Negli ultimi giorni di Marzo hanno visto la luce sui più importanti giornali online di tutto il mondo una serie di, più o meno godibili, articoli che introducono l’ultimo libro di Jeremy Rifkin, uscito proprio alla fine del mese scorso.
Nel suo ultimo libro chiamato “The Zero Marginal Cost Society” il noto autore statunitense racconta la sua visione: l‘eclissi del capitalismo è in arrivo e sarà a favore di un modello completamente nuovo che lui chiama “the Collaborative Commons”. In un passaggio, in apertura dell’editoriale che Rifkin ha pubblicato sui giornali di mezzo mondo qualche giorno fa (grazie per la traduzione a Silvia Candida) Rifkin dice che “l’era capitalista sta passando” in maniera inevitabile e che il “nuovo paradigma economico”, che lui chiama appunto Collaborative Commons, si avvia a “trasformare il nostro modo di vivere”.
Rifkin aggiunge che “stiamo già assistendo all’emergere di un’economia ibrida, un po’ capitalismo di mercato e un po’ Collaborative Commons”. Secondo Rifkin “i due sistemi economici spesso lavorano in tandem, talvolta competono già” e “a volte sono in profonda contraddizione”.
Con poche frasi chiare ed efficaci, Rifkin fotografa in questo passaggio la storia di quasi quaranta anni di evoluzione intorno ai beni comuni: l’evoluzione che ci ha portato dal Free software ai sistemi peer to peer, attraverso l’hacktivismo e l’opensource; in definitiva parla di quella rivoluzione digitale che nata dentro la rete (e di cui la rete è parte fondamentale) che si è poi sviluppata nella società in una serie infinita di esperimenti. Un universo che basa le sue fondamenta nella collaborazione, nell’accesso libero, nella orizzontalità: un universo che molti, me compreso, studiano e raccontano da anni.
Da un punto di vista puramente tecnologico, l’assunzione di Rifkin è questa: la corsa sfrenata verso la produzione a costo marginale zero, tipica del mondo digitale, sta permeando tutti i settori della produzione. Agli avanzamenti della robotica e dell’intelligenza artificiale e alle nostre capacità di organizzare e ottimizzare i processi si aggiunge oggi secondo Rifkin la rivoluzione dell’internet delle cose che offre nuove possibilità di monitoraggio e automazione. I Big Data e l’intelligenza che potremo applicare a essi potrà aiutarci ulteriormente a migliorare e efficientare i processi e cancellare l’inutile.
Malgrado sia molto convincente e effettivamente in linea con quanto stiamo vedendo accadere, e pur volendo essere sostanzialmente d’accordo sia con Rifkin che con Andressen – il quale sostiene che “il software si mangia il mondo” – questa visione presenta tuttavia dei punti ancora aperti, soprattutto quando si va oltre la produzione digitale e pensiamo all’economia dei beni tangibili.
Da un certo punto di vista va detto però che anche in questo campo le cose stanno effettivamente cambiando in questo senso.
1. I Collaborative Commons?
Ciò che Rifkin identifica col termine Collaborative Commons andrebbe probabilmente più corrrettamente identificato, e per i più informati forse lo è già, col ben più chiaro concetto di “Commons Based Peer Production”: modelli di produzione partecipativa e collaborativa basati su beni comuni – quali il software open source o gli strumenti della rete – così come delineata prima da Yochai Benkler e poi da Michel Bauwens e molti altri già citati in questo blog.
In questo senso, proprio Michel Bauwens ha rilasciato solo qualche settimana fa un draft, relativo alla prima stesura del libro “Networked Society e scenari futuri per un’economia Collaborativa”, che fornisce una visione di insieme di questa transizione e che consiglio di leggere ai più interessati.
Nella visione di Bauwens, piuttosto efficacemente delineata nella figura seguente
esistono due macro modelli di produzione: da una parte il così detto “Capitalismo Cognitivo” e dall’altra la “Peer Production”. La tabella è dunque divisa, su base orizzontale per la vicinanza ai beni comuni, mentre su base verticale riporta il grado di decentralizzazione.
