Il lato oscuro dell’economia collaborativa

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Riconoscere il cambiamentoConoscere e riconoscere il cambiamento, comprenderlo, saperlo interpretare: sono senz’altro molti quelli che oggi darebbero tutto per poter riuscire in questa titanica sfida.Rispondere a queste domande è tuttavia difficile e, malgrado gli eventi e gli incontri sul tema “cambiamento” abbondino, ogni qual volta ci troviamo a parlare di innovazione sociale si rinnova una particolare e piuttosto spiacevole situazione in cui tutti usiamo parole simili, ma le intendiamo un po’ a modo nostro affogando spesso la discussione per la mancanza di un vocabolario condiviso. Spesso, la confusione nei termini monopolizza perfino la discussione stessa e si finisce a parlare più di quanto corretto sia un termine piuttosto che un altro – quante volte ho sentito le parole “questo non è sharing!” o “questo non è veramente open!” – rispetto a quanto si entri nel merito dei reali progetti e dei risultati tangibili delle iniziative.

La confusione nei terminiIl problema della mancanza di significati condivisi nelle parole chiave dell’innovazione di oggi (parole come come social innovation, sharing economy, economia collaborativa, modelli peer to peer) è stata affrontata già in diversi casi e da molti esperti. Se solo ci limitiamo all’economia collaborativa, che è il tema che seguo maggiormente, i tentativi di capirci qualcosa di più sono stati molti e autorevoli. Di recente Jeremiah Owyang, noto guru del social business e fondatore di Crowd Companies, ha rilasciato il suo Collaborative Economy Honeycomb, strumento che, peraltro, guarda più alle industrie e ai settori merceologici che ai modelli – ma fornisce comunque una utile classificazione.Anche Rachel Botsman – autrice del seminale “What’s mine is Yours” del 2010 – qualche settimana prima aveva fatto notare a tutti come la Sharing Economy mancasse di una definizione chiara e condivisa: vi assicuro, che pure in noi che questa “economy” la praticavamo e studiavamo già da parecchio tempo, albergava una certa confusione.

THE SHARING ECONOMY LACKS A SHARED DEFINITION: GIVING MEANING TO THE TERMS from Collaborative Lab

Ma se la questione tassonomica è dunque molto attuale nel dibattito, lo è meno forse quella “ontologica” che tuttavia sta diventando rapidamente tema caldo della discussione sull’innovazione. Oggi si discute di più del reale significato e della relazione oggettiva che esiste tra l’emergere di questi nuovi modelli (aziende piattaforma, reti e marketplace peer to peer, sevizi di disintermediazione, mercati sotto-regolamentati, micro-imprenditorialità) e gli impatti che si generano sulla società at-large.

Il lato oscuro dell’economia collaborativa

Precarizzazione, gentrificazione, disuguaglianza: questi i paradossali effetti dell’innovazione, a volte. Molti oggi guardano con scetticismo ai grandi trend tecnologici abilitanti che hanno reso possibile la nascita di questa rampante ondata di aziende.

Queste aziende, spesso in barba alle legislazioni esistenti, altre volte grazie alla mancanza di regolamentazione in ambiti dell’economia ancora piuttosto inesplorati, hanno spaccato in due interi settori merceologici: l’intrattenimento, l’informazione, l’ospitalità, la mobilità,il turismo e stanno rapidamente arrivando al lavoro intermittente e professionale, al cibo e a molto altro ancora.

“Anche se le imprese della “Sharing Economy”, come Airbnb, LYFT, Uber, e TaskRabbit sono state create con l’idea di connettere le persone e creare nuovi imprenditori, sono stati disegnate per “spaccare” i modelli di business esistenti. Tale processo può essere duro, in quanto a volte può seminare il caos non solo in grandi industrie come quella degli alberghi o dei taxi, ma anche nell’aspetto quotidiano di come le persone si guadagnano da vivere e su dove possono permettersi di abitare.”

