In Italia si fa un gran parlare del crowdfunding. Nascono nuove piattaforme mensilmente, ma poca valutazione è stata fatta sugli effettivi risultati dei progetti finanziati con successo, sui loro tempi di consegna, sullo sviluppo delle startup che li producono. Curiosando in rete, su siti di lingua inglese, ho invece trovato diverse considerazioni sul perché la maggior parte dei progetti hardware finanziati su Kickstarter arriva in ritardo, talvolta grave.
Uno studio di CNN Money del 2012 sui 50 progetti più finanziati ha scoperto che l’84% degli stessi non rispetta i tempi di consegna previsti. Verificando lo stato delle spedizioni di progetti che avevano come data prevista novembre 2012 (o prima), solo 8 erano stati consegnati, 15 non erano partiti, dei 27 in ritardo la media era di due mesi, il progetto maggiormente in difficoltà aveva accumulato 9 mesi di ritardo.
Un altro studio, dell’università della Pennsylvania, dà risultati forse ancora più impietosi, visto che è stato effettuato su un campione più ampio, 471 progetti, e depurato degli estremi: un 3,6% dei progetti fallisce, il 75% arriva in ritardo.
Gli errori dei progetti finanziati sono stati numerosi. Promesse irrealizzabili o antieconomiche (per convincere i backers), difetti imprevisti in fase di produzione, difficoltà nella gestione della logistica (shipocalypse), nel reperire i componenti ad alti volumi, nel connettersi con hardware pre-esistente a causa del suo aggiornamento rapido (è il caso di Syre, basato su Apple Ipod nano). Non dimentichiamo infine i tempi per ottenere i certificati di conformità, eliminabili a patto di vendere prodotti per hobbisti, una scelta che non tutti i consumatori, abituati a due anni da garanzia, sono disposti a compiere.
Un prodotto particolarmente famoso, il Peeble, ha accumulato più di un anno di ritardo.
La lettura di questo articolo è particolarmente utile per chiunque creda che sia sempre possibile trovare un produttore in Cina per rendere il proprio prototipo un prodotto commercializzabile. Le critiche del CEO di Peeble sono molto dure. La ricostruzione del prodotto a partire dal prototipo è avvenuta senza metodo, con tentativi casuali e documentazione impropria; le condizioni degli impianti di produzione sono caotiche e non garantiscono gli standard richiesti.
Un interessante punto di vista, perché davvero sincero, proviene da Zach Supalla, vincitore di una campagna che sta incontrando diverse difficoltà e rimandando la consegna del proprio prodotto, Spark Core (qui la sua “confessione”)
Tra i punti che sottolinea all’origine dei ritardi, alcuni sono molto interessanti per gli aspiranti creatori di hardware hi-tech:
- i prototipi utilizzati per le campagne sono spesso molto rozzi: funzionano al massimo per fare un video di qualche minuto su Kickstarter;
- i prodotti che non sono progettati per essere costruiti in una fabbrica possono rompersi in fase di produzione e quindi aumentare il costo del prodotto finito.
Più sono complessi, più è probabile che ciò accada;
- lo stampaggio a iniezione è necessario per alti volumi, ma molto costoso;
- i tempi di consegna della componentistica sono inversamente proporzionali ai costi: le aziende costano meno perchépossono produrre su richiesta, meglio se alti volumi, i distributori costano di più perché pagano le spese di stoccaggio;
- il successo allarga gli obiettivi: si punta a maggiori sicurezza e scalabilità; si passa da standard hobbistici a standard professionali.
Per avere ulteriori spiegazioni sulle difficoltà a scalare i prototipi consiglio inoltre la storia di Twine, raccontata da Fast Company: http://www.fastcompany.com/3004024/why-your-kickstarter-project-late
Ci sono molti altri aspetti critici in una campagna di crowdfounding di successo, principalmente legati all’inesperienza di chi la propone. La stima sui costi deve essere perfetta perché, se sballate di un euro su 1000 pezzi vi cambia molto poco, ma se dovete consegnarne 500.000 avrete sicure difficoltà a reperire i capitali, anche se mi auguro che qualche venture capital possa investire su progetti di successo.
La deindustrializzazione di molti paesi occidentali rende poi più complesso incontrare persone davvero esperte di high-tech e processi produttivi, e quindi avere l’expertise necessaria per creare dei business plan realistici. In Italia i distretti high-tech ancora sopravvivono, non sono poche le realtà nate dalla dissoluzione di patrimoni come Olivetti o Telettra, a Ivrea e in Brianza; altre aree sono molto vitali: l’Emilia, la provincia di Udine. Coinvolgere le piccole realtà innovative italiane e aprirle al mondo maker dovrebbe essere una priorità di qualunque politica degna di questo nome.
Infine, un problema soprattutto per la comunità open source: la difficoltà di conservare l’apertura una volta che non siete voi a produrre l’oggetto. Immaginate di aver creato un bel prototipo con Arduino e di dover consegnare 100.000 pezzi: assemblarli a mano non è alla portata di un team di esseri umani. Dovete naturalmente rivolgervi a dei produttori, probabilmente cinesi, a cui consegnate il malloppo conquistato on-line. Vi proporranno di usare l’elettronica che sono abituati ad assemblare e trattare che, molto probabilmente, non è open source.
Su questo aspetto, al momento, fatico a vedere delle soluzioni, se non nella possibilità per produttori più vicini al mondo open di rilasciare componenti già aperte, da inserire in pratiche di open design. Magari attraverso un approccio modulare, per cui un’azienda produce un vasto set di controller, sensori e attuatori già pronti per essere ingegnerizzati. Non un’opzione alla portata di tutti, certo, ma immagino sia fattibile per realtà stile STMicroelectronics, società che con le “Innovation Night” dimostra un timido interesse verso piccole e medie imprese.
Un’altra soluzione per gestire meglio i progetti hardware consiste nel cambiare strumento di raccolta: Kickstarter non è nato avendo come obiettivo la tecnologia. Negli Stati Uniti è stata creata unapiattaforma di crowdfunding a misura di hardware: Dragon Innovation, che offre agli utenti un’ampia rete di fornitori cinesi fidati con cui poi produrre gli oggetti finanziati con successo. Un modo per evitare i problemi incontrati da Peeble e molti altri prodotti.Anche se forse la soluzione migliore è entrare in un incubatore hardware, dove poter trovare capitali iniziali, expertise e una rete di produttori. Speriamo che l’avventura di Industrio, 100% italiana e lo spin-off del politecnico di Milano, PoliHub, siano all’altezza delle elevate aspettative del mondo maker.