I pro e i contro dell’istruzione online

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Dice l’ultimo QS World Universities Ranking che per trovare la prima università italiana, tra le migliori al mondo, si debba scendere fino alla 194esima posizione. E che ai primi posti – nessuna sorpresa – ci siano, tra le altre, MIT, Harvard, Columbia, Caltech.

Che accadrebbe se ogni studente del nostro Paese potesse frequentarne con una modica spesa – e comodamente da casa – i corsi, ricevendone in cambio non solo un attestato di frequenza, ma veri e propri crediti che consentano di progredire verso l’ottenimento della laurea?

La questione è attualissima. Perché oggi la tecnologia lo consente. E, negli Stati Uniti e non solo, inizia a diventare realtà. Si prenda Coursera, che Will Oremus su Slate ha definito «una delle startup più rivoluzionarie che l’istruzione superiore abbia mai conosciuto».

E che offre oltre 200 corsi gratuiti online, tenuti da docenti proprio di alcuni degli istituti che primeggiano nelle classifiche globali, frequentati già da circa 1,5 milioni di studenti.

I fondatori del progetto, i docenti di computer science di Stanford Andrew Ng e Daphne Koller, hanno annunciato a metà novembre che a partire dal 2013 inaugureranno una collaborazione con l’ACE College Credit Recommendation Service, l’associazione per l’istruzione superiore Usa, proprio per consentire la traduzione della frequenza in risultati accademici.

Il 22 novembre, pochi giorni dopo l’annuncio, è arrivata la prima adesione.

Nell’autunno del 2013, infatti, alla Antioch University Midwest partirà un programma di completamento per la laurea triennale «che userà un misto di MOOCs (Massive Open Online Courses, i corsi in rete di massa aperti a tutti, ndr) e corsi della facoltà».

Lo stesso verrà fatto per gli studenti del liceo che vogliano guadagnare crediti per il college, dalla fisica quantistica al greco antico. Certo, non sarà più gratis. Ma la tariffa prevista, tra i 90 e i 130 dollari a credito, è di gran lunga inferiore a quella attuale (in media, tra i 500 e i 600).

Fuori dagli Stati Uniti, il riconoscimento dei crediti era già stato implementato dal dipartimento di Computer Science dell’Università di Helsinki, che ha stabilito che chi seguirà il corso di Human-Computer Interaction su Coursera avrà gli stessi crediti di chi seguirà un corso analogo in classe.

Se si considera che le valutazioni dell’ACE comprendono un network di oltre 2000 università statunitensi, e che il settore vede già la concorrenza tra Coursera e iniziative analoghe come edX e Udacity, si comprende come il potenziale di espansione dell’idea è enorme.

Ed è destinato a realizzarsi.

Quello che manca, e che sta iniziando a imporsi nel dibattito pubblico oltreoceano, è una riflessione su cosa ciò comporti per il sistema dell’istruzione avanzata. E, naturalmente, per gli studenti.

La domanda a cui rispondere prima di importare acriticamente il modello nel nostro Paese, in sostanza, è: ma siamo proprio sicuri che frequentare un corso di persona e tramite la mediazione di un computer sia lo stesso? E se non lo è, i vantaggi superano i fattori negativi?

A parte problemi strutturali che riguardano specificamente l’Italia, su tutti il digital divide che ancora complicherebbe una diffusione capillare della modalità educativa, alcuni argomenti pro e contro la traduzione dei MOOCs in corsi veri e propri si possono mutuare dalla discussione in corso fuori dai confini nazionali.

Una discussione che ha visto coinvolti, recentemente, pensatori del digitale del calibro di Clay Shirky e Nicholas Carr.

Il primo dubbio riguarda la possibilità di evitare che gli studenti, al riparo dietro ai loro monitor, possano imbrogliare. Un problema di cui a Coursera sono bene al corrente e al quale stanno tentando di porre immediatemente rimedio. Per questo i frequentanti, per ottenere i crediti, dovranno sottostare alla sorveglianza di un’azienda terza, ProctorU, che avrà il compito di sincerarsi che gli studenti non copino. E che siano proprio loro, e non gli amici ‘secchioni’, a sostenere gli esami.

Ma, ammesso funzioni, si pone immediatamente un altro problema: se, come sostiene ProcotorU nel video di presentazione sul proprio sito, «li guardiamo; guardiamo i loro monitor, guardiamo i loro computer, guardiamo il movimento dei loro occhi», viene spontaneo chiedersi se misure tanto invasive siano rispettose della privacy degli studenti, e che sarà dei loro dati una volta concluso il corso, o anche solo spento il computer. Senza contare che la dittatura del «big data» e degli algoritmi potrebbe sì condurre a miglioramenti nello stile d’insegnamento (modulato sulle esigenze di ogni singolo studente, così come raccolte dal mare di dati e statistiche prodotte dal suo monitoraggio online), ma anche a un’ulteriore profilazione del soggetto. E questa volta intellettuale, prima ancora che sulle abitudini di consumo.