Da Brad Tuttle Time.com: “6 Horrible Things the Sharing Economy Is Being Accused Of“

“E ‘naturale che i meno fortunati, sotto il peso dell’austerità, stiano trasformando le loro cucine in ristoranti, le loro auto in taxi, e la vendita dei loro dati personali in attività finanziarie. Che altro si può fare? Per la Silicon Valley, questo è un trionfo dell’ imprenditorialità – uno sviluppo tecnologico spontaneo, non correlato alla crisi finanziaria. Tuttavia questo atteggiamento è imprenditoriale nella stessa misura in cui le persone sono spinte – dalla necessità di pagare l’affitto – alla prostituzione o a vendere parti del loro corpo. I governi potrebbero resistere, ma hanno i budget da approvare: Uber e Airbnb saranno eventualmente ammessi a sfruttare questa “miniera d’oro”, a loro piacimento, incrementando le entrate fiscali e aiutando i cittadini a sbarcare il lunario.”

Evgeny Morozov Le Monde Diplomatique “How much for your data?”

Si è discusso molto nel recente passato del legame tra capitale di ventura, innovazione sociale e economia collaborativa e non si può dimenticare il grande trambusto che c’è stato e c’è tuttora sul caso Uber o AirBnb, con insignificanti multe (come quella recente di 30.000 euro ad Airbnb a Barcellona) o più aggressive sospensioni dei servizi. D’altro canto, dobbiamo essere sinceri con noi stessi e constatare che l’enormità del cambiamento che ci attende è tale che forse non possiamo capirne ancora le effettive caratteristiche, i limiti e le dimensioni.

E anche per questo, in linea con questa lotta alla scoperta dei significati veri della parola “innovazione”, che mi è piaciuto partecipare a quello che ormai per me è un appuntamento fisso, la Summer School di Societing, giunta ormai alla sua V edizione, evento di cui si è parlato anche lo scorso anno su questo blog. Ebbene quest’anno la Scuola aveva come oggetto di studio la “Epistemologia del Cambiamento e della Social Innovation” e si proponeva di indagare sul “cambiamento sociale, diffuso, che viene dal basso […] fondato sulla prassi quotidiana di una moltitudine […] non violento, senza nemici chiari” apparentemente “diverso da quello che fece da modello per le grandi rivoluzioni dei secoli scorsi”, con l’obiettivo di comprendere cosa significa cambiare le cose e come questo cambiamento potrebbe effettivamente accadere.

Il cambiamento

Non vi tedierò con la metodologia, ma da buon soldato della co-creazione, il contributo che ho voluto portare alla Summer School è stato ancora quello di moderatore, stavolta solo di un paio di brevi sessioni – l’anno scorso avevo moderato 9 ore di un faticosissimo, ma bellissimo, workshop di envisioning.Queste due sessioni sono state focalizzate sulla ricerca dei “motivi” e degli “attributi” del cambiamento. Forse avremmo potuto fare di più, ma tra una lunga chiacchierata in una – piuttosto mistica – yurta mongola montata per l’occasione da Jaromil e l’arrivo inaspettato di una pasta e fagioli, il tempo è volato via in fretta. Tuttavia, il nostro sforzo di elencare e identificare i motivi del cambiamento ha prodotto una piuttosto interessante visione che vede i perché del cambiamento suddiviso in quattro macro-gruppi:• I fattori abilitanti: l’innovazione tecnologica, l’accesso a internet pervasivo, la disponibilità di conoscenza aperta sui modelli e sulle esperienze e la possibilità di avere interazioni sociali su larga scala con moltitudini di persone• I cambiamenti nello scenario in particolare l’evidenza della crisi del modello capitalista/consumista in quanto portatore di un nichilismo e una irresponsabilità nei confronti dell’ambiente non più tollerabili, anche a causa di chiari e pressanti problemi ambientali e sociali. Tutto questo con – sullo sfondo – l’evidenza ormai che quella che ci aspetta è una prospettiva di economia a bassa crescita (o di post-crescita) e di crisi del lavoro (jobless economy, automazione massiva)• I nuovi bisogni quali la crescente e stringente pressione economica su una vasta fetta della società, precarizzata e marginalizzata, e un mercato del lavoro che si assottiglia; la necessità di conoscere e applicare nuovi modelli di impresa atti a creare sviluppo laddove il mercato stenta a generarlo, (piccoli centri, aree rurali, periferie – non solo geografiche – delle città sempre più gentrificate)• I cambiamenti nelle aspettative e la ricerca di una visione identitaria nuova e di una affermazione personale – dovuta forse anche a un tratto culturale tipico dei millennials, nati con l’aspettativa di diventare astronauti, Nobel o presidenti della Repubblica e che oggi ricercano quantomeno la possibilità di creare un lavoro diverso in cui possano credere e di sentirsi parte di una comunità di innovatori veri che creano impatto positivo.Dove i secondi due possono a mio parere essere visti un po’ come conseguenze dei primi.

