzati dove volevano, muniti di connessioni Internet. A un’unica condizione: che scrivessero quello che vedevano, raccontando le loro esperienze. Insomma, che attraverso il loro viaggio testimoniassero (implicitamente) la sicurezza del paese.
Naturalmente, c’è già chi ha pensato di trasformarlo in un lavoro, come Daniel Noll e Audrey Scott, coppia di blogger fondatori del sito Uncornered Market e nomadi digitali (nel senso che non possiedono più una casa e da oltre cinque anni trascorrono la vita viaggiando da un paese all’altro e lavorando su Internet). Vado a sentire il loro intervento, che è di gran lunga il meno seguito: i professionisti della stampa guardano dall’alto in basso i blogger, cui non riconoscono lo status di giornalisti.
Daniel e Audrey però non si perdono d’animo: hanno fatto dell’Egitto un caso studio per provare a spiegare come si può diventare partner dei paesi in crisi senza compromettere la propria indipendenza e la propria credibilità. Loro, per esempio, scelgono di indicare sempre, in coda agli articoli, se il viaggio che hanno fatto è stato sponsorizzato e da chi. A leggere i loro post sembra davvero che si ritengano liberi di dire in ogni occasione quello che pensano, e c’è da fidarsi quando dicono che intendono proporre ad altri paesi una simile esperienza come strategia di marketing turistico. Il valore aggiunto per i lettori? Sapere che quello che leggono è il risultato di un’esperienza reale e recentissima. Niente mediazione politica, niente notizie economiche o compromessi internazionali: solo la concreta esperienza di chi passeggia per le strade.
E se il futuro della comunicazione passasse anche da qui? Nomadi digitali, blogger embedded, social network rurali. Una cosa è certa: occorre ridefinire cosa è smart, e non ha molto a che vedere con i grattacieli.