In questo modo Bauwens delinea quattro macro scenari. Nei primi due, il Capitalismo Netarchico di Facebook e Google e il Capitalismo Distribuito di Bitcoin e Kickstarter, la rete è il fattore abilitante tecnologico che fornisce nuove prospettive a un modello capitalista che mantiene forti sfumature di libertarianismo e Anarco-Capitalismo. In questi due scenari, pure se i modelli di produzione di valore si basano sulla collaborazione degli utenti i vantaggi della produzione e i profitti vanno comunque a vantaggio di pochi. Per chiarezza pensiamo a Facebook: non potrebbe esistere senza i contenuti che tutti noi produciamo ma allo stesso tempo gli enormi profitti che genera sono solo a favore degli azionisti dell’azienda.
In Bitcoin invece, secondo Bauwens i peers sono i computers più che le persone e tutto il sistema è basato su una visione piuttosto tecno-centrica che ha comunque finito per generare un sistema che – pure se teoricamente aperto e distribuito – è oggi fortemente accentrato, ancor più che il sistema monetario tradizionale, con pochissimi bitcoin-capitalisti: utenti che detengono fortune immense.
Nella parte destra invece trovano posto i modelli basati sui beni comuni: i global commons come wikipedia o RepRap e il mondo delle resilient communities dove Bauwens mette insieme – in maniera forse troppo inclusiva – dai progetti di Transizione al Car Sharing, dall’agricultura urbana alle monete locali: tutto ciò che riguarda i territori e la dimensione locale e i modelli collaborativi che vi si stanno applicando per migliorare la sostenibilità di lungo periodo e la “resilienza”.
Dunque, proprio in parallelo alle trasformazioni che vediamo attuarsi nel mondo globale del business, del capitalismo tradizionale e delle grandi organizzazioni e imprese una nuova economia, a bassa intensità energetica, sostenibile e attenta agli impatti sociali, sta emergendo.
Così, proprio in parallelo con i cambiamenti che vediamo accadere nel mondo globale del capitalismo tradizionale e delle grandi organizzazioni c’è una nuova economia emergente. Questa economia è a minore intensità energetica, è più sostenibile e ha un impatto sociale fortemente positivo in termini di diminuzione dei rischi e nuove opportunità per le comunità. Come Rifkin dice correttamente, questa economia può funzionare in combinazione con il capitalismo in alcuni casi (per esempio quando le imprese utilizzano e sostengono lo sviluppo su software libero ed open source) o può deliberatamente attaccare il mercato esistente sottraendone parte dalle logiche di mercato, come accade i gruppi di acquisto on con i progetti open source per produrre una stampante 3D che ci si può costruire da soli.
Se nel mondo del business il veicolo tradizionale resta la compagnia (the Firm) nell’ecosistema aperto e abilitato dalla rete il grande protagonista sono le comunità e la cooperazione, in tutte le sue forme.
Modelli cooperativi e aperti stanno rivoluzionando dal basso la manifattura, con le tecnologie di stampa 3D e di fabbricazione digitale in continua evoluzione. La crescente rete di Fablab e Makerspace cresce a un ritmo esponenziale che segue l’andamento della legge di Moore, raddoppiando ogni 18 mesi.
Oggi, a distanza di un paio d’anni dalle prime ipotesi e idee di costruire un Fablab a Roma, ne abbiamo finalmente già diversi funzionanti e in rete anche nella Capitale.
L’open source è sempre più spesso utilizzato come approccio disruptive per cambiare le logiche di un mercato o di un settore e sta finalmente arrivando in mercati come l’automotive (con Open Source Vehicle) o nell’edilizia (coi progressi incredibili che sta facendo Wikihouse).
