In trenta anni, ad una singola persona accadono molti accidenti, cose belle e brutte, a volte traumatiche e travolgenti, a volte attese e a volte inattese, tuttavia la sua faccia e i suoi modi, il suo sentire, il suo habitus, non mutano a tal punto da renderla irriconoscibile. Accade solo per un incidente gravissimo, grande menomazione o morte. E allora? La durata di trenta anni può bastare a cambiare il dentro e il fuori della parte di mondo che chiamiamo umanità e quindi non più singole persone ma addirittura moltitudini che vivono in condizioni di spazio e di tempo così disomogenee tra loro? Così ingiustamente distribuite?
Il contenuto di una domanda dipende sempre dall’identità di chi si interroga, dal “noi” che pretende di rispondere.
Dal “noi” che si immagina di vincere su chiunque altro “noi”. In un certo senso la domanda su Internet – che è frutto specifico dello sviluppo dell’identità occidentale – è Internet stessa a porla e imporla. Il suo è il nostro medesimo “noi”. La sua è dunque una domanda, e una risposta, diversa da quella degli altri “noi” che solo ora iniziano ad accedere alle sue piattaforme o ne sono ancora escluse.
Il nostro è il “noi” del soggetto occidentale invasore e riordinatore.
Per rispondere alla domanda su come e in che tempi Internet abbia segnato un avvento – sapendo o non sapendo, accettando o non accettando di parlare a suo nome – si deve avere in mente cosa significhi un cambiamento grande, di quelli che si salutano come epocali, sconvolti e sconvolgenti, forse ancora prima di esserlo.
Per rispondere a questa domanda, per assumersi la responsabilità di farlo, ci si deve interrogare su quale sia il processo che la distingue nella pluralità di noi stessi e delle cose che possediamo e ci posseggono.
C’è da chiedersi a cosa alluda, a cosa si riferisca: se si tratti di una semplice curvatura e contorsione, ritorsione, del mondo lungo una linea sempre più o meno uguale a se stessa. Sempre conseguente. Avanzata rispetto a sé medesima.
Oppure – quando si percepisca che la sua direzione s’incurva troppo, si spezza, si arresta, si ferma sul vuoto e, rovesciandosi di senso, sembra muoversi verso una meta opposta e sconosciuta – chiedersi se invece non si tratti finalmente di una vera e propria rifondazione. E allora, riconoscendola o credendola tale, cioè una rifondazione, si arriva a potere dire “non più”: il mondo non è più come prima, non siamo più come prima.
Ma si può davvero pronunciare questo “non più” o si è subitamente spinti a confessare “non ancora”? Il dilemma è storico, ha una sua tradizione tardo-moderna: fu posto dalla cultura umanista più autorevole, testimone di fronte alla illimitata violenza dei processi di modernizzazione novecenteschi, quando la formula del “non più e non ancora” circolò per l’Europa a contrassegnare una fase della civilizzazione umana tragicamente sospesa ai bordi di un presente indeciso e sempre più indecidibile. Un presente prodotto dall’Olocausto e dalla Bomba. Un presente diviso tra la certezza che il passato fosse o comunque dovesse essere per sempre estinto e tuttavia la paura che il futuro non si fosse ancora realizzato. Non si fosse ancora fatto presente.
E ancora oggi il mondo moderno vive nell’incertezza e nel sospetto del “non ancora”: per il momento molto se non tutto è, continua ad essere, come prima.
Per dire e valutare il nostro tempo, si tratta di decidere di quali indicatori servirsi. Se imboccare la strada consueta delle opposizioni frontali, delle mediazioni dialettiche, oppure uscirne di netto, tentare un pensiero che ne resti al di fuori. È proprio a questo punto che, cercando una qualche rappresentazione in grado di aiutarmi a esprimere questa via d’uscita, mi sono imbattuto in una traccia del tutto particolare: l’aggettivo chirale la cui etimologia risale alla parola greca χείρ ovvero mano. Con il verbo smanettare intendiamo dire l’uso del computer: un “che fare” – l’istanza della politica come arte dell’abitare – in grado di mettere mano alle cose del mondo diversamente dalla loro ordinaria manutenzione. Ma su questo si può arrivare a parlare solo dopo avere enunciato alcune premesse.
Il nastro di Moebius: ordinaria manutenzione del mondo
Intendo per ordinaria manutenzione l’insieme di processi tra loro alternativi e tuttavia destinati a conservare – continuare a dare tempo e spazio – ad uno stesso contenuto dominante per quanto proteiforme: il loro appartenere ad una stessa volontà di potenza e violenza dell’essere umano.