In parallelo all’indagine sui motivi credo sia altrettanto importante interrogarci sugli “attributi” dell’innovazione e del cambiamento. Come forse ricorderete, qualche settimana fa vi ho presentato una distinzione e classificazione che Michel Bauwens ha fatto pensando a questa ondata di innovazione che viene dalla rete e dalle reti: Bauwens si limita a distinguere tra l’innovazione centralizzata e quella decentralizzata e, sull’altro asse, tra quella a “capitale privato” e quella che invece punta sui “beni comuni”.Provando ad estendere questo ragionamento ad altri aspetti, siamo arrivati a definire molti altri “assi” lungo i quali l’innovazione può caratterizzarsi ed essere, inevitabilmente, differente: chiusa o aperta, monolitica o generativa, a lungo termine o a breve termine, sostenibile o meno, iper-locale o globalizzata, top down o bottom up.

Molte sono dunque le sfaccettature e i tratti che l’innovazione sociale e collaborativa può avere; molti anche i dubbi che oggi sorgono in chi deve comprenderla e utilizzarne i modelli per lo sviluppo G-Locale nei territori. Anche per questo con OuiShare, grazie all’aiuto del partner co-fondatore ForumPA, abbiamo lanciato un nuovo progetto, Sharitories – i cui risultati preliminari verranno lanciati a Smart City Exhibition a Bologna il 23 Ottobre – che riguarda proprio lo sviluppo di un “toolkit” (il Collaborative Territories Toolkit) ovvero un insieme di strumenti che possano essere utilizzati nelle tre fasi: comprendere, definire una strategia e una politica di sviluppo, implementare.

Parliamo di Politica o di Amministrazione?

Il fatto che parliamo di politica del cambiamento – non solamente di “amministrazione” dell’innovazione – è oggi più chiaro: proprio pochi giorni fa un bell’articolo sul Washington Post, spiegava come “il sogno apolitico della Silicon Valley” sia definitivamente tramontato, con chiarezza, nel momento in cui Uber, ha assunto David Plouffe – ex advisor di Obama e persona sicuramente ben informata e connessa a quello che succede a Washington.

Quello che queste aziende hanno in comune è che, a un certo punto della loro crescita, si sono rese conto che le politiche in corso di progettazione a tutti i livelli di governo hanno avuto e avranno effetti diretti o indiretti sulla loro attività, e hanno reso impossibile ignorare le persone che si stavano occupando di questo processo decisionale. Piccole start-up prive della scala per attivare questo livello di domanda possono permettersi di perseguire l’innovazione senza permesso e ignorare il governo e la politica. Le imprese più grandi – o forse più precisamente, le imprese con ambizioni più grandi – non possono.

Brian Fung, The Washington Post “The real world is undermining Silicon Valley’s apolitical fantasyland”

Dunque Uber (che sta avendo già i suoi problemi a confrontarsi con gli incumbents ovvero con le aziende e le cooperative che, spesso sottostando a regolamentazioni piuttosto stringenti, forniscono il servizio nelle più importanti città del mondo) abbandona il terreno dello scontro frontale per un più efficace e tradizionale approccio di lobbying, per ora limitandosi agli Stati Uniti. Su questo tema – quello delle città e dei territori e dell’impatto che aziende come questa possono avere sui servizi primari come la mobilità, o l’housing – piuttosto illuminante è stato il “Smart City States”, il keynote di Bruce Sterling al Fab10.

In un animato intervento lo scrittore cyberpunk – divenuto oggi anche uno dei più apprezzati narratori del movimento hacker e maker – compara l’anima decisa della Venezia città stato, decisa a imporre la sua politica su se stessa e sul mondo, alla odierna Seoul del sindaco Park Won-soon. La nuova Venezia, sì accetta di dare alla tecnologia il ruolo di fattore abilitante della trasformazione collaborativa, ma lo fa con un intervento forte, inevitabilmente politico, arrivando persino a bandire Uber, per lanciarne un’alternativa fatta in casa, sostanzialmente “pubblica”. A Seoul così si nega lo sfruttamento di una infrastruttura pubblica (la città, le sue strade) a un capitale globalizzato e privato e ci si prende la responsabilità politica di dover sviluppare una visione alternativa al soluzionismo tecnologico della Silicon Valley.