Una comunità sperimentale sul tema dell’agricoltura e della permacultura, sta crescendo grazie a progetti come il Valdaura Self Sufficient Lab di Barcellona, il lavoro di Open Source Ecology sulle macchine di produzione agricola (come i trattori) e molto altro, in parallelo con uno spumeggiante ritorno di interesse per la ruralità e la decentralizzazione. Esperienze di co-living si susseguono in tutta Europa e nel mondo.
A Luglio Barcellona ospiterà la decima conferenza mondiale dei Fablab, FAB 10, il cui sottotitolo “from Fablabs to Fab Cities” la dice lunga sul tema centrale della discussione. Pochi giorni fa, in una intervista che ho avuto la possibilità di fargli, Tomas Diez, Manager del Fablab di Barcellona e cuore pulsante di progetti come il FAB10 o Smart Citizen, ha sostenuto che “in pochi anni Barcellona, la nuova FAB City, ritornerà a essere una città produttiva, riportando la produzione all’interno della città, ridandola in mano ai cittadini, promuovendo una innovazione locale collegata ad una rete globale, di ri-industrializzazione delle città” e che in questa prospettiva la città “produrrà valore in ogni singolo aspetto della vita delle persone”.
In parallelo a tutto questo, un fervente dibattito fatto di conferenze, blog, e social media alimenta un livello di discussione e confronto mai stato possibile in precedenza. Abbiamo usato tanti termini per descrivere questo universo, i più ora lo identificano con il termine “economia collaborativa” o sharing economy: il punto è che stiamo finalmente imparando a comprendere, classificare e utilizzare questi nuovi modelli, in sempre nuovi campi.
A Parigi dal 5 al 7 Maggio dedicheremo una intera conferenza (la OuiShare Fest) a comprendere questi fenomeni che secondo un autorevole osservatore della realtà e visionario come Rifkin sono destinati a “trasformare l’economia” tramite la collaborazione e il basso impatto energetico.
2. Sullo sfondo: il tema dei rischi globali
Sullo sfondo di questo grande livello di sperimentazione sociale e innovazione, cresce finalmente una discussione piuttosto radicale a proposito del tema centrale del Global Warming e in generale della gestione delle complessità e dei fattori di rischi globale.
Solo qualche giorno fa, un rapporto dell’ IPCC (http://www.ipcc.ch/report/ar5/wg2/) sul cambiamento climatico è stato accolto con molta discussione e preoccupazione. Il report guarda al cambiamento climatico come un dato di fatto e come a un serio fattore di rischio per l’umanità: ci da 16 anni per implementare una soluzione prima del punto di non ritorno.
Il rapporto dell’IPCC inoltre analizza per la prima volta il tema del riscaldamento globale visto in un quadro più generale relativo al tema della resilienza – ovvero della nostra capacità di resistere agli shock.
Come commenta efficacemente l’Economist infatti: ”Il nuovo rapporto vede il clima come un problema tra tanti, la cui gravità è spesso determinata dalla sua interazione con gli altri problemi” e indica che “le giuste policy spesso sono quelle che tentano di ridurre l’onere, di adattarsi al cambiamento, piuttosto che di tentare di fermarlo” (http://www.economist.com/news/science-and-technology/21600080-new-report-ipcc-implies-climate-exceptionalism-notion).
Questo report dell’IPCC segna la fine del sensazionalismo sul clima e l’inizio di un approccio realista alla resilienza globale e alla prevenzione dei rischi legati a risorse chiave e (e beni comuni) come la qualità dell’aria, delle acque o la biodiversità.
3. Le grandi aziende: i brand resilienti e prospettive di lungo periodo
Quanto sia attuale lo scenario che vede le aziende interconnesse con la società e i suoi problemi, in un momento in cui è richiesta una tale transizione, è diventato ancora più chiaro proprio il 31 Marzo.
