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Il biomedicale modenese e 50 anni di innovazione emiliana

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Il dramma del terremoto emiliano che stiamo raccontando su OpenRicostruzione è iniziato di notte, come quello aquilano. Alle 4.04 di un sabato notte, il 20 maggio, mentre gli ultimi ragazzi rientravano dalle discoteche, tutto il territorio emiliano ha tremato, e con esso le fondamenta economiche di quel distretto produttivo.

Perché a quell’ora, in Emilia come in molti altri territori a forte industrializzazione, molte fabbriche erano aperte e funzionanti, attive e operose. Dieci secondi di paura che hanno causato 7 morti e 50 feriti, principalmente operai e piccoli imprenditori schiacciati da capannoni instabili, crollati come castelli di carte.

E chi non è crollato nella notte, è rimasto paralizzato da danni irreparabili che hanno, per diverse settimane, bloccato la produzione di uno dei distretti più vigorosi del nord Italia: il biomedicale.

Il distretto biomedicale è nato da un’idea illuminate di Mario Veronesi che negli anni 60 decide di portare a Mirandola e dintorni alcune multinazionali dell’industria medica e farmaceutica, e capace,con le sue doti di innovatore e visionario, di convincerle a spostare nelle piccole industrie del luogo una parte delle produzioni, che via via negli anni sono diventate leader europeo nella componentistica dell’industri medicale, dalle apparecchiature per dialisi ai macchinari per autotrasfusione.

Un innovatore nell’Italia del dopoguerra, un Enzo Ferrari dell’industria medicale.

“A distanza di 50 anni, quella visione di Veronesi è diventata un distretto dove operano decine e decine di piccole e medie industrie, per un fatturato che ha raggiunto l’1,2% del PIL nazionale – ci dice Andrea Parrino, AD di LEAN.

O forse devo dire avevamo raggiunto. Perché cosa vuole: adesso non siamo in grado di capire dove possiamo arrivare…”

Essì, perché Parrino è uno delle decine di piccoli imprenditori del distretto che quella notte (per fortuna nessuno era al lavoro da lui!) è accorso alla sua fabbrica di Medolla per constatare amaramente i gravissimi danni alla struttura.

Quale è stato il primo pensiero?

“Non abbiamo mai pensato di smettere. Però era difficile da credere:io sono venuto qui negli anni 90 da Torino, dopo una vita nel settore medicale e farmaceutico. Qui era una palude, chi si immaginava che sarebbe successo qui un terremoto? Tutti mi hanno detto che era impossibile, anche le normative non prevedevano che ci costruisse con criteri di antisismicità”.

Ci racconta un po’ la sua avventura nel biomedicale, prima di quel maledetto 20 maggio?

Come Lean, siamo nati nel 1995 per fornire materiale per dialisi elettromedicale. Non prodotti monouso, ma componenti. C’erano già grossi marchi qui come Belco e Dasco, e quindi era facile fare comparto. Le multinazionali vengono qui perché trovano metodi, cultura, componenti e persone per fare un prodotto di altissimo livello. Pensi che io sono venuto qui che avevo già 40 anni, ma sono rimasto folgorato. La gente qui è incredibile, ha la mentalità di produrre, ce l’ha nel sangue.

E poi arriva il sisma….

Dopo la scossa del 20, c’era una frattura fra il capannone degli uffici e quello della produzione. Grave ma non irrecuperabile. Abbiamo messo un po’ di pali di sostegno e continuato a lavorare. Una ferita che prima o poi avremmo medicato. Quella del 29 maggio invece è stata un’apocalisse, la fabbrica si è praticamente sventrata. Per fortuna è successo al mattino presto, quando la produzione non era ancora a pieno ritmo. Nel giro di poche ore abbiamo svuotato macchinari e produzione, portando tutto e tutti al sicuro. Danni per oltre 1 milione di euro, ma ancora adesso difficili da stimare.

E a quel punto cosa ha pensato?

Noi, come le dicevo, non abbiamo mai pensato di smettere. Mai. Ci sono famiglie di lavoratori, affetti, relazioni. Ad esempio Belco c’è stato un momento, nelle prime 24 ore, che voleva andare via. Lo hanno fatto capire chiaramente e pubblicamente. D’altronde, per me che ormai mi sono radicato nel tessuto, è più facile scegliere di restare. Ma per una multinazionale che viene da fuori, l’enorme attrazione è per un sistema che funziona e produce alla grande, se questo meccanismo si inceppa, per un terremoto o per un’altra calamità, queste multinazionali non hanno il tempo e la pazienza di aspettare che il tessuto si rimetta in piedi. Io temo che le istituzioni locali ad esempio non capiscano bene come funziona una multinazionale nei suoi meccanismi interni. Noi siamo una piccola ditta, e restiamo per forza, dove vuole che vada? Non avrei la forza di ripartire altrove, ma loro? Cosa li tiene?E quindi cominciano a scalpitare. Per uno che non vive qui, è impossibile capire la bellezza della gente di qui.”

Cosa può succedere adesso?

Adesso ci sono due ordini di problemi da risolvere. Uno è materiale: riparare il danno senza smettere di produrre e vendere i componenti. Noi abbiamo anticipato almeno 500 mila euro nella certezza che i fondi destinati alla ricostruzione arriveranno presto, anche se al momento l’iter è molto macchinoso e lento. Ma non avevamo alternativa, come dicevo ne andava della sopravvivenza dell’industria stessa. L’altro ordine di problemi, forse più radicato e difficile da risolvere, è il senso di insicurezza e paura che il terremoto, e lo scoprirsi improvvisamente delicati e fragili, che sta impossessandosi della popolazione, gente forte e indistruttibile che fatica a dormire, lavorare e relazionarsi. In pratica il sima è superato, ma ha lasciato come una presa di coscienza della propria labilità. La nostra vita sociale ed economica è diventata traballante, come questi castelli di sabbia…Ma ripartiremo, ne sono certo. Ci vorrà tempo, ma questa terra è ricca di pazienza e speranza”.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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