in

Il corpo delle donne, la moda, la diversità

lifestyle

La moda è quell’oggetto misterioso, affascinante e in perenne movimento che, soprattutto in questi giorni d’autunno e fashion week, raccoglie attenzioni, fotografie, reportage, social share. Ma la moda, lo abbiamo imparato a scuola, è anche caducità ed effimerità. Cambia sempre. A volte torna uguale a prima. A volte scompare e viene dimenticata. È sorella della morte, come ben ci ha insegnato Leopardi. È, in fondo, un oggetto storico, uno specchio dei tempi. È la materializzazione dello zeitgeist. È ciò che siamo o che – quantomeno – vorremmo poter essere. Ispira e seduce. A volte è aspirazionale e lontana dal mondo, elitaria e irraggiungibile. A volte, subito dopo, pesca dalle strade e diventa assolutamente pop. Per tutte queste ragioni, la moda è uno degli strumenti più immediati ed efficienti per raccontare culture, persone, gusti, attitudini.

Ci aiuta a capire dove stiamo andando, e ci permette di capire quali saranno le nuove tendenze. Anche dal punto di vista dell’integrazione e dell’inclusione sociale.

LA MODA, DIESEL E LE REGOLE DEL GIOCO

In principio fu Diesel, che nel 2014 grazie al provvidenziale arrivo di Nicola Formichetti lanciò la campagna #DieselReboot. Un inno alla diversità. Una ventata d’aria fresca in un mondo della moda ancora troppo spesso popolato da corpi incredibilmente perfetti e dunque irraggiungibili. #DieselReboot ha sparigliato le carte. E ha piantato il primo seme del cambiamento. Lo ha fatto dal basso, attivando gli utenti finali. Il pubblico, i fan, i wannabes. Attraverso una call to action aperta e social, Formichetti tramite Tumblr ha catalizzato l’attenzione e dato spazio e voce a chi, normalmente, sulle riviste di moda non era proprio abituato ad apparire.

Modelle disabili, modelle plus size, modelle androgine. E poi artisti, creativi, scrittori.

Gli outsider, gli underdog, i non integrati, i weirdos, quelli “speciali” sono tanti, e sono lì fuori. Hanno una voce e vogliono usarla

Il marketing qui c’entra poco. Questa non è stata soltanto una campagna di super cutting edge. Formichetti arrivava dal mondo di Lady Gaga, e da lei aveva imparato una cosa, forte e chiara: essere tradizionalmente concepiti e intesi come “diversi” non è un limite. Può e deve essere un valore aggiunto. Un punto di forza e di rivoluzione. Gli outsider, gli underdog, i non integrati, i weirdos, quelli “speciali” sono tanti, e sono lì fuori. Hanno una voce e vogliono usarla. Da quel momento in poi, la strada si è man mano aperta sempre di più.

La rivoluzione di chi i vestiti li deve comprare e indossare è ufficialmente partita e anche la moda ha iniziato ad aprire gli occhi. E a cambiare. Si è poco a poco diversificata. Ha iniziato a includere.

TAGLIA E CURVA

Ad esempio, ha cominciato a capire che non esiste solo la taglia 0, ma che anzi le donne hanno forme e curve diverse. Possono essere molto magre, ma anche più burrose. Possono essere alte o basse, avere corpi a forma di triangolo, di pera, di quadrato, di mela. Possono avere le tette, ma anche essere piatte come delle tavole da surf. E proprio per tutte queste ragioni e varietà possono – anzi sono e sanno – essere belle. A modo loro. Un modo reale e soprattutto efficace, come ha dimostrato la campagna #AerieReal di American Eagle Outfitters o le foto vere e vive delle non modelle di Lonely Girls (tra cui c’è anche la mitica Lena Dunham della serie culto HBO Girls).

Molto raramente le donne hanno le curve di Jessica Rabbit

La moda – anche se non tutta – ha iniziato ha capire che molto raramente le donne hanno le curve di Jessica Rabbit e della Coca-cola. E molto di rado assomigliano alla Barbie (che poi, quest’anno si è normalizzata pure lei). La gioventù estrema e assoluta ha iniziato a venire mitigata. In passerella e sui giornali hanno iniziato ad apparire donne anziane. Con le rughe.

DALLE TAGLIE AL GENDER…

Chi costruisce vestiti, sogni e pubblicità ha finalmente iniziato ad afferrare il concetto che la sessualità è fluida, ibrida, non fissa. E che la bellezza è un concetto assoluto e puro, tanto da trascendere i generi e le identità. Anche in questo caso non si è trattato solo di marketing, nè soltanto di voglia di compiacere i gusti non mainstream di tanti millennials. Nei grandi magazzini chic sono arrivate le prime collezioni gender neutral. Andreja Pejic, Ruby Rose e Cara Delevigne sono diventati modelli di culto. Sono anche arrivate le prime campagne di alta moda in cui i modelli erano tutti transgender. E finalmente anche bambini hanno smesso di dover scegliere gli zainetti per la scuola in base ai colori (o rosa o azzurro) o ai disegni (bambole o macchinine?).

