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Il caso del passeggino e la rivoluzione dei makers e dei fablab

lifestyle

Qualche settimana fa ho avuto modo di partecipare a un interessante dibattito, durante la conferenza In(3d)stry a Barcellona, in particolare partecipando al panel “MakerPro” – evidentemente dedicato a esplorare i processi di professionalizzazione del cosiddetto mondo maker. In quanto advisor strategico di OSVehicle, startup Italiana recentemente accelerata da YCombinator che sta rivoluzionando il modo di fabbricare veicoli speciali, sono stato chiamato a raccontare la nostra esperienza e visione, tra le altre cose. Nel momento cruciale del dibattito ci siamo trovati a discutere, più o meno animatamente, anche con l’amico Tomas Diez – direttore del Fab Lab Barcellona e tra le menti pensanti dietro il progetto Fab City – di come – nella realtà – il miglioramento continuo delle tecniche di fabbricazione digitale (l’argomento centrale della conferenza) e la crescita del movimento maker e della relativa consapevolezza possano realmente cambiare il modo in cui i prodotti tangibili vengono realizzati e utilizzati.

Molti si affrettano a decretare la morte (almeno del desktop 3d printing)

Non è la prima volta che viviamo una ondata di delusione in relazione alla reale potenzialità della convergenza di questi due trend (3d printing e makers movement): in questi giorni, un discusso articolo di Newsweek insinua che la bolla del 3d printing potrebbe essere scoppiata e in molti si affrettano a decretare la morte (almeno del desktop 3d printing). I più attenti avranno tuttavia notato, già nel 2014, un grande lavoro di ricerca critica, molto approfondito, che aveva portato gli autori del numero 5 del Journal of Peer Production a una rilettura di fatto molto critica del movimento maker che Peter Troxler aveva riassunto efficacemente nel titolo del suo saggio: “Abbiamo i mezzi di produzione, ma dov’è la mia rivoluzione?”.

fablab e fab city

Come possiamo dunque realmente avvicinarci alla visione Fab City, la città auto sufficiente che produce localmente? Come possiamo pensare che avvenga il passaggio dal paradigma di sviluppo Product In – Trash Out (PITO) che vede i nostri agglomerati urbani agire come enormi consumatori di prodotti e produttori di rifiuti, a quello Data in – Data Out (DIDO) che vorrebbe le città come grandi cervelli collettivi in grado di utilizzare e reintepretare conoscenza e realizzare produzioni circolari, locali e sostenibili?

Questo rimane oggi un punto aperto a cui la grande-piccola rivoluzione dei makers non ha mai saputo dare risposte più di tanto efficaci.

Basta con le rivoluzioni culturali: trovare soluzione ai propri problemi è ancora troppo difficile

Ma partiamo da un’esperienza personale: qualche giorno fa il passeggino di mio figlio si è rotto.

Con l’obiettivo di ridurre la mia impronta ecologica avevo acquistato lo stesso di seconda mano, circa un anno fa. La prima cosa che ho fatto è stata dunque cercare – su internet – un centro di “assistenza” che fosse in grado, pensavo innocentemente, di rivendermi quel pezzo di ricambio: il pezzo rotto non era altro che un minuscolo gancetto in plastica che, inopinatamente da un punto di vista progettuale e sfortunatamente per il consumatore, tiene passeggino insieme quando è in marcia e permette di salire e scendere i gradini.

Con mia grande delusione tuttavia, il pezzo in questione (evidentemente un pezzo soggetto a rotture, se non altro per lo stress) non era tra quelli che la marca metteva a disposizione dei clienti per ricambi: mi sono così trovato a guardare interrogativo i commessi del negozio e, amaramente, a pensare che avrei dovuto comprare velocemente un altro passeggino (cosa che ho fatto, cambiando marca e propendendo per un acquisto nuovo che mi desse una garanzia biennale).

L’idea “stampiamolo in 3d!”

È ovvio – specie per chi mi conosce bene e conosce il mio rapporto spesso critico verso i consumi – che prima di procedere a un nuovo acquisto il mio pensiero abbia scandagliato tutte le possibili strategie alternative. L’idea “stampiamolo in 3d!” si è dunque presto fatta strada tra le possibilità: tuttavia le perplessità e le difficoltà – descritte in maniera efficace qualche giorno fa su Inc. da John Brandon – sono state decisive nel farmi cambiare piano.

