Estate 2008, una giornata di sole, nel campus della Stanford University Luca Cavalli Sforza spuntò da una curva in salita, bicicletta alla mano. L’aspettavo davanti a quella che era da oltre trent’anni la sua casa e che nel giro di pochi giorni avrebbe lasciato per sempre, per tornare in Italia, a Milano, ancor oggi docente dell’Università Vita-Salute San Raffaele.
Su una parete, le bellissime illustrazioni originali di “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” disegnate dallo stesso autore Dino Buzzati fratello di Adriano Traverso Buzzati scienziato che di Cavalli Sforza fu maestro e suocero.
C’era una leggera tensione nell’aria, per la vigilia di questa svolta. Ci sedemmo in giardino, io con registratore e videocamera. Per me era un incontro importante, non sapevo che quell’intervista sarebbe stata così preziosa da segnare il progetto che poi ha cambiato la mia vita.
Con lucidità sbalorditiva, il professore ripercorse tutte le tappe della sua straordinaria carriera di genetista di fama mondiale.
Poi rispondendo ad alcune domande, individuò con precisione alcuni dei malanni che affliggono l’Italia: la propensione a premiare amici e chi la pensa come noi piuttosto che i migliori, la diffidenza reciproca.
“Purtroppo non sappiamo fare quello in cui gli inglesi sono così bravi che è il gioco di squadra. Non sapiamo collaborare, non siamo abituati a fidarci degli altri. Gli inglesi hanno inventato quasi tutti gli sport popolari che sono giochi di squadra e gli americani li hanno moltiplicati. I nostri giochi piuttosto sono… il Palio di Siena…”.
Fu come un flash. Pochi giorni prima, durante un altro eccezionale incontro, Federico Faggin, padre del microchip, inventore del touchpad, il numero uno fra i tanti prestigiosi italiani di Silicon Valley, aveva individuato proprio in questa diffidenza reciproca, che fa considerare il successo altrui un pericolo e non un’opportunità, e nella conflittualità eccessiva, dei meccanismi culturali cui siamo assuefatti, veri macigni che gravano sullo sviluppo dell’Italia.
E a chi non è successo di imbattersi in persone che si realizzano nel far fallire i progetti altrui?
Peggio ancora, “Son contento di perdere purchè tu perda”… E’ così che mi è venuto in mente di chiamare ironicamente “Sindrome del Palio di Siena” questo che è uno dei malanni di cui soffriamo quasi senza saperlo, tanto è diffuso come malcostume.
Il Palio è quintessenza dello spirito di contrada, gara segnata dalla rivalità ma pure dal caso. Partecipanti e cavalli sono decisi dal sorteggio, chi non è in gara o non ha i numeri per vincere, partecipa attivamente cercando di far perdere i rivali. E se ci riesce festeggia.
Quando Siena è finita alla ribalta per l’inchiesta sul Monte dei Paschi, quella città bellissima, orgogliosa di una tradizione straordinaria è diventata paradossalmente metafora del difficile rapporto dell’Italia con il rinnovamento.
Sul Corriere della Sera, Dario Di Vico ha invitato a riflettere proprio sul modo di pensare che fa da sfondo alla vicenda finanziaria e giudiziaria.
“… Una sorta di rapporto museale con il territorio, un’osservanza quasi religiosa delle tradizioni che alla fine ha portato alle disgrazie di oggi….Il Monte dei Paschi, infatti, paga il mito della sua unicità, non aver voluto partecipare al processo di aggregazione delle banche italiane… Per il catenaccio imposto dalla politica locale e dalla Fondazione il Monte diventa, senza volerlo, una banca regionale mentre i concorrenti mettono su taglia e muscoli… quando Luigi Spaventa arriva a Siena per tentare di venire a capo dell’anomalia locale, e comincia ad assumere dirigenti dall’esterno, la comunità organizza le barricate. Una società chiusa decide di difendersi e riesce a farlo con un successo”.
Certo, quelle tradizioni diventate quasi una religione non sono da poco. E anche chi le ha vissute venendo da fuori ha imparato ad apprezzarle.“Le cose che ho visto nella promozione del territorio e nella sua difesa, ogni borgo un museo per valorizzare le eccellenze.. il senso del futuro, nel discutere spesso di quel che si fa ‘per i citti’, i bambini, ma anche una zona a traffco limitato che risale al 1967… nel tutelare e conservare il territorio c’era un’idea del futuro, una lungimiranza, che mi sono sembrate di una città aperta, per comunicare al mondo bellezza ed eccellenze”, dice Daniele La Monaca, fotografo internazionale, nato a Milano, che ha vissuto per un lungo periodo a Siena.
Su quella tradizