Il mondo salvato dai giornalisti –

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Il 28 aprile, Luca Sofri ha partecipato all’International Journalism Festival di Perugia con un intervento dal titolo ambivalente: “Il mondo salvato dai giornalisti”. Gli abbiamo chiesto di condividere i suoi appunti originali.

Io mi chiamo Luca Sofri, ho 47 anni, e faccio il direttore del Post: è un giornale online e ha due anni. Ve ne parlo brevemente perché in questi due anni è stato per noi uno straordinario luogo di sperimentazione e ricerca sui funzionamenti dell’informazione e della rete, e sul rapporto con i lettori.

È nato il 19 aprile 2010, e venni a Perugia a presentarlo che aveva pochi giorni: ormai viviamo Perugia come una sorta di festa dei compleanni del Post. Cominciammo con una redazione di cinque persone, ora siamo sette a cui si sono aggiunti quattro collaboratori fissi.

Quando scrissi sul mio blog che cercavo persone, risposero in 400. Altre 400 hanno risposto a un nuovo annuncio dell’anno scorso, quando abbiamo coinvolto nuovi collaboratori.

Il Post è aggiornato ogni giorno dell’anno dalle 7 del mattino all’una di notte, circa. Questa settimana ha avuto una media di 90mila lettori unici al giorno, dato di Google Analytics. Nel 2010, due anni fa, una settimana dopo essere partiti, erano 11mila. Stessa settimana, un anno fa, nel 2011, erano 25mila. Adesso sono 90mila. Che comincia a essere un numero interessante per capire delle cose.

Quando progettammo il Post, volevamo due cose. Una antica, una moderna. Quella antica era cercare di ricostruire una qualità dell’informazione che ci sembrava si stesse perdendo, ultimamente: a partire da due criteri trascurati, l’affidabilità delle notizie e la gerarchia delle notizie.

Quella moderna era che l’informazione online cominciasse ad avere in Italia lo spazio che meritava, che aveva guadagnato in altri paesi, mentre da noi era rappresentata pochissimo e da siti molto “tradizionali” nello sfruttamento del mezzo. Volevamo insomma che l’informazione italiana non fosse ancora sempre appaltata ai grandi gruppi editoriali della carta e ai loro brand, buona o cattiva che fosse, e ai meccanismi di un’informazione datata rispetto alle opportunità e alle richieste delle nuove tecnologie. Ne ha scritto Angelo Agostini nel suo libro appena uscito per il Mulino (Giornalismi): fino a due anni fa, nel campo dell’informazione italiana, la rete intesa come altra prospettiva non esisteva.

Questa seconda cosa pensiamo di averla cominciata a realizzare, con l’aiuto anche di altri colleghi che sono venuti dopo.

Le cose cambieranno ancora. Tra poco vedremo come non sia solo una questione di numeri, ma di modi diversi di fare le cose. Ma prima voglio dirvi due parole sulla cosa antica, invece. Hanno a che fare col modo in cui intendiamo i giornali e il giornalismo. Questo modo può essere molto diverso per ognuno, e quello di cui parlo qui è quello che intendono e condividono diversi di noi, che pensano che non sia un lavoro come un altro e che abbia delle responsabilità, di cui essere contenti.

I giornali sono infatti due cose: sono prodotti commerciali, e sono servizio pubblico. Ieri ho letto un articolo, che aveva segnalato su Twitter Claudio Giua (praticamente ogni articolo che cito oggi l’ho scoperto grazie a Twitter). Parlava di giornalismo, e l’autore cominciava così:

“Mio padre, un giornalista, è morto qualche giorno fa. Mi ha insegnato che il giornalismo non è solo un lavoro, ma una responsabilità, una forma alta di pubblico servizio. Io ho fatto del mio meglio, e lo faccio ancora, per esserne all’altezza”.

Gli equilibri e le contraddizioni tra le due funzioni – prodotti commerciali, e servizio pubblico – sono dibattuti e citati dal giorno in cui uscì il primo giornale, e quindi non dirò ulteriori banalità. Basta che abbiamo presente che qualunque scelta facciamo ancora oggi facendo questo lavoro discende da queste due funzioni e dal punto in cui ci poniamo sulla linea che le unisce e tiene distanti insieme. E guardate che quando parliamo di prodotti commerciali non ci riferiamo solo alla priorità o meno di farci dei soldi per farci dei soldi, ma anche a quella di farcene abbastanza perché il giornale possa esistere.

L’accurata ricerca di Nicola Bruno di cui si è parlato nei giorni scorsi, nelle sintesi giornalistiche è sembrata sostenere che per i giornali online “l’obiettivo è la sopravvivenza”, come se questo fosse un obiettivo minore, da contrapporre a quello di diventare imprese in grandi attivi e successi economici. Invece quello è l’obiettivo maggiore, lo è sempre stato, per molti di quelli che hanno creato e lavorato ai giornali (e oggi lo è poi diventato per tutti, come sapete: è pieno di grandi giornali che chiudono).

Facciamo i giornali perché crediamo siano una cosa buona e per guadagnare abbastanza da poter continuare a farli. Questo è il vero equilibrio tra le due funzioni in cui crediamo. Se guadagni di meno, il giornale chiude; se guadagni di più vuol dire che ti puoi permettere di fare il giornale meglio di com’è, con quei guadagni. In teoria, il miglior giornale possibile è no-profit. Certo, ci sono quelli per cui i giornali sono un’impresa commerciale come un’altra e quello di cui discutono sono i modi migliori per guadagnare dei soldi dai loro investimenti: sono discussioni interessanti e stimolanti, come molte altre, ma non hanno a che fare con quello che facciamo noi. Noi lavoriamo per fare dei buoni giornali: per la loro “sopravvivenza”. Come ha scritto Massimo Mantellini proprio di quello che ha visto qui a Perugia:

“Persone accomunate da una unica sotterranea aspirazione: migliorare anche solo di un po’ questo povero mondo a colpi di parole”.

Come si aggiornano queste idee, queste aspirazioni e questi progetti negli anni di Internet e delle rivoluzioni che conosciamo? In molti modi, molti dei quali non conosciamo. Quello che dobbiamo avere chiaro è che l’informazione non sarà più quella di prima ed è sciocco pretendere di conservarla come tale. Non esiste un’informazione del futuro, ma ne esisteranno moltissime: vere e false, buone e cattive, ricche e povere, grandi imprese e singoli dilettanti, carta, TV, Internet e chissà cos’altro. La nostra informazione è già oggi fatta di tutto questo, e non perché siamo in un periodo di transizione. Lo ha scritto così Filippo Sensi su Europa, un paio di settimane fa:

“Si rassegnino apocalittici e integrati a uno scenario molto più sfocato, mosso e bastardo di quello che spererebbero le due curve, quella del presto e online, e la ridotta dell’odore dell’inchiostro”.

Il futuro è un continuo periodo di transizione, come lo è il presente: non stiamo aspettando che le cose si consolidino, che nuove regole siano codificate, che arrivino le idee che sostituiscono quelle con cui abbiamo fatto i giornali fino a ieri. No. Siamo già dentro alle cose come saranno: saranno tante, diverse, e conviveranno insieme e noi le useremo tutte. Quello che dovremo essere capaci di fare è riconoscerle, distinguerle, capire quali sono vere e quali false, quali durano un giorno e quali cambiano il mondo, quali sono fesserie più o meno curiose e divertenti e quali aiutano a capire la realtà, quali sono scritte per farcela capire e quali per guadagnare dei soldi. Ammesso che vogliamo continuare a capire il mondo e i suoi funzionamenti presenti e futuri.

