I nuovi dinosauri? Chi non ha capito il potere dell’economia digitale

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In questi ultimi mesi sembra si sia scatenata una sorta di campagna di demonizzazione di tutto l’ecosistema Internet. Basti pensare a una voce autorevole come Umberto Eco che si permette di definire Internet il bar sport degli imbecilli, o stampa autorevole come Repubblica L’Espresso che con una lunga “inchiesta” ci raccontano come l’umanità sta affondando nel gorgo della dipendenza patologica da “Facebook”.Lasciando da parte quest’ultimo tipo di accuse vagamente paranoiche, e non sostanziate, in merito ai social networks, in Italia tira una brutta aria per Internet, il mondo digitale e i suoi attori principali, accusati di disintegrare la privacy, introdurre disinformazione e banalizzazione del pensiero.

Per non parlare dei danni al nostro sistema economico sotto scacco dal nuovo assetto mondiale introdotto da Amazon, Uber e i loro accoliti.

Sempre L’Espresso, un mese fa, usciva con una copertina dal titolo “Cannibali digitali”, e dipingeva a tinte scurissime il mondo delle grandi (e non solo grandi) company dell’innovazione digitale. E vedrete cosa succederà con Netflix che tra qualche mese verrà probablimente accusato di essere l’unico responsabile della crisi dell’industria dello spettacolo in Italia.

Fatemi essere chiaro. Non sto dicendo che siamo nel migliore dei mondi possibili e che va tutto bene.

Sicuramente le nuove tecnologie, gli algoritmi, Internet e i big data ci pongono nuovi e seri problemi su questioni che vanno dalla privacy alla partecipazione democratica, fino alla inevitabile formazione di nuovi monopoli. Ma è ridicolo demonizzare questo mondo tanto quanto era ridicolo demonizzare le locomotive a vapore nei primi dell’800, l’automobile negli anni ’20 o i primi telefoni cellulari negli anni ’90.

Come è ridicolo pensare di “normalizzare” Airbnb, Uber o la nuova ecologia dell’informazione a colpi di “articoli di codice” scritti per un mondo che non esiste più. Eppure in Italia c’è chi vorrebbe rivitalizzare il comparto agenzie di viaggio tassando le prenotazioni su Internet, e l’autotrasporto vietando il car-sharing. Una specie di allucinazione collettiva che ci imprigiona in un passato che non ci piace tanto ma che in fondo è rassicurante perché ci siamo abituati.

Questa volta però il problema non è solo Italiano. Sembra che tutta l’Europa soffra della stessa sindrome.

In Francia i tassisti bruciano le macchine di Uber, in Spagna gli editori premono per la “Google tax” (che si sta dimostrando fallimentare).

Allo stesso tempo, il mondo produttivo sembra voler ignorare la tempesta che si annuncia all’orizzonte.

Tra dieci anni (o forse solo cinque) nessuno comprerà più un orologio non “intelligente”. Eppure le grandi industrie Svizzere di orologi non hanno fatto nulla per mettere un piede nella tecnologia che permette la costruzione dell’Apple watch. La guida Michelin non si preoccupa dell’imminente assedio di Open Table. Le grandi case di moda non si interessano del crowd-sourced design e degli abiti su misura che possono essere create e ordinati usando un tablet e senza dover mai mettere i piedi in una sartoria. Sembrano tutti dinosauri ignari dell’arrivo dell’estinzione di massa. Certo, ci sarà sempre una nicchia per il collezionista del Patek Philippe o per il pezzo unico di Valentino, ma sarà come i coccodrilli o le iguane ora, che ci ricordano che una volta il mondo era dominato dai rettili.

Più drammatico ancora è che anche le Istituzioni e la Politica vivono la stessa fase di diniego. L’unica cosa che fanno è prendersela con i colossi digitali, che sono tutti Americani. Accanto alla critica, manca pero’ un’analisi dei motivi di questa supremazia. I colossi sono Americani perché la ricerca Americana, sponsorizzata dal governo, ha creato grandi poli di ricerca come la California, la Costa Est e le Big Ten nel Midwest che alimentano il ciclo dell’innovazione. Perché il denaro messo a disposizione dal governo per combattere la crisi economica è fluito proprio in quelle aree a grande tasso innovativo. Perche’ il governo è capace di deregolare e svincolarsi dai vecchi paradigmi legislativi.

La ricetta non è complicata. L’Europa, invece che combattere gli Stati Uniti a forza di regolamenti e tassazioni, dovrebbe creare un ecosistema dell’innovazione competitivo. Agilità, grandi investimenti, aggregazioni di risorse umane e tecnologiche.

Difficile? Troppo complicato in una situazione politicamente disgregata? Non è vero. E’ solo un problema di volontà. L’Airbus, si l’aereo, ne è la riprova.

Per iniziativa politica negli anni ‘60 e ‘70, con l’obiettivo di contrastare un assoluto dominio degli Stati Uniti nel settore dell’industria areonautica civile, un consorzio di paesi Europei (Francia, Germania, Spagna e Inghilterra) furono capaci di creare un agglomerato di risorse umane, tecnologia e innovazione in grado di competere con Boeing sul mercato globale. A beneficio non solo dell’Europa ma di tutto il mondo. Perché Airbus non solo ha creato dei fantastici aereoplani, ma ha indotto Boeing a migliorare se stessa, avviando un ciclo competitivo di cui beneficiamo tutti ogni volta che saliamo su un aereo di ultima generazione.

Se l’Europa non vuol diventare il pasto dei “cannibali digitali” deve riuscire a imparare a mordere pure lei. Lo si è fatto nel passato e si può fare ancora.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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