I makers al servizio dei malati: la bellezza aiuta chi soffre

lifestyle

Un anno di lavoro mostrato al grande pubblico. È quello che ci hanno permesso di fare la Giornata internazionale dell’infermiere il 14 maggio e l’evento organizzato da Ipasvi a Brescia. La tensione era palpabile, anche se l’entusiasmo l’ha mascherata bene. In questi mesi abbiamo fatto delle precise scelte e delle scommesse analizzando i due eventi tenuti a giugno 2015 e gennaio 2016, confrontandoci con i pazienti, ascoltando le loro richieste. E se non avessimo capito? In breve, che cosa abbiamo fatto? Tutto parte da Hackability, gennaio 2015, dove sono stato invitato da Enrico Bassi e ho conosciuto, tra gli altri, Francesco Rodighiero, Marinella Levi e Carlo Boccazzi Varotto. Una splendida iniziativa, a diretto contatto con chi ha bisogno di innovazione, che mi ha fatto capire il grande impatto sociale del movimento maker.

A dire il vero lo avevamo sospettato anche con Make in Italy, quando avevamo lanciato un contest in ambito medicale. Ma, è evidente, il concept hackathon è diverso, è metodo da veri maker: confronto e co-progettazione.

Test di un prodotto in commercio

I MAKERS E LA VOGLIA DI BELLEZZA DEI PAZIENTI

Con Thinkalize, dove collaboravo all’epoca, abbiamo subito voluto riprodurre l’iniziativa, naturalmente in quanto startup con una finalità un po’ più commerciale: sta a vedere che riusciamo a inventare qualche prodotto interessante e a proporlo a delle aziende per realizzarlo? Al Maker Contest di Associazione Make in Italy era intervenuto anche Roberto Ferrari, infermiere e Segretario di Ipasvi Brescia, che ha pensato bene di accogliere le nostre idee di hackathon medicale e ha organizzato una giornata, giugno 2015, dove far incontrare maker, designer, pazienti malati di artrite reumatoide (organizzati nell’associazione Abar), e infermieri.

Non c’è un vero metodo, oltre ai suggerimenti di Hackability, se non la volontà di ascoltare le esigenze dei pazienti e provare a tradurle in ausili.

Perché questi prodotti non sono conosciuti né utilizzati?

Dopo aver abbozzato alcune soluzioni, ci accorgiamo che qualcosa esiste già. Con Francesco Rodighiero iniziamo a fare una ricerca degli ausili, anche frequentando ausilioteche, e scopriamo un mondo. Perché questi prodotti non sono conosciuti né utilizzati? Con questa domanda ci presentiamo di nuovo davanti ai pazienti con l’idea di testare con loro ciò che esiste e cercare di migliorarlo. Abbiamo investito un paio di mesi a ricercare e comprare i migliori prodotti sul mercato. Così, a gennaio 2016, abbiamo testato gli ausili con i pazienti. Avendo con noi designer di prodotto e il coordinamento di Paco Design Collaborative, siamo riusciti a raccogliere commenti molto precisi e, soprattutto, una richiesta perentoria: vogliamo ausili più belli! Potranno pure essere pratici, ma non vengono usati, e anzi può essere sgradevole riceverne in regalo.

Non è difficile capire perché: i malati sono innanzitutto persone. Hanno quindi le stesse esigenze che abbiamo nella vita di tutti i giorni: piacersi, piacere ad altri, sentirsi a proprio agio, sentirsi parte di un gruppo, una comunità.

UN COLTELLO PIU’ FACILE DA USARE

Siamo riusciti anche a fare primi test funzionali manipolando Plastimorph, una plastica termomodellante che indurisce sotto i 60 gradi. Con questa rendiamo un coltello più facile da utilizzare, allargandone il corpo e semplificando quindi la presa. Da qui, nelle settimane successive, Francesco Rodighiero costruisce il suo Fat Knife. E così, grazie a Riccardo Buldrini, fresco acquisto del gruppo Prodevo, abbiamo realizzato alcuni prototipi che abbiamo potuto mettere in mostra a Brescia. Abbiamo poi presentato un questionario per raccogliere le reazioni degli spettatori. I risultati sono stati estremamente positivi: la votazione media dei prototipi è 4.8 su 5, l’83% rifarebbe l’hackathon con noi. Nessuno dei partecipanti avrebbe le capacità di auto-prodursi gli ausili, sarebbero pronti ad acquistarli nella grandi catene per pagarli una cifra intorno ai dieci euro. Anche grazie a queste informazioni abbiamo iniziato a prendere contatto con alcune grosse catene e aziende di design.

CHE COSA MI SONO PORTATO A CASA

  1. maker sì, ma a fianco di professionisti
  2. i malati e i loro bisogni devono essere al centro

Abbiamo costruito un metodo di innovazione collaborativa che può funzionare bene. Con dei professionisti abbiamo gestito le fasi più importanti di selezione e testing dei prodotti, con fantasia maker abbiamo sperimentato delle modifiche al volo, designer in gamba hanno progettato gli strumenti e maker abili li hanno prototipati, per testarli di nuovo. Se ognuno porta il proprio contributo senza invadere il campo di competenze di qualcun altro si ottengono ottimi risultati. Siamo stati ricettivi, ascoltando i pazienti senza imporre i nostri punti di vista. Accanto all’approccio di personalizzazione sperimentato da diverse iniziative in Italia, noi abbiamo provato a dare vita a un approccio “industriale”, in cui coniugare co-progettazione e commercializzazione. A fianco della visione che unisce open source e auto-produzione abbiamo promosso una visione che mette facilmente a disposizione dei pazienti prodotti belli e utili. Naturalmente riteniamo che le due visioni possano efficacemente coesistere, a seconda del numero di malati e della specificità delle loro esigenze. Ma sarebbe un peccato insistere su ciò che ci sta più a cuore, ossia i valori della comunità maker, e dimenticare di ascoltare ciò che cercano le persone con cui, peraltro, stiamo co-progettando. Se la totalità delle persone ci dice che non è in grado di auto-prodursi gli oggetti, spetta a noi trovare il modo di raggiungerli comunque. Invece di convincere gli altri della bontà dei nostri modelli, abbiamo provato a portare la ricchezza del nostro modus operandi al servizio delle esigenze che esistono da sempre.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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