E adesso che ci siamo detti cosa ci stiamo a fare (e perché noi facciamo il Post) parliamo di Internet. La domanda che ci facciamo è: esiste un modo per conciliare questo lavoro “conservativo” di ricostruzione di una qualità dell’informazione – basata su maggiore accuratezza e su una rigorosa gerarchia delle notizie: quello che è vero, quello che è importante, o interessante – con una tendenza generale che – attraverso Internet, ma non solo – va verso invece un’offerta e una domanda crescente che mescola un po’ di tutto, e con grande successo? Questo l’ho letto in un’intervista a Daniel Victor, il social media editor di ProPublica, sui criteri con cui diffondere i contenuti giornalistici sui social network:

“Ci vuole uguale attenzione alla distribuzione e agli aspetti giornalistici di questo lavoro. La grande tentazione è di concentrarsi più sulla distribuzione che sul giornalismo”.

La prima strada che ha rivoluzionato le possibilità di fare giornali online è l’aggregazione. Che non è una cosa nuova: come sapete poco di quello che viene pubblicato sui giornali tradizionali è un contenuto originale che esce dalle loro redazioni. Gran parte è materiale d’agenzia, comunicati stampa, anticipazioni di altri testi, articoli della stampa straniera ripresi e tradotti, eccetera. Aggregazione, ma non detta. Ma l’accessibilità dei contenuti online – basta un link, e un click – ha permesso di trasformare quello che i giornali finora si vergognavano ad ammettere (usare buoni contenuti altrui) in un modo efficace di fare dell’informazione di qualche completezza a costi contenuti. Oltre che una scelta virtuosa, basata sull’idea che nel mondo si produca più giornalismo di buona qualità di quello che può essere replicato e ricostruito in una singola redazione, e che il lavoro di selezione – il “ruolo del deejay” – sia essenziale e utilissimo.

Un grande interprete dell’aggregazione come impostazione esplicita è lo Huffington Post, il caso di scuola più noto e popolare: la sua “modernità” però è più estesa, sta nell’aver saputo cavalcare ogni spunto e ogni suggerimento che arrivava dalla rete: che fosse l’opportunità dell’aggregazione di contenuti altrui, che fosse la demagogia informativa che offre gallery di gattini e notizie strano-ma-vero a un pubblico di lettori che li chiedono, che fosse l’arruolamento gratuito di grandi numeri di collaboratori in forma di blogger, che fosse il lavoro industriale sul SEO, che fosse l’investimento sui social network. Lo Huffington Post ha trovato in questo una sua indistinta, onnivora, caotica, cifra: ma lo ha fatto a scapito di ogni idea di gerarchia delle notizie. Alla domanda su “cosa sia più importante per i lettori”, lo Huffington Post risponde “tutto”.

I siti dei grandi quotidiani italiani si sono messi in questo solco, senza possedere il know-how dello Huffington Post e dimenticandosi del ruolo che si attribuiscono: e oggi nelle loro scelte prevalgono il sensazionalismo, la demagogia, e un disordine di contenuti che fa perdere loro identità. Sono diventati aggregatori fingendo di non esserlo, saccheggiando a destra e a manca le cose che gli fanno fare i numeri maggiori, e rincorrendo dei lettori di Internet ritenuti più ignoranti di quelli della carta, interessati alle sciocchezze divertenti o allarmanti e all’effetto facile. Non c’è niente di male, se lavori su un prodotto del genere con intelligenza, ma l’ibrido tra la pretesa di essere un giornale che racconta la realtà e l’inclinazione al contenitore-minestrone squalifica e diminuisce di valore quello che i grandi giornali potrebbero avere in più da offrire: qualità giornalistica. I video scemi da YouTube o dalla TV della sera prima, si trovano ovunque, non c’è bisogno di testate registrate nello scorso millennio.

