La rete doveva uccidere le città e invece le sta salvando. A metà degli Anni 90, complice l’esplosione di Internet, molti parlavano di death of distance riprendendo il titolo di un celebre libro di Frances Cairncross. L’esplosione delle reti faceva presagire l’annullamento delle distanze nel mondo fisico. L’idea era così radicata che lo scrittore americano George Gilder si sbilanciò fino ad affermare che, con ogni cosa a portata di mano, anche le città sarebbero scomparse in quanto “inutile retaggio del passato”. In realtà, da allora il numero di persone che preferiscono vivere in aree urbane è aumentato costantemente, fino a superare nel 2008 il 50% della popolazione mondiale: un evento senza precedenti nella storia dell’uomo.
Tuttavia, se le reti non hanno fatto scomparire le città, le stanno trasformando profondamente.
Nei territori urbanizzati si assiste a un fenomeno nuovo: la convergenza tra bit e atomi. Si può dire che Internet stia invadendo lo spazio fisico, un fenomeno che spesso passa sotto il nome smart city. Così le città di oggi ci permettono di raccogliere una mole di informazioni senza precedenti, che possono poi essere trasformate in risposte da parte degli abitanti o dell’amministrazione pubblica.
L’universo delle app urbane è il segnale più evidente di questa evoluzione. Per esempio, l’app per telefonini Waze, che contribuisce a far funzionare meglio il traffico grazie alle segnalazioni degli utenti. Oppure Open Table, che permette ai clienti di prenotare direttamente il ristorante (negli Stati Uniti quasi nessuno usa più il telefono per cercare un tavolo). Le connessioni telematiche e l’accesso dei consumatori scatenano potenzialità notevoli, anche dal punto di vista economico, se pensiamo al miliardo di dollari che Facebook ha offerto ad aprile per acquistare Instagram, piccola azienda fondata due anni fa da un pugno di ragazzi.
I servizi basati sullo scambio di dati raccolti nell’ambiente sono anche alla base delle attività che porta avanti il Senseable City Laboratory del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston. Due progetti, tra i molti: Trash Track è un sistema che attraverso etichette elettroniche permette di seguire a distanza il percorso di campioni di spazzatura. Si è scoperto che non tutti i rifiuti vengono indirizzati agli impianti di riciclaggio più opportuni e che alcuni campioni percorrono inutilmente chilometri e chilometri. Le informazioni raccolte su oltre 3000 oggetti assicurano uno smaltimento più corretto e aiutano a diffondere consapevolezza nei cittadini. Un altro progetto è invece in corso a Singapore e si basa sulla raccolta di informazioni in tempo reale da condividere poi con i cittadini: il percorso per rientrare prima a casa, il meteo aggiornato e a misura di quartiere, come trovare un taxi, i consumi di energia.
Tutti questi dati consentono ai cittadini di giocare un ruolo nuovo. Comportamenti si diffondono per effetto dell’esempio che ciascuno rappresenta per i propri vicini, in una sorta di contagio sociale. L’abbiamo visto nel caso della primavera araba o dell’elezione di Obama. Dinamiche simili possono essere innescate per gestire un’area urbana. In Italia sta avendo successo un’applicazione come Decoro urbano, con la quale chiunque può caricare su una mappa interattiva le foto di affissioni abusive, buche nell’asfalto, rifiuti abbandonati. In una fase in cui la politica tradizionale è in crisi, è possibile andare oltre e permettere ai cittadini di fare la loro parte. In Gran Bretagna Fix My Transport (aggiusta i miei trasporti) è diventato un efficacissimo sistema “crowd” e gratuito per raccogliere segnalazioni su cosa non funziona nei mezzi pubblici. A Boston, il sindaco Menino ha lanciato il progetto New Urban Mechanics per incentivare l’attivismo dei singoli, promossi a “meccanici della città”.
Questo attivismo civico digitale offre una grande opportunità anche all’Italia. Pensiamo per esempio ai centri storici che tutto il mondo ci invidia, o a una città come Venezia, che non avrebbe mai potuto adattarsi agli imperativi dell’industria del secolo scorso, mentre può accogliere facilmente le tecnologie di oggi: reti, sensori, lampioni, pensiline, monitor, nuovi sistemi di distribuzione dell’energia. Interventi che mettono insieme mondo fisico e mondo digitale, secondo l’idea dell’ ubiquitous computing (oubicomp) sviluppata negli anni 80 dall’informatico americano Mark Weiser.
D’altronde in un Paese come il nostro, in cui la popolazione non cresce e gli standard abitativi non cambiano, non si può più pensare a espandere le aree urbane come in passato: oltre a consumare inutilmente territorio vergine, si andrebbe incontro inevitabilmente allo svuotamento delle aree già edificate, esponendole al rischio del degrado. La sfida dei prossimi anni sarà invece valorizzare il patrimonio esistente, correggendo gli errori urbanistici del secolo scorso e usando le nuove tecnologie per far funzionare meglio le infrastrutture che già abbiamo. In breve, meno asfalto e più silicio.
In questo senso anche l’Expo di Milano 2015 è una grande occasione. Londra, con un Parco Olimpico in chiave smart, sta cogliendo bene il senso della sfida, lavorando sull’eredità dell’evento prima ancora dei Giochi. Milano potrà andare ancora oltre, dando un volto alla metropoli del futuro. Una città che probabilmente non sarà piena di macchine volanti e autostrade nel cielo, come nei film di fantascienza, ma che ci permetterà di vivere in modo diverso grazie a nuove forme di condivisione dell’informazione.
Per i progettisti si aprono scenari inediti, in cui l’architettura non si occupa solo dei “gusci” costruiti, ma fa dialogare informatica e scienze sociali all’insegna di un paradosso: una tecnologia onnipresente ma invisibile, che esiste proprio perché possiamo dimenticarci di essa e concentrarci sulle cose che contano: una vita più semplice, un ambiente piacevole e la capacità di costruire una ricca trama sociale.
Torino, 25 maggio 2012CARLO RATTI
Questo testo è un estratto della lectio magistralis che Carlo Ratti ha tenuto lo scorso maggio in occasione del Torino Smart City Festival.