In seguito al rilascio del rapporto dell’IPCC, Exxon Mobil ha ricevuto una richiesta formale dai suoi azionisti che chieveda di capire come l’azienda intendesse affrontare potenziali rischi per gli azionisti dovuti a potenziali future restrizioni nell’utilizzo di carburanti fossili. In risposta, Exxon ha emesso un rapporto dove ha sostanzialmente bollato le ventilate restrizioni come “altamente improbabili”.
L’azienda ha posto l’accento sugli impatti in termini di sviluppo economico che queste regolamentazioni potrebbero portare nei paesi dove applicate, e ha sostenuto che avrebbe continuato ad agire in maniera apertamente “business as usual” come se nulla fosse, generando una ondata di reazione e evitando di chiarire i leggittimi dubbi dei suoi azionisti.
A prescindere dalla reazione di Exxon, non possiamo pensare che le grandi aziende perdano in questa fase l’opportunità di rimanere centrali in una economia che si avvia lungo questo inevitabile percorso di conservazione e sopravvivenza. Se pur inevitabilmente esse dovranno cedere il passo a modelli cooperativi gestiti dal “basso” in alcuni casi, occorre chiedersi in che modo la stessa idea di azienda (la “Firm”) si trasformerà per rendersi capace di coop-etere nel mondo connesso e in cambiamento esponenziale.
Non solo: se pensiamo all’entità delle sfide globali che oggi troviamo di fronte a noi, è naturale pensare che non possiamo permettere che le grandi aziende non vengano coinvolte nel progettare la nuova visione economica globale in virtù dell’enorme potere che esse esercitano sulla vita umana e sull’economia attuale.
In un bellissimo pezzo sull’Harward Business Review (“Resilience in a hotter world” http://hbr.org/2014/04/resilience-in-a-hotter-world/ar/1), che è anche la copertina di questo mese, Andrew Winston ha fatto un ottimo lavoro nel descrivere il complesso problema della resilienza dei brand e ha spiegato come di certo, in questo momento storico, la risposta alla domanda: “come prosperare nel futuro?” non può che cercarsi nell’equilibrio ecologico.
Winston indica la soluzione in una prospettiva di maggiore permeabilità tra aziende e società, con le prime capaci di dialogare con gli utenti e definire nuovi comportamenti e nuove narrative.
Winston indvidua infatti due cambiamenti fondamentali:
- da una parte le aziende dovranno abbattere le loro necessità energetiche e migliorare nella gestione degli scarti e delle esternalità negative implementando i principi del “Cradle to Cradle” produzione a ciclo chiuso che non produce scarti.
- In seconda battuta Winston pone l’accento sulla stabilizzazione dei ricavi nel lungo periodo: un risultato che non può venire che da una maggiore comprensione dei fabbisogni degli utenti e dalla capacità di adattarsi ad essi con continuità.
Ne emerge l’immagine di una azienda che è in equilibrio con l’ambiente e la società, i cui limiti sono difficili da tracciare. Una azienda “pragmaticamente” responsabile su un piano sia sociale che ambientale, in un contesto dove sempre maggiori sono le occasioni di incontro e sussidiarietà con lo stato, la società.
Un interessante caso emblematico è quello di AirBnb. Recentemente l’azienda è stata molto sotto pressione negli Stati Uniti a causa degli effetti di “gentrificazione” che ha portato in alcune città. La gentrificazione è un processo di per se positivo che riguarda il miglioramento della qualità dei sobborghi ma che ha (come conseguenza della crescita dei prezzi delle case che induce) ha la tendenza a generare i cosiddetti fenomeni di “eviction”: gli abitanti originali di una zona sono spinti a abbandonarla e a allontanarsi dalla città.
L’implementazione di politiche sociali sulla casa è un tema sempre molto complesso e che richiede fondi sostanziali: in questo senso interessanti sono i recenti accordi che AirBnb ha posto in atto con la città di Portland, seguita poi da New York.
Questi accordi prevedono infatti che l’azienda si renda sostituto di imposta e trattenga alla fonte la tassazione sul suo giro d’affari producendo risorse che a New York sfioreranno i 21 Milioni di dollari: abbastanza per finanziare, ad esempio, i piani di social hospitality per i senza tetto che Bill DeBlasio aveva posto nel suo programma.