Chi fa questa cosa – il calderone informativo – con intelligenza e senza ipocrisia sono alcuni siti americani. Il caso più interessante è quello di Gawker, un sito di news fondato da un grande esperto della rete con molto pelo sullo stomaco: si chiama Nick Denton. Nick Denton spiega che la linea editoriale di Gawker è: “se stasera vado a una festa, di cosa vorrà parlare la gente?”. E dentro ci mette quindi di tutto, dal gossip televisivo, alla cronaca di strano-ma-vero, alla politica “seria”. Tutto raccontato con linguaggi molto spicci, efficaci, da conversazione ammiccante, e titolazioni magnetiche al limite dell’ingannevole. Di recente, a Gawker, è stato organizzato questo funzionamento: ogni settimana ogni giornalista ha un giorno di traffic-whoring, in cui fa, traduco, la “puttana del traffico”, ed è destinato a produrre qualsiasi articolo per attrarre grandi quantità di lettori, sollevandone i suoi colleghi che possono dedicarsi ad articoli più “scelti” a rischio di minor traffico. Gawker è un grande laboratorio di studio su come conciliare un’intenzione di informazione con le necessità quantitative che permettono di sostenere economicamente un sito e quell’intenzione.

In questo, i giornali italiani sono molto più dilettanteschi e arretrati: i loro meccanismi principali di sviluppo del traffico online sono due, il boxino morboso e le gallery. Il boxino morboso, termine che ormai molti conoscono, è quello spazio sempre più sconfinante in cui vengono messi gossip, soft-porno, video con stranezze, papere calcistiche, e notizie strano-ma-vero in generale. Ma lo stesso termine definisce un approccio che ormai dilaga su tutte le notizie, per cui il video di Formigoni che cerca di rispondere a un’intervista prendendo lui in mano un microfono diventa “L’ira di Formigoni, strappa il microfono alla giornalista” e occupa più spazio che non un’inchiesta sulle accuse contro Formigoni.

L’altro strumento di incremento traffico abusato è quello delle gallery, per cui ogni tema, ogni storia, viene “gallerizzato” – anche quelli meno fotograficamente rappresentabili – in modo da moltiplicare le pagine viste. Ci sarebbe da parlare un giorno solo di questo.

Come ho detto, su alcuni siti americani la ricerca è molto più avanzata e scientifica, su questo fronte: ma non sono i corrispondenti siti dei giornali internazionali a condurla. Voi avete mai visto il boxino morboso o l’abuso delle gallery sul Guardian, sul New York Times o su Le Monde? No, per qualche ragione quei giornali ritengono che il loro ruolo e la loro offerta siano diversi, pur nella crisi di profitti che riguarda anche loro. Ritengono di essere dei giornali, non dei prodotti informativi ibridi e senza responsabilità come Gawker, o come Buzzfeed, un altro intelligente progetto di sfruttamento della domanda e della viralità di particolari notizie contagiose e appiccicose e spesso stupide.

Il direttore di Gawker spiegò più di un anno fa una cosa che notammo anche al Post, e ve la racconto attraverso l’esempio del Post. Oggi le visite sul Post sono ripartite, con oscillazioni, in modo abbastanza semplice: un terzo di traffico diretto, un terzo da Google, un terzo dai social network (ovvero Facebook e Twitter, di fatto, e con Twitter che si avvicina molto a Facebook: ma in questo siamo un caso particolare di sfruttamento intensivo di Twitter, per gli altri le proporzioni sono diverse in favore di Facebook). Questo cosa significa? Due cose. Che la maggior parte del traffico sul Post è dato da persone che non sono andate a guardare il Post ma sono state raggiunte dai suoi contenuti. E che gli spazi di potenziale maggiore crescita sono a loro volta questi: il potenziale di penetrazione sui social network e sull’utenza di Google è straordinariamente più grande e accessibile che non la velocità con cui si attraggono nuovi lettori abituali, che pure si guadagnano.