Una bella responsabilità: quando Uber e Google offriranno in tutto il mondo un servizio di trasporto pubblico autonomo e super efficiente sarà difficile competere. O forse no?

Sterling conclude il suo intervento, preconizzando – in soli tre anni – una svolta politica che coinvolgerà noi tutti che oggi facciamo parte di questa laboriosa comunità dell’innovazione, genuinamente collaborativa e che di certo non potrà prescindere dalla collaborazione – o in ultima analisi dalla conquista culturale e politica – delle amministrazioni locali.

Quanti Futuri Possibili?Il punto è questo: quanti sono i futuri possibili? Date le chiare condizioni attuali (il crescente disagio sociale e la disuguaglianza, la scomparsa del lavoro, la crisi del modello capital-consumista, gli incredibilmente pressanti problemi ambientali), quanto tempo e quanta libertà abbiamo per elaborare una visione comune a cui tendere insieme, con decisione?

Quanto di questo futuro si può generare metodologicamente, adottando un approccio co-creativo, partecipativo, basato sul dialogo e sul confronto tra le parti? Perché e quali resistenze culturali incontriamo? Bene, ancora una volta, ringrazio la Summer School per avermi fornito tanti e tali spunti di riflessione. Il primo riguarda certamente una maggiore consapevolezza sul fatto che anche noi – che ci riempiamo la bocca di innovazione, cambiamento, condvisione, collaborazione, apertura – abbiamo le idee poco chiare: questo futuro finalmente equilibrato, inclusivo e sostenibile forse non riusciremmo neanche a descriverlo in un Haiku (come ha chiesto recentemente Kevin Kelly ai sui follower), figuriamoci in una visione consistente.

I’ll pay $100 for the best 100-word description of a plausible technological future in 100 years that I would like to live in. Email me.

— Kevin Kelly (@kevin2kelly) May 12, 2014

In ultima analisi, credo che elaborare una visione chiara, direi politica e umana, di ciò che ci aspettiamo dal cambiamento dovrebbe essere sulla cima della nostra agenda, in quanto significativo anche in relazione alla via da percorrere verso la società del futuro-presente. Senza una chiarezza nella visione ci sarà molto difficile anche comprendere quali sono, e se ci sono, le opportunità e se queste sono nella via “mediterranea” alla social innovation – questione che in parte era proprio il Focus di questa Summer School, e che dovrebbe essere il focus dell’attività del nostro governo, o almeno parte del quadro chiave.

Se è vero infatti che alcune delle prerogative culturali del nostro Sud, del Sud dell’Europa si sposano piuttosto bene con alcune delle dinamiche nascenti nella società, dall’altra parte nutro ancora dei dubbi riguardo alla nostra (italica, mediterranea) capacità di comprendere quanto realmente e radicalmente nuovi – e a loro modo, radicalmente antichi – siano i modelli di vita e di sviluppo i cui semi dobbiamo seminare oggi.

Come ha fatto più volte notare Adam Arvidsson durante la Summer School, alcuni tratti del modello mediterraneo – un’economialaboriosa” dove si condividono i saperi, ci si basa sulla relazione più che sulle regole, si pensa più alla “situazione” che alla “pianificazione” – rendono forse il Sud dell’Europa e il Mediterraneo, più simili all’Oriente e alla Cina che all’Occidente anglosassone. Questi tratti, largamente ereditati dalla nostra storia e dalla nostra posizione geografica, più che dalle recenti generazioni, oggi rappresentano una grande risorsa culturale, umana e ambientale. Riusciremo a ricostruire una visione che parta da qui? Credo possa succedere, a patto che cambino le nostre prospettive sia verso il consumo e gli stili di vita che verso il nostro impegno sociale e di comunità (in ultima analisi politico) e che riusciamo a ripensare noi stessi come parte di un’economia frugale dal punto di vista delle risorse ed abbondante di significati.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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