In un programma di cooperazione più alto e ampio, AirBnb ha avviato qualche settimana fa il piano Shared Portland. Con l’accordo tra il sindaco Hales e AirBnb, che anche qui come a New York AirBnb raccoglierà tasse alla fonte, si andrà molto oltre. C’è un progetto volto a facilitare le donazioni degli host per cause locali, c’è una collaborazione in tema di disaster relief e c’è un accordo per cui AirBnb si impegna in un controllo molto stretto degli abusi della piattaforma che possono impattare con le politiche di housing della città. AirBnb inoltre promuoverà globalmente ai suoi utenti la città di Portland da un punto di vista turistico (cosa che, in un certo senso, stiamo facendo già oggi con questo articolo).
Un livello tale di cooperazione sulle politiche sociali tra corporations e pubbliche amministrazioni si è visto raramente: è successo in altri contesti, a volte in quello delle cooperative in alcuni paesi – più che altro europei (l’Italia ne è un caso emblematico) – ma in contesto “corporate” è stato sempre piuttosto raro. Credo che questi eventi siano seminali e segnino la direzione di un cambiamento.
5. Quali scelte nell’azienda a prova di Futuro?
È da tempo dunque che mi domando cosa significa fare business guardando al futuro, e recentemente mi sono chiesto più volte se questo sia ancora un tema di interesse. Una cosa su cui ho riflettuto spesso riguarda una considerazione relativa al dinamismo dell’ indice S&P 500. Se guardiamo alla storia di questo indice scopriamo che, se nel 1958 una azienda poteva aspettarsi di stare nell’indice S&P per in media una sessantina d’anni, oggi gli anni medi di permanenza sono diminuiti a 18 e sappiamo che stanno continuando a diminuire regolarmente.
Ciò che emerge prepotentemente è una chiara richiesta verso le aziende: quella di porsi su una prospettiva maggiormente collaborativa con la società e sviluppare soluzioni adattative, che divengano abilitanti non solo di relazioni ma anche di economie, scambi e generazione di valore e ricchezza.
Data questa prospettiva le aziende devono puntare a tre macro-obiettivi:
- divenire un ambiente capace di generare innovazioni mediante l’abilitazione (come Enabling Platform)
- raggiungere un equilibrio ecologico e energetico di lungo periodo (Ecological Equilibrium)
- implementare una catena di profittabilità più equa e sostenibile lungo tutta la Value Chain (Equitable Profiteering)
ENABLING – ECOLOGICAL – EQUITABLE
Il primo principio (Enabling Platform) risponde a un paradigma che sta trovando crescente affermazione: il valore sia definito e costruito dall’utente, in maniera personalizzata. Un questo senso l’azienda deve creare una piattaforma che permette all’utente di creare un prodotto finito a immagine dei suoi bisogni o, in alcuni casi, un prodotto o un servizio da proporre a un altro componente dell’ecosistema che può consumarlo.
Il secondo (Ecological Equilibrium) rispecchia la necessità si assicurare che i propri processi siano sostenibili nella prospettiva di un forte aumento dei costi dell’energia e delle esternalità che, al di là delle considerazioni di Exxon non è solo una prospettiva prevedibile ma auspicabile.
L’ultimo tema, quello dell’Equitable Profiteering, riguarda la capacità di costruire catene di approvviggionamento e di distribuzione e modelli di produzione cooperativi dove il valore e il profitto generati sono condivisi da molti players e spalmati su tutta la catena del valore.