Il caso del Post, tra l’altro, è anche meno simbolico di altri, su questo: come ha spiegato di recente Luca De Biase sul suo blog, normalmente i siti di informazione ricevono solo il 25% di traffico diretto, sul totale. La conseguenza di questo, è che quello su cui ha senso intensificare di più i propri sforzi è il rimanente 75% cioè la capacità di attrarre nuovi lettori con la capacità propulsiva e contagiosa di ogni proprio singolo contenuto, piuttosto che sul capitale di attrattiva del contenitore.

Questa è una rivoluzione vera, ancora poco percepita, che mette in crisi un principio del marketing vecchio di decenni e rinnovato con forza su Internet: l’importanza dell’identità, del brand, della community, della costruzione di uno zoccolo di utenti fedele e garantito. Quelli lì sono una minoranza: importante, ma che cresce lentamente. La maggioranza sono gli utenti che raggiungi con la forza dei singoli contenuti, e ai quali del Post – o degli altri siti – non gliene frega niente. E in questo, spiegava Nick Denton, la forza del contenitore è addirittura controproducente: perché i contenuti siano virali, permeabili, il contenitore deve farsi trasparente fino quasi a sparire.

Uno degli aspetti di questa trasformazione, per fare un esempio, è l’ulteriore perdita di importanza, ai fini del traffico, dei commenti dei lettori. Indipendentemente dalla loro qualità, su cui ci sono state grosse revisioni delle iniziali sopravvalutazioni, i commenti sono sempre stati ritenuti da chi fa i siti un ottimo modo di creare “community”, lettori affezionati. Oggi stanno diventando ostacoli alla penetrazione dei contenuti, perché sono tra i fattori che creano maggior senso di estraneità nei nuovi lettori. E la cosa su cui sta lavorando di più lo stesso Denton è proprio una radicale reinvenzione del rapporto con i commenti, in modo che diventino un contenuto indipendente e accessorio e non parte dell’articolo.

Tutto questo è molto affascinante e attraente ancora di più proprio perché in controtendenza rispetto a quello che per esempio noi vogliamo sia il Post, che sull’identità del contenitore e la riconoscibilità di un progetto e intenzione complessiva ha investito da subito, usando moltissimo il termine “complicità” rispetto ai suoi lettori e collaboratori potenziali. È affascinante e attraente perché ci dice che il mondo sta andando da un’altra parte e ci costringe a trovare delle soluzioni che mettano insieme la direzione reale del mondo con quella che vorremmo dargli noi. Che se ci pensate, può essere un’altra definizione del ruolo di chi fa i giornali: trovare delle soluzioni che mettano insieme la direzione reale del mondo con quella che vorremmo dargli noi.

Torniamo all’aspetto “commerciale” della funzione dei mezzi di informazione: ovvero, in sostanza, come si trasformano queste pagine viste in soldi che possano mantenere il lavoro delle redazioni e dei giornalisti e farlo crescere e permettere nuovi investimenti, nuova ricerca e nuove invenzioni. È una parentesi che aggiungo brevemente per due ragioni: la prima è che penso che chiunque è interessato a produrre giornalismo e informazione d’ora in poi non possa sperare che non lo riguardi. Tra tutte le separazioni di ruoli e di funzioni che stanno saltando questa è una delle più importanti.

A proposito di separazioni, mi accorgo spesso che il modo con cui siamo abituati a lavorare al Post e in molti altri siti e blog di news suona ancora molto estraneo ai colleghi con esperienze più antiche o ai ragazzi formati dentro redazioni tradizionali. Al Post, ne parlavamo stamattina, tutti fanno tutto. Sia nel senso che ognuno è competente a coprire praticamente qualunque argomento, per ragioni di necessità e risorse e impossibilità di mantenere competenze esclusive. Sia nel senso che ognuno è completamente indipendente nella costruzione e realizzazione di un pezzo, dall’inizio alla fine. Tutti possono potenzialmente – poi le cose spesso sono più confuse – trovare una storia, studiarla, scriverne, cercare le foto, tagliarle, titolare, mettere le tag e gli altri elementi accessori, pubblicare, diffondere sui social network.

