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Il futuro dello sviluppo locale? Cittadini e imprese collaborative

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Come forse saprete nell’ultimo mio pezzo uscito su Che Futuro! mi sono interrogato sul ruolo del capitale e dell’impresa neo liberale nella prospettiva del’economia collaborativa e interconnessa.

Il capitale è stato oggetto di approfondite analisi negli ultimi mesi, anche grazie al lavoro di Thomas Piketty, l’autore francese che ha riportato l’attenzione sulle dinamiche della disuguaglianza, puntando il dito su speculazioni finanziarie – che oggi rendono di più dell’impresa – e sulle grandi corporazioni capaci di accentrare tanto valore e riversarlo sui azionisti troppo spesso definiti fantasma, a testimoniare un loro distacco dall’azienda e un loro interesse legato solo alla redditività del capitale investito.

Interrogato sul ruolo dell’Europa nel regolare e controllare queste sperequazioni, proprio Piketty in una recente intervista ha invitato tutti a riflettere sui limiti di un modello europeo centrato sulla moneta e totalmente assente sul tema chiave della regolazione degli impatti del capitale e dell’impresa su un tema oggi fondamentale quale l’inclusione sociale.

Su temi e iniziative chiave per la soluzione del problema della disuguaglianza, quali l’introduzione di un reddito di base incondizionato o della cosiddetta global corporate tax, un’Europa politicamente unitaria e forte è, secondo Piketty, l’unico attore che sarebbe in grado di confrontarsi con le dinamiche della globalizzazione che – è ormai chiaro un po’ a tutti – sono tra le principali responsabili della sperequazione del reddito.

Tuttavia, pur comprendendo come sia possibile avere istituzioni sovranazionali e europee che incarnino un nuovo ruolo forte rispetto a quello odierno piuttosto trascurabile, possiamo sicuramente riflettere su come allo stesso modo le nostre istituzioni locali, le regioni, le città e i piccoli comuni potrebbero giocare un ruolo piuttosto decisivo nel miglioramento delle nostre esperienze di vita quotidiana come cittadini e attori dell’economia locale.

La sfida dell’inclusione sociale

I fatti di attualità di questi giorni ci spingono a riflessioni serie riguardo l’enorme problema di separazione sociale che viviamo oggi in molte città e territori europei: non c’è molta differenza infatti tra i giovani banlieurs parigini di religione islamica con le loro storie di completo abbandono sociale e quelle dei nostri giovani italiani, che oggi in gran parte del paese affrontano tassi di disoccupazione superiori al 70% e che sono materialmente sconnessi da qualsiasi opportunità di sviluppo.

Gruppo di giovani nelle banlieue. Fonte: Lettera43.it

A causa anche di un’economia che, almeno in Europa, si avvia verso una stagnazione prolungata e una prospettiva di bassa crescita continua – questi giovani abbandonati abbracciano nuove strade: alcuni si rifugiano nella criminalità o come nel caso parigino si abbandonano a estremismi religiosi e al terrorismo.

Sarebbe stato così se il luogo dove vivevano gli avesse offerto opportunità migliori di prendere parte al discorso sociale dell’economia e della produzione di valore? Probabilmente no. E questo è uno dei tanti aspetti che dovrebbe fare dell’inclusione sociale e dello sviluppo locale delle città e dei territori un tema di estrema attualità.

Budget pubblici stagnanti e depauperati dalle politiche di austerity hanno azzoppato qualunque potenzialità di intervento pubblico e oggi, in questi contesti, l’inclusione sociale è un miraggio molto distante

Allo stesso modo, nei territori rurali a ridosso delle grandi città metropolitane europee scarseggiano le opportunità lavorative e gli investimenti e l’economia rallenta quasi fino a fermarsi. Le nostre città si deteriorano, la qualità della vita peggiora.

Primi passi: Bologna e il regolamento sui beni comuni

E’ dunque piuttosto chiaro a tutti come oggi servano politiche nuove che superino l’inefficace catena di intervento pubblico classica: stanziare il budget, pianificare gli interventi, ottenere scarsi risultati; questo nel migliore dei casi. Dall’altra parte rimane la limitante via della privatizzazione, che è oggi dominante nell’Europa dell’austerity: approccio che spinge verso il mercato quello che non dovrebbe andarci a finire, come i servizi primari, trasformando i nostri servizi pubblici da un bene comune a una commodity senza valore.