L’applicazione di questa trasformazione nelle aziende riguarda almeno cinque diversi livelli:
Prodotti e servizi
Conoscenza
Organizzazione
Governance e Proprietà
Infrastruttura
Prodotti e Servizi
A questo livello è sempre più chiaro, come detto, che la frontiera è quella della trasformazione in piattaforma abilitante: l’azienda produce i mattoni che l’ecosistema degli utenti utilizza per creare nuovo valore. La trasformazione riguarda il passare dal paradigma lineare: “io produco, tu consumi” al paradigma multi-sided mediante il quale sono gli utenti a produrre e consumare e il prodotto-piattaforma è responsabile della facilitazione delle relazioni e delle transazioni (in relazione a questo non mi dilungo perché chi è interessato può leggere il post che già ho dedicato a questi aspetti su chefuturo o conoscere meglio il platform design toolkit su meedabyte).
Un esempio veramente interessante è quello di Project Ara di Google. In questi giorni il progetto per un telefono modulare e open source – che porta con se molte promesse in grado di rivoluzionare la produzione dell’elettronica di consumo in un’ottica maggiormente sostenibile e intelligente – ha rilasciato per la prima volta il Module Developer Kit. L’MDK è un manuale che comprende tutte le specifiche tecniche della piattaforma e i files da scaricare: un primo rilevante passo verso un telefono sviluppato come piattaforma in maniera aperta e collaborativa (terrò d’occhio Big G e vi terrò informati su questo).
2. Conoscenza
Accanto alla generazione di dati e metriche sostanziali e alla loro interpretazione l’azienda realmente resiliente sposta l’attenzione sulla “consapevolezza strategica”. Pur se le pratiche Agili e Lean, che ci sfidano a operare su periodi brevi e a fare controlli continui devono avere la prima cittadinanza nell’azienda futureproof, la capacità strategica e la consapevolezza situazionale sono ancora fondamentali strumenti quando si opera su mercati esponenziali come quelli con cui ci confrontiamo oggi. Con queste dinamiche (esponenziali) in gioco se non si comprendono le trasformazioni sul mercato molto in anticipo e con molta chiarezza, si rischia di trovarsi a sentire i primi effetti dei cambiamenti quando è già sostanzialmente troppo tardi e la disruption è inevitabile. Come dice Simon Wardley “business is a game of chess” l’importante e imparare a giocare: studiare le mosse di altri player, valutare le proprie in anticipo.
Comprendere quando l’adozione di una scelta strategica, come ad esempio il rilascio di una propria tecnologia in open source o la trasformazione di un prodotto in un servizio – come succede con i produttori di auto che si proiettano nel car sharing – può impattare il proprio mercato di riferimento è una questione di analisi della catena del valore e di comprensione.
3. Organizzazione
Questa è senz’altro l’era della fine del micromanagement fordista: le più grandi e innovative aziende al mondo oggi hanno un rapporto manager-impiegato che è anche di 1 a 60 (Google).
Altre praticamente non hanno management, come nel caso di Valve, famosa per aver racchiuso i principi dell’un-management in un meraviglioso “Employee Handook” disponibile qui http://www.valvesoftware.com/jobs/index.html veramente da leggere.
L’orizzonte di sperimentazione in questo campo è realmente molto appassionante. Qualche settimana fa si è parlato molto di Holacracy – in corrisponenza dell’annuncio di Zappos dell’adozione della stessa – ma i pionieri dell’anti-fragilità e del management liquido sono sparsi in tutto il mondo. Anche in Italia.
Solo pochi giorni fa, Cocoon Projects – innovativa azienda di servizi Italiana che adotta i principi della co-creazione e dell’apertura con l’esterno – è stata premiata in quanto vincitrice del MixPrize Digital Freedom Challenge poiché creatrice di un processo di management che porta alla “liquefazione dei rigidi controlli, di epoca industriale e delle strutture che creano colli di bottiglia, silos, disimpegno, disallineamento e la miriade di altre patologie organizzative”.
Interessante novità dalla Nuova Zelanda è invece Loomio: una piattaforma open source per le decisioni collaborative che è nata dall’esperienza di collaborazione tra gli attivisti del movimento Occupy e la rete di impresa sociale Enspiral.