A noi pare ovvio, ma per le redazioni tradizionali che si vogliono riconvertire è una rivoluzione di cui neanche ci rendiamo conto. Se poi aggiungete cosa implica in termini di orari, disponibilità, coinvolgimento, responsabilizzazione, essere online dalle 15 alle 24 ore al giorno, come fanno i siti di news, capite che la stessa questione anagrafica è rilevantissima. Per ora i giovani fanno questa vita qui e i meno giovani quella di prima, ma quando quella di prima non sarà più possibile – presto – ci saranno sconvolgimenti sociali interessanti di capire, in questa professione.

L’altra ragione per cui il tema della resa pubblicitaria del lavoro giornalistico è importante da citare in un luogo dove si discute di come cambieranno le cose è quello della latitanza totale del mondo della pubblicità dal lavoro di innovazione che tutta l’informazione del mondo sta cercando di fare. Se ci pensate, in tutto il mondo migliaia di teste come le nostre si lambiccano da alcuni anni nel capire possibili direzioni su cui indirizzare l’informazione, nell’inventarsi nuovi modi di fare i giornali, altre visioni, altri progetti: e nel frattempo, una parte cospicua del contenuto dei giornali – la pubblicità – non ha fatto il minimo sforzo per creare formati alternativi e nuovi dedicati alla rete e alle nuove tecnologie.

Oggi il mezzo rivoluzionario ospita pubblicità ereditate tal quali dai due modelli preesistenti sulla carta e in TV: i banner alternati al testo e i video che interrompono i contenuti. E con efficacia tutta da dimostrare, quando non addirittura molto dubbia. Non è il nostro lavoro, non lo era, ma forse chi progetta nuovi giornali dovrebbe chiedere a inserzionisti, creativi, concessionarie maggiore collaborazione e inventiva anche su questo.

Questi sono solo alcuni dei terreni su cui si gioca il cambiamento del giornalismo. E il modo di affrontare questa partita, secondo noi, è giocarla senza né abbandonare il campo e darsi all’ippica né subire le regole del gioco: trovando un proprio modulo. Mi sposto su una metafora sportiva perché vi voglio raccontare una cosa, e invito la redazione del Post a lasciare la sala perché so che non ne possono più di questa storia. Non solo perché ha a che fare con il baseball.

Qualche mese fa, come immagino e spero molti di voi, ho visto questo film che si chiama Moneyball. È un bel film americano che parla di baseball ma neanche tanto: racconta molte cose, e alcune molto interessanti per noi, e di rivoluzioni. La storia è questa, e ora invito ad allontanarsi anche tutti quelli con l’ansia da spoiler, visto che intendo riassumerlo dall’inizio alla fine. E l’altra cosa di cui vi devo avvertire è che nell’allegoria che sto costruendo, io – e i miei colleghi in cerca di progetti nuovi – sono interpretato da Brad Pitt e questo potrebbe renderla meno credibile, comprensibilmente. Ma fate uno sforzo di immaginazione.

C’è una squadra di baseball di Oakland, gli Athletics, che gioca nel massimo campionato e ha appena disputato un’ottima stagione, ma alla fine ha perso ai playoff perché ci sono sempre squadre più grandi e più ricche con cui non può competere. Il manager della squadra, che ha una storia di giovane promessa fallita da giocatore, e che sa che nel baseball viene ricordato solo chi vince, va desolato dal proprietario della squadra e gli chiede più soldi e giocatori più forti. È stufo di non poter mai competere davvero e che tutti buoni giocatori che alleva giovani e fa diventare campioni poi glieli comprino le squadre ricche. Il proprietario non glieli dà.

Lui allora si dispone a un’altra stagione messa insieme faticosamente cercando di cavarne qualcosa quando incontra un giovane economista uscito da Harvard, molto geek e un po’ goffo come immaginiamo questi personaggi, che gli spiega che il segreto delle buone scelte nel baseball è nello studio scientifico dei numeri e delle statistiche, che possono suggerire la forza in giocatori che tutti gli altri trascurano: perché lo sport è dominato da vecchi modelli che basano tutte le scelte su criteri antichi e mai ripensati, per la forza dell’abitudine e della tradizione. Con la sventatezza della disperazione il manager lo arruola e comincia a costruire una nuova squadra come gli suggerisce il ragazzo, litigando con tutti i talent scout e con l’allenatore della squadra. Il quale gli rema contro, non fa giocare gli uomini nuovi come dovrebbero – uno è vecchio, uno ha avuto un incidente, ma tutti hanno delle doti che possono essere usate bene – e la squadra perde e perde, e tutto il campionato punta il dito contro le sventatezze della sua campagna acquisti.

Fino a che lui fa un colpo di mano, vende i giocatori più famosi e costringe l’allenatore a giocare a modo suo. E la squadra vince. E vince, e vince, e vince. Guardate che è una storia vera, del 2002, già leggendaria nel baseball americano. Vince e vince ancora e riesce, nell’eccitazione e meraviglia nazionali, a battere il record di sempre di vittorie consecutive. Arriva così ai playoff: ma qui incontra una squadra grande, ricca e fortissima, e perde. E lui, mentre tutti gli dicono bravo, hai fatto cose meravigliose è deluso e incazzato. Voleva vincere, se non vinci non esisti.

Nell’epilogo, Boston, squadra grandissima e titolata, gli offre un contratto mai visto per andare a lavorare da loro, ma lui rifiuta. Vuole vincere a Oakland, con quella squadra. E i titoli di coda ci dicono che è ancora lì che cerca di vincere, e che nel frattempo le loro intuizioni sulla scelta dei giocatori sono state assunte da tutte le grandi squadre e che Boston con quelle intuizioni è riuscita a vincerci il campionato dopo decenni. È un film che dice che si possono fare rivoluzioni e vincere, ma fino a un certo punto: poi se la tua rivoluzione non è forte abbastanza o non si allea con l’esistente, il tuo potenziale rivoluzionario viene in parte sconfitto e in parte assorbito.

Ok, adesso pensate a chi cerca di costruire nuovi progetti di informazione online in un mondo che cambia, e ve la racconto di nuovo. C’è un contesto generale vecchio e governato da meccanismi antichi e pigri e da protagonisti che non hanno nessuna intenzione di rivederli, ma che hanno risorse e soldi per vincere. Arriva una squadra nuova che non ha le risorse ma intuisce con studi scientifici e competenze moderne che si può essere competitivi a costi minori, grazie alla rete, grazie alla disponibilità dei contenuti, grazie all’aggregazione, grazie al know-how su tutto questo. E gioca il campionato, e nel suo piccolo vince: nel senso che esiste, occupa uno spazio, guadagna numeri, viene riconosciuta e compete con altre squadre titolate. E questo è il punto del film a cui siamo arrivati.

La cosa che in molti in tutto il mondo stiamo cercando di capire è se la rivoluzione è forte abbastanza da farcela fino alla fine e vincere – la sopravvivenza di cui parla Nicola Bruno, e continuare a giocare nel campionato con i grandi – oppure no. Una cosa vi posso dire: è la prima volta da tanto che fare i giornalisti significa una cosa completamente diversa dal replicare i modi in cui lo facevano quelli prima di noi, la prima volta in cui c’è tanto spazio per inventarsi delle cose. Chissà quante falliranno, forse persino tutte, e magari il nuovo giornalismo di successo non esisterà: ma come si sa, la parte bella della caccia al tesoro è la caccia, non il tesoro.

Perugia, 28 aprile 2012LUCA SOFRI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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