“Dato che gli enti locali di tutto il mondo iniziano a ricostituire i servizi pubblici esternalizzati durante gli anni di Reagan e della Thatcher, gli attivisti anti-privatizzazione hanno oggi l’opportunità non solo di accelerare la tendenza verso la riconquista del pubblico, ma anche di democratizzare i fornitori di servizi pubblici dall’interno. [La logica della ricerca del profitto] è fondamentalmente inadeguata per il settore pubblico in cui la misura di efficienza dovrebbe essere la soddisfazione dei bisogni sociali piuttosto che la generazione di profitti”. (Fonte: Public Services: Commodity or Common Good? Di Anna Bergren Miller su Shareable)

Sciopero in Grecia contro i tagli ai posti di lavoro. Credits: Public Service International / Flickr

Una prima pregevole sperimentazione di nuovi modelli di cooperazione e di un nuovo modo di co-generare l’intervento pubblico nasce proprio in Italia grazie a Labsus e al regolamento per la cura e la rigenerazione condivisa dei beni comuni cittadini che è stato sviluppato e implementato per la prima volta a Bologna.

Sebbene questo sia solo un primo passo, il regolamento, che permette ai cittadini di partecipare alla gestione dei beni comuni, è stato effettivamente sostenuto e accettato già da una decina di città piccole e grandi in tutta Italia, che ora stanno avviandone la sperimentazione. Tuttavia pur riconoscendo l’enorme valore di un regolamento che favorisca e renda possibile la collaborazione tra i cittadini e la Pubblica Amministrazione, dando una nuova dignità alla partecipazione e alla tutela dei beni comuni urbani, la domanda chiave che deve seguire è cosa ci sia oltre.

In un certo senso, questa domanda è stata già posta dagli stessi autori del regolamento. Oggi vediamo infatti un interessante ulteriore sviluppo nell’esperienza di Co-Mantova, dove si sta passando effettivamente dalla fase di “contribuzione” sostanzialmente gratuita del cittadino a una vera prospettiva di sussidiarietà tra pubblica amministrazione e ecosistema produttivo, che verte sulla creazione di una sorta di agenzia di comunità, capace di indirizzare le opportunità verso gli attori sociali in grado di implementarle, seguendo un’agenda condivisa da tutti gli stakeholder del territorio. Insomma, l’obiettivo è quello di far nascere delle vere e proprie imprese per i beni comuni (qualunque sia la loro forma). Il progetto Co-Mantova sta dunque puntando sul co-design: l’approccio giusto per disegnare quel sistema di vantaggi – sulla base delle esigenze e delle motivazioni di ognuno – in grado di generare una vera partecipazione alle opportunità.

Il cambiamento nell’organizzazione: dal monolite alla piattaforma

Tuttavia i passaggi chiave che potrebbero realmente liberare nuove energie e cambiare l’agenda pubblica locale sono piuttosto difficili da digerire, specie per una PA che vive eternamente nel mezzo tra l’essere pachidermica e sottodimensionata, vittima di competenze congelate negli anni, visto il turnover piuttosto insignificante e praticamente incapace di attrarre qualsivoglia talento.

Sappiamo come oggi la natura stessa del lavoro cambia – insieme a quella dell’economia e dei mercati – e che tantissime competenze, potenzialmente chiave per lo sviluppo territoriale e per l’agenda della comunità sono distribuite presso gli attori della società civile: i singoli creativi e social innovators, nuove imprese sociali, associazioni, cooperative. Nel mondo del business, veniamo da un decennio di tentativi di abbracciare l’open innovation di H. Chesborough e ci siamo accorti che l’innovazione viene da fuori le aziende.

Allo stesso modo una Pubblica Amministrazione che si basi su un modello classico di gestione del budget e del lavoro interna non sarebbe forse in grado di cavare davvero valore da una collaborazione coi cittadini: non avrebbe fondi sufficienti e probabilmente nemmeno approcci e procedure – o strumenti cognitivi – per favorire e valorizzare questo tipo di contributi.

È dunque per questo che probabilmente occorre cambiare radicalmente il protagonista delle politiche di sviluppo urbano e territoriale: passare dalla dominazione dei budget di spesa alla centralità della generazione di valore

Occorre fare in modo che il valore economico generato grazie alle politiche di facilitazione e di coinvolgimento della società superi di gran lunga il valore finanziario scambiato, troppo spesso scarso. Tutto questo si può fare definendo obiettivi strategici chiari, co-progettati proprio con la comunità locale, a cui venga poi legata una forte facilitazione della contribuzione dei cittadini. Ad esempio molte organizzazioni private oggi stanno sperimentando metodologie per il cosiddetto Value Accounting.