“Volevo proprio stampare in 3d il porta bicchieri (di ricambio per l’auto ndr). Ho anche chiesto aiuto a un noto designer su Thingiverse – volevo pagarlo – ma mi ha detto che il pezzo da modellare era troppo complesso. Cosa? Troppo complesso per un noto designer? […] non stiamo parlando di un pezzo che si usa su una navicella spaziale della NASA ma di una molla collegata a due pezzi di plastica che si piegano insieme.”

(John Brandon – 4 Important Lessons You Can Learn Now That 3-D Printing Is Dying)

Nella mia esperienza, in primis, il fablab più vicino a casa mia – io abito in un paese dei Castelli Romani – era a più di 40 chilometri; in seconda battuta non esisteva – ovviamente – un modello del pezzo disponibile che avrebbe dunque essere stato modellato ad-hoc con evidente richiesta di expertise e tempo non banali (vedi la citazione precedente). Inoltre, la meccanica di montaggio del pezzo sul passeggino stesso (una rivettatura) non permetteva una grande facilità di smontaggio e rimontaggio: insomma, riparare questo passeggino utilizzando la tecnologia di stampa 3d Desktop e la competenza della rete Fablab e del movimento, sarebbe stato un vero processo di hacking.

auto-riparare, hackerare, attivarsi

Certo in questo processo avrei imparato tanto: io, come utente consumatore avrei forse finalmente stampato il mio primo pezzo in 3d printing, qualcuno al fablab avrebbe forse imparato qualche tecnica nuova di scanning e modellazione di pezzi di ricambio e probabilmente anche il brand – se fosse stato informato – avrebbe potuto imparare qualcosa riguardo a come produrre prodotti con meno inclinazione a rompersi e una maggiore riparabilità, sempre che questo sia un obiettivo strategico perseguibile per tale brand, come dovrebbe essere nel 21mo secolo.

A questo shift culturale – quello verso un utente che supera il suo stato passivo di consumatore, si interessa, crea legami, sviluppa curiosità e competenza fino a auto-riparare, hackerare, attivarsi – il movimento della Fabcity e dei makers in generale ha, storicamente, fatto troppo riferimento.

Ma come sarebbe stato possibile per me: vittima di una routine complicata, tra lavoro freelance e famiglia, tra viaggi, conferenze, consegne, articoli da scrivere, tempo da passare con mio figlio, fare tutto questo? Semplicemente, non lo sarebbe stato come, infine e nei fatti, non lo è stato. Tutto questo non era “conveniente”.

La convenienza e l’esperienza utente – oggi, in un mondo iperconnesso, veloce e che ci vede sempre sotto pressione che lo vogliamo o no – è troppo centrale per cedere a una visione ideale, culturale, “politica” e in definitiva bohemien della rivoluzione della manifattura.

il futuro della manifattura

Ma dunque come può accadere – e come accadrà – questa rivoluzione? Non vi è alcun dubbio che – come ha scritto tempo fa anche Alessandro Ranelucci su questo blog – dovremo avere a che fare con prodotti diversi, disegnati per la riparabilità e basati su conoscenza e informazioni aperte: design accessibile, istruzioni chiare per le riparazioni come quelle che i pionieri di IFixit accumulano ormai da anni, grazie a proficue collaborazioni con produttori di tutto il mondo.

La rivoluzione della manifattura accadrà dunque al di là della linea di visibilità dell’utente

Tuttavia, più di tutto, più di queste scelte di progettazione industriale e più della rivoluzione culturale del making e repairing credo saranno importanti le capacità di progettazione sistemica e strategica dei produttori: in particolare la nostra capacità – come imprenditori e designer – di progettare per ecosistemi e di fare leva su processi collaborativi atti a motivare le giuste entità a prendere parte a questi processi di produzione del futuro. La rivoluzione della manifattura accadrà dunque al di là della linea di visibilità dell’utente: sarà guidata da business in grado di progettarsi come piattaforme e generare le migliori User Experience senza dover costruire complesse filiere industriali, bensì attraverso l’abilitazione e l’orchestrazione delle capacità produttive che si stanno pian piano riappropriando, anche attraverso i fablab e i makerspace, delle nostre città.