…E DAL GENDER ALLA DISABILITA’

La rivoluzione all inclusive della moda non si è fermata al genere, all’età o alle taglie. Ha a poco a poco iniziato ad accettare anche la diversità fisica più assoluta e più tabuizzata. Quella dei corpi mutati dalla chirurgia (non quella estetica), dalla malattia, dalle atrocità della vita e da quella che in tanti consideriamo sfortuna, ma che il favoloso Alex Zanardi ci ha spiegato essere semplicemente una prova da superare a testa alta, e con tutta la caparbietà di questo mondo.

Proprio perché sono corpi alterati comunicano forse addirittura meglio. E sicuramente con più forza

Corpi come questi non smettono nè di vestirsi nè di comunicare. Anzi: proprio perché sono alterati comunicano forse addirittura meglio. E sicuramente con più forza. Il magazine americano Refinery29 è stato pioniere di un movimento che ha man mano iniziato a promuovere l’accettazione di qualsiasi tipo di corpo femminile, grazie a una campagna estiva dal messaggio forte e chiaro: “Take back the beach. It’s your body. It’s your summer. Enjoy them both”. (Riprendetevi la spiagga. È il vostro corpo. È la vostra estate. Godeteveli entrambi).

La campagna non parlava solo alla community LGBTQA+ o alle donne plus size o a quelle super skinny. Andava oltre. Andava dove c’è bisogno di andare e di liberare. Parlava anche e soprattutto di disabilità e accettazione, attraverso storie e fotografie piene di orgoglio, di vita, di bellezza. E scopriva la immensa bellezza, forza e fascino di influencer come l’americana Mama Cax. Modella e ambassador di Alleles (marchio di gambe prostetriche dal design impeccabile e incredibilmente à la page), Mama Cax è una donna di colore a cui manca una gamba che con il suo lavoro di digital storytelling sta contribuendo a trasformare ancora di più l’oggetto moda. Tanto che è appena stata invitata a parlare alla Casa Bianca durante la settimana della moda di NYC per partecipare e intervenire nell’ambito del primo fashion show inclusivo #DesignForAll.

IL CORPO DELLE DONNE E’ DELLE DONNE?

Questa è la migliore moda di oggi. Una moda capace di tracciare nuove strade e di definire nuovi modi di pensare e agire. In grado di vestire e svestire corpi diversi, in modo diverso. Una moda che sa rispondere alle sensibilità personali, ai contesti socio-culturali, alle esigenze del singolo. Espressione libera di una scelta estetica e di un modo di vivere. Questo però non avviene sempre, e il dibattito estivo sui burkini in spiaggia e sui campi da volley di Rio 2016, opposti ai costumi succinti delle donne e sportive caucasiche ce lo ha ben ricordato a tutti, forte e chiaro.

Chi è più libera e chi è più cool? Chi è più schiava delle costrizioni e convenzioni sociali? Chi si copre o chi si scopre?

Il problema è che non sono quasi mai le donne a decidere come, quanto e dove coprirsi o scoprirsi. La pubblicità e i media intervengono giudicando, direzionando, etichettando e stabilendo a priori scelte, stili, vestiti. Per conto delle donne. L’uso quasi “politico” che della moda e degli abiti fanno Kim Kardashian e Emily Ratajkowski con i loro capi iper minimal da un lato e i nuovi brand, influencer e negozi che portano avanti quella che viene comunemente definita “moda modesta” (la stilista mussulmana Anniesa Hasibuan – la prima a sfilare alla New York Fashion Week con una collezione in cui tutti i capi prevedevano il hijab come accessorio; il negozio gestito da due ebree ortodosse Mimu Maxi a Brooklyn; le due it girl australiane Chaya e Simi e la creator Noore) dall’altro, è in realtà molto simile, perché si basa su una regola semplice. Ridare alle dirette interessate la facoltà di scegliere e di decidere.

LA SCELTA

Al di là delle provocazioni e delle estremizzazioni. È chiaro che mostrarsi ripetutamente senza veli è un’azione estrema ed è altrettanto chiaro che a volte i veli imposti dalle religioni sono costrizioni umane, limitazioni forti al diritto e alla libertà. Ma la riappropriazione della propria facoltà di scegliere come coprire, addobbare o mostrare il proprio corpo è, nel mondo libero, il modo migliore che una donna ha per essere di moda.

FRANCESCA MASOERO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

What do you think?

Scritto da chef

lifestyle

Perché per i makers è giunta l’ora di rivoluzionare la manifattura

innovaizone

Blockchain, ovvero la mano invisibile della fiducia