Come possiamo vedere, a sperimentazioni che provengono dal mondo aziendale si legano modelli emergenti dal mondo dell’impresa sociale e si producono visioni ancora più ambiziose come quella delle Open Value Networks: reti aperte di generazione di valore in grado di fornire tutte le funzioni di una “corporation” ma in un modo aperto e secondo il paradigma della collaborazione.
Sostanzialmente l’applicazione del modello open source alla corporate: un protocollo in grado di coordinare open enterprises, metterne a fattor comune la produzione e facilitare il riuso degli assett all’interno della rete insieme a una distribuzione equa dei profitti generati da questi ultimi.
4. Governance e proprietà
Altra questione fondamentale riguarda questo aspetto: può esserci reale innovazione nel management della produzione dell’impresa se non c’è innovazione nel modello di governance e nella proprietà della stessa? Molte delle esperienze che abbiamo citato dimostrano che è possibile innovare i modelli di management senza intaccare la struttura privata del capitale (Google e Valve sono aziende a capitale privato e da investitori di diverso tipo). Una discreta ondata di trasformazioni riguardo questi aspetti è già in atto e interessanti sono gli esperimenti di gestione cooperativa che realtà come Las Indias (http://grupolasindias.coop/) – rete cooperativa transnazionale spagnola – o l’inglese United Diversity (http://uniteddiversity.coop/) stanno adottando.
Faccio ancora una volta riferimento a questo talk di Marjorie Kelly, autrice di “The Emergent Ownership Revolution” di cui trovate un transcript qui per un passaggio che ci aiuta a capire quanto l’aspetto della proprietà e della governance abbiano un ruolo chiave nel generare una diversa economia:
“Sono molti i cambiamenti necessari per una nuova economia – politici, culturali, tecnologici. Avremo bisogno di cambiamenti nelle leggi e anche nel sistema dei nostri valori personali. Ma l’elemento critico di cui non parliamo abbastanza è il design della proprietà. Come qualcuno ha detto già, la proprietà è la condizione originale del sistema, riguarda come si crea al ricchezza, e determina chi la ottiene in ultima istanza. In breve determina chi controlla l’economia”
5. Infrastruttura
Altro aspetto fondamentale, nella transizione verso una prospettiva low Energy, di efficientamento e agilità, riguarda la capacità dell’impresa di appoggiarsi a infrastrutture esistenti e non crearne di nuove. Questo approccio è fondamentale non solo da un punto di vista di resilienza e efficienza ma anche per generare una crescita rapida e esponenziale mantenendo il più possibile lo “zero marginal cost”. Appoggiarsi sull’esistente permette infatti di crescere velocemente e di sfruttare la cosiddettà “idle capacity” fatta di risorse non sfruttate. Ancora una volta l’esempio chiaro è quello di AirBnB, che ha creato un business che ormai sfiora una valutazione di 10B$ letteralmente dal nulla (o meglio dai vostri divani letto e dalle vostre camere sfitte) e che è capace oggi di rivaleggiare con le più grandi catene di ospitalità nel mondo in termini di notti dormite.
6. Quale ruolo per le aziende.
È sempre più chiaro dunque che abbiamo bisogno di un radicale ripensamento della missione del capitalismo e della natura delle aziende in virtù del ruolo che esse hanno nel delineare il nostro futuro in questo momento delicato.
In un post molto bello che consiglio e con cui concludo questo lungo pezzo, Thierry Debaillon spiega molto bene che “oltre alla cultura e alla struttura organizzativa del lavoro le organizzazioni devono ripensare la loro natura” in quanto “per più di un secolo, sono cresciute sottraendo risorse materiali ed immateriali alla nostra società” e che in questo momento “invece di lottare per profitti in diminuzione, dovrebbero imparare ad essere utili alla società che le nutre, oltre l’interesse degli azionisti, e diventare i motori fiorenti di un’economia circolare globale”.
E voi e le vostre aziende, siete pronti?