Studenti che dipingono nell’ambito del progetto “Rock your School” realizzato da Labsus in alcune scuole di Roma. Credits: Rockyourschool.org

Il Value Accounting è un approccio antitetico al time accounting (dove si tiene traccia del tempo dedicato a un task): in organizzazioni che adoperano l’approccio basato sulla misura del valore, tutto è più cooperativo, facile e trasparente. Si perde poco tempo a pianificare i dettagli e – particolare più di tutti fondamentale – si premia l’azione piuttosto che la perdita di tempo. In sostanza, si realizza un lavoro, mantenendo l’attività aperta a tutti – in non-competizione – e poi si valuta cooperativamente quanto valore quel pezzetto di lavoro ha realmente prodotto.

Una tale rivoluzione stigmergica (abilitante la contribuzione indipendente e non gestita), sarebbe senz’altro perfetta per liberare nuove forze nella Pubblica Amministrazione locale e dovrebbe inoltre basarsi o completarsi con strumenti avanzati di premialità, come l’utilizzo di monete complementari locali. I cittadini potrebbero poi utilizzare i “crediti” guadagnati nella compartecipazione alla produzione dei servizi, su scala locale, oppure utilizzarli per pagare le tasse al proprio comune di rifermento: quanta prosperità potrebbe essere generata da una PA locale permeabile dall’esterno, capace di attrarre collaboratori senza la complessità del doverli gestire, capace di superare la scarsità di denaro e orientando gli sforzi della comunità a ciò che è necessario? Il livello di complessità di una tale prospettiva è però più chiaro se si pensa che sia Bologna che Milano, le città senz’altro più avanti sulla prospettiva di città collaborativa, non fanno menzione di tali avanzate soluzioni di collaborazione nelle loro delibere e regolamenti.

I modelli collaborativi e i servizi primari

Nel mappare le implicazioni degli sviluppi dell’economia collaborativa durante i primi mesi del progetto Sharitories (di cui parleremo anche alla Sharing School di Matera) abbiamo individuato decine di casi e il nostro lavoro è solo all’inizio.

Nel costruire questa sorta di tassonomia dal basso (accessibile qui, aperta ai commenti) ci siamo accorti, raggruppando le pratiche, che esse sono distribuite su moltissimi campi di applicazione. Andando ben oltre la collaborazione alla gestione della cosa pubblica, essi possono variare dai servizi di mobilità complementare alla produzione e alla distribuzione alimentare, dal coworking allo scambio e al riuso di oggetti di primaria utilità e per arrivare fino alle cooperative che si occupano di housing sociale o di servizi di telecomunicazione, costituendo sostanzialmente un buon ventaglio di quei servizi primari a cui tutti noi non possiamo rinunciare, che hanno costi vivi e impatti ambientali e sociali. Nel campo di questi servizi primari in fin dei conti, l’economia abbondante della rete – che tanto ha fatto per diminuire i costi dell’intrattenimento o dell’accesso ai mezzi di produzione digitale – non può aiutarci più di tanto, se non supportata propriamente da attività di cooperazione offline.

Non rappresenta dunque un’enorme possibilità inespressa quella di favorire la comparsa di nuovi attori economici cooperativi e collaborativi atti a produrre questo tipo di servizi su scala locale?

Quanto sarebbe prospera un’economia locale che producesse ricchezza localmente, impiegando persone della comunità per co-generare i servizi primari che costituiscono la vera base del nostro benessere? Anche per questo abbiamo deciso che negli sviluppi della ricerca per il Toolkit per i Territori Collaborativi, promossa da OuiShare e ForumPA, includeremo l’analisi dei pro e dei contro dei vari modelli di governance possibili (cooperative, non-profits, aziende tradizionali, gestione pubblica) per questo tipo di servizi collaborativi.

Elinor Ostrom, credits: Nytimes.com

Alla luce di queste riflessioni dunque, quel regolamento di Bologna per il governo dei beni comuni cittadini che ci pone senz’altro tra i più avanzati sperimentatori nel mondo, pur nella sua ambiziosa visione, risulta drammaticamente inadeguato alle enormi sfide della contemporaneità. Si tratta allo stesso tempo di un momento seminale e di grande portata, scritto forse con lo scopo di diventare il primo dei “baby steps” che ci separano dalla visione dello stato Partner, abilitante e co-gestito, e dall’altra di una soluzione evidentemente limitata in termine di portata.

Tuttavia, forse proprio gli Italiani con la loro storia di cultura cooperativa, potranno essere i primi a incarnare realmente i principi per cui E. Ostrom vinse il suo Nobel postumo. Trattare non solo la cosa pubblica ma anche i servizi pubblici realmente come bene comune e renderli un fattore di sostenibilità sociale e di inclusione potrà rappresentare una vera prospettiva di evoluzione in Italia e nel mondo.

SIMONE CICERO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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