In questo senso i grandi brand di domani – oggi piccoli studi di design o grandi aziende in cerca di nuove strategie – dovranno si imparare a confrontarsi col movimento maker ma, più ancora, dovranno scoprire e acquisire nuove competenze di progettazione come quelle che stiamo cercando di rendere accessibili tramite il Platform Design Toolkit (www.platformdesigntoolkit.com).

Un nuovo concetto di prodotto

Chi volesse dunque domani realizzare domani un nuovo concetto di passeggino – sostenibile, circolare, a prova di futuro e perfetto per la Fab City – dovrebbe sicuramente focalizzarsi in primis sul progettarlo come un prodotto semplice, assemblabile con facilità e riparabile, magari fatto di materiali semplici da reperire localmente (come dei tubolari in alluminio, i tessuti, o i componenti plastici stampabili in 3d). Tuttavia la progettazione del prodotto in se sarebbe solo il primo passo: il brand dovrebbe collateralmente progettare una piattaforma (un insieme di strumenti tecnologici, standard e processi umani) in grado di mobilitare, intorno alle esigenze dell’utente, la rete di competenze, lavoro e capacità capace non solo di produrre l’oggetto ma anche (come avrebbe dovuto essere nel mio caso) di raccogliere un oggetto rotto, ripararlo reperendo i necessari materiali e riportarlo al cliente nel minor tempo possibile o, magari, di sostituirlo all’istante nel quadro di un servizio di affitto.

Se prendiamo l’esempio di OSVehicle – la piattaforma per l’automobile – oltre a assicurare che il design del nostro veicolo elettrico di base sia modulare, semplice e open source, posso dire che stiamo lavorando senza sosta da mesi per aiutare i nostri clienti a comprendere e mettere in atto questa visione di produzione locale e collaborativa. L’obiettivo è creare prodotti la cui fabbricazione possa essere integrata nel tessuto produttivo cittadino o regionale e brands che non necessitino di investimenti portentosi e centinaia di dipendenti ma che imparino a usare un ecosistema che può, se ben orchestrato, realizzare il miglior servizio possibile all’utente pro-consumatore, come insegnano Airbnb, Uber e i giganti della Platform Economy.

Queste aziende creano reti di pari in cui i partecipanti interagiscono e condividono la creazione di valore. I partecipanti possono vendere prodotti o servizi, costruire relazioni, dare consulenza, giudizi, collaborare, co-creare e altro ancora”.

(Barry Libert, Yoram (Jerry) Wind, Megan Beck – “What Airbnb, Uber, and Alibaba Have in Common”, HBR)

Aziende come Uber e AirBnB sviluppato piattaforme per consentire la condivisione delle risorse, piuttosto che possedere una propria flotta di auto o alberghi. Potrebbero le imprese manifatturiere abbracciare questo tipo di economia a piattaforma, distribuendo la produzione su centinaia o migliaia di micro-fabbriche?

(Anna Waldman-Brown – “Can Manufacturing be Democratized?”, Medium)

Se immaginiamo ad esempio un servizio mobilità cittadina disegnato in linea con questi principi, vediamo una flotta di automobili elettriche mantenuta operativa, riparata e gestita da un ecosistema di decine di medio-piccole officine meccaniche e collaboratori part-time e on-demand coordinati grazie a un algoritmo e una piattaforma digitale in grado di nascondere la complessità del processo di business al cliente-utente e allo stesso tempo di dare gli incentivi giusti ai partecipanti al lato produttivo dell’ecosistema.

In conclusione, credo sia giunto il momento di mettere criticamente in dubbio la capacità del movimento maker di cambiare realmente il futuro della produzione e delle città: se lo farà, non sarà probabilmente in virtù dell’ennesimo corso di stampa 3D organizzato da volenterosi disseminatori, bensì grazie alla capacità di design, di progettare esperienze convenienti per un cliente che di rivoluzione non ne vuole sentire parlare e vuole solo un passeggino che non si rompa o che, almeno, possa essere aggiustato velocemente senza troppi intoppi alla sua vita quotidiana.

SIMONE CICERO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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