Per manutenzione intendo quindi l’incessante lavoro compiuto dalle istituzioni del pensiero e dalle loro pratiche sociali
Manutenzione per garantire la lunga durata della tradizione occidentale – dei suoi valori fondativi – attraverso un uso strategico, mirato, dei suoi stessi conflitti di parte, delle sue piccole e grandi crisi epocali, dei suoi mutamenti di regime: un uso affermativo (di sopravvivenza e sviluppo) della civilizzazione umana grazie alla dialettica e implacabile sintesi tra teorie affermative (visioni e movimenti positivi) e teorie negative della società. Affermazione e negazione – tra divergenti religioni, diverse politiche della sovranità, del lavoro umano, del capitalismo e della tecnologia – si coagulano in una stessa sostanza, qualità.
La formula del “non più e non ancora” fa da specchio a tutti i sistemi sociali impegnati a promettere la felicità umana in nome di una speranza in realtà infondata. Di una promessa, di un “principio”, inattuabile: è questa per eccellenza la verità di fatto mai smentita nella storia per quanto dalla storia sempre di nuovo alimentata, data per sua vera ispirazione.
A questa “falsa coscienza” si uniformano tutte le parti in conflitto.
La “falsa coscienza” mina alle sue basi qualsiasi modello di esistenza umana che si offra come soluzione della violenza dovuta al suo stato di necessità e di sopravvivenza. Condizione di vita, questa, in cui ogni ordinario bisogno materiale soccombe all’eccedenza del desiderio.
Eccedenza fuorimisura, siderale, che la politica moderna ha “scaricato” sul capitalismo (è questo il tema variamente ricorrente nella contrapposizione tra beni necessari e beni superflui; tra bisogni autentici e bisogni indotti, nonché tra diversificazione delle mode e omologazione delle persone).
Per affrontare il dilemma tra il “non più” e il “non ancora” che attanaglia e blocca l’identità del soggetto moderno, può essere utile accogliere il significato di una costruzione paradossale come il nastro di Moebius. È un nastro con un solo bordo, una sola faccia, in cui il suo dritto porta sempre al suo apparente rovescio e questo nuovamente al suo apparente dritto. Un loop infinito. Non a caso una figura cara all’arte (poiché il suo “vero” “bello” non è nel promettere qualcosa ma nel dire la sua “impossibilità”).
Si può dunque prendere le distanze dal “principio speranza” e dalla “falsa coscienza” a cui ci ha educato la tradizione umanista delle religioni e delle nazioni, nate proprio da quella eccedenza di desiderio che ha preso il nome di capitalismo e di Occidente. Si può finalmente confessare a noi stessi che – ad ogni rifondazione della civiltà umana – qualsiasi sostanziale salto di qualità, qualsiasi terra promessa, non arriva e mai arriverà a compiersi.
Ogni rifondazione, implicando l’intenzione di costringere il mondo a negare la propria e nostra natura, a non vedere e non accettare il suo loop infinito, è un atto di violenza su di sé e sull’altro da sé, un atto che ne rivela la stessa natura, la natura che ha in comune.Ogni rifondazione ha sempre comportato delitti di sangue, sofferenza e morte: l’umanità nascente di Caino e Abele, il monoteismo di Mosé, la Roma imperiale di Romolo e Remo, il dio ebraico e cristiano, la ragione dell’illuminismo, la furia identitaria del romanticismo, il soggetto delle rivoluzioni moderne, la pura razza di Hitler, la pace di Hiroshima.Il desiderio di rifondare il mondo al di là del mondo così come è ha in sé la stessa violenza da cui pretende di liberarsi. Tutto questo sta a dire quanto domandarsi sul significato di Internet imponga di non limitarsi semplicemente a ragionare delle ultime novità dei media della comunicazione ma comporti l’atto di sentirsi responsabili della condizione umana in quanto tale.
L’operetta – e tutti i generi di intrattenimento che ne sono derivati – ha ascendenti nobili e insieme triviali. Nell’immaginario il suo spirito da “belle époque” ha segnato con toni insieme di allegria e nostalgia, ogni punto di collasso del progresso (il naufragio del Titanic non ne ha potuto fare a meno).
E dunque Internet è comunque davvero un bel salto di qualità: se il termine rivoluzione non avesse troppo odore di modernità e di ideologie del progresso, e il termine bellezza non avesse profumo di troppa santità estetizzante, si potrebbe dire che Internet è stata comunque o meglio ancora promette di essere una bella rivoluzione.
Nel lessico più sofisticato della filosofia novecentesca, questo salto traumatico da un regime di senso ad un altro, lo si dice – con risonanze economico-politiche che, dalle attuali grandi transazioni del post-capitalismo finanziario risalgono sino alle originarie civiltà del baratto – permutazione dei valori.
Oppure, con maggiori ambizioni scientifiche, mutamento di paradigma.