A parte le questioni tecniche, entrano in gioco poi fattori prettamente pedagogici. Tra gli scettici, infatti, ci si chiede che cosa comporti la mancanza di lavori di gruppo, di contatto fisico e rapporti umani: «Lo schermo di un computer non sarà mai più che un’ombra di una buona classe all’università», secondo Carr.

Ancora: al primo corso di Udacity si sono iscritti in 160 mila. Cosa significa, per un insegnante, trovarsi di fronte a una classe (virtuale) di 160 mila persone? Difficile comprenderlo, prima di una vasta sperimentazione sul campo. Promuoverà l’isolamento dello studente? Gli fornirà davvero l’equivalente di un’esperienza di studio in uno dei college più blasonati al mondo? E siamo sicuri che diminuirà i tassi di abbandono? Ricorda Carr che di quei 160 mila, solo il 14% è arrivato in fondo. Un caso a sé oppure il segnale di una incapacità di garantire costanza nella motivazione dei corsi online?

C’è anche chi, come Mark Edmundson sul New York Times, sottolinea che l’equiparazione dei MOOCs a corsi veri e propri renderà impossibile per gli insegnanti imparare dagli studenti: perché l’insegnamento, argomenta, «è questione di dialogo».

Ma la preoccupazione maggiore è che le università si affrettino a implementare il modello Coursera in maniera acritica, sull’onda dell’entusiasmo per il digitale che sembra aver contagiato ogni settore dell’attività umana. Magari, aggiunge Carr, riflettendo i giudizi (e i pregiudizi) degli architetti delle nuove infrastrutture dell’insegnamento, tutti informatici.

Le repliche degli ottimisti, tuttavia, non vanno sottovalutate. Prima di tutto, l’argomento principe è che i MOOCs non mirano a sostituire interamente i corsi da frequentare con la propria presenza fisica, ma a fornirne un complemento.

Poi c’è la questione monetaria: se è vero, come sostiene Koller, che «i costi crescenti dell’educazione superiore hanno avuto un impatto devastante sugli studenti», Coursera e gli altri rappresentano una soluzione potenzialmente efficace, essendo o gratuiti o più economici. Specie in un contesto in cui una laurea triennale costa 100 mila dollari in media (27,4 mila dollari l’anno di campus), e quasi il 60% dei ragazzi dice che ciò che studia non vale quanto spende per studiare.

Inoltre, a chi come Edmundson si preoccupi se i MOOCs siano in grado o meno di fornire un’educazione del «miglior tipo», si può rispondere con Shirky che chi potrà permettersela continuerà ad averla, ma la differenza è che ora potrà beneficiarne anche chi non fino a oggi non poteva permettersela.

Una sorta di democratizzazione dell’istruzione finora riservata solo alle élites – con tutto ciò che questo comporta.

Più in generale, è aprendo la riflessione al contesto socio-economico prodotto anche dal digitale che attenti osservatori della realtà contemporanea, come Mathew Ingram di GigaOm e lo stesso Shirky, individuano una tendenza favorevole alla sempre maggiore integrazione dei corsi di massa su Internet nel sistema dell’istruzione avanzata.

Il modello Coursera, riflette Ingram, non è infatti che un esempio di un trend più vasto, che investe l’industria alberghiera (Airbnb) come il trasporto cittadino (Uber): è l’espandersi del modello ‘peer-to-peer’ e del ‘social business’ dai media a tutti i livelli dell’economia e della società.

Certo, gli attriti con le regolamentazioni vigenti sono inevitabili (come nel Minnesota), ma nel lungo periodo accadrà qualcosa di rivoluzionario quanto l’introduzione di Napster nell’industria musicale, secondo Shirky. Allo stesso modo, infatti, l’educazione si potrà «spacchettare», senza dover prendere in blocco un intero percorso accademico.

Proprio come Napster ha consentito di aprire la strada alla fruizione (e oggi all’acquisto) di singoli pezzi, invece che di interi album.

Ma se davvero si volesse importare il modello Coursera in Italia, sarebbe possibile?

«L’idea che le online school possano assegnare dei crediti ai loro studenti è di per sé sensata e naturale», risponde Stefano Capezzuto, responsabile dei contenuti di Oilproject, un progetto che ha fornito circa tremila lezioni in Creative Commons a 250 mila studenti solo nell’ultimo anno. «Ovviamente garantendo specifici sistemi di interazione e di verifica dell’apprendimento nello svolgimento dei corsi», precisa.

Tuttavia, «introdurre una proposta del genere in Italia, dove la sensibilità verso la formazione su Internet e la relativa sperimentazione è a livelli imbarazzanti, risulta quantomeno prematuro».

Il problema, secondo Capezzuto, è duplice: «Da una parte abbiamo studenti che utilizzano quotidianamente il web per la ricerca di contenuti didattici ma che si trovano in difficoltà nel selezionare da soli le fonti attendibili, dall’altra docenti potenzialmente in grado di indicare i materiali più validi, ma spesso poco formati sia all’utilizzo delle tecnologie sia, soprattutto, alle dinamiche della Rete».

Insomma, la strada da fare è tanta. Ma, se la rivoluzione è davvero alle porte, è tempo che il tema diventi oggetto di dibattito pubblico anche nel nostro Paese. E capire se, quanto e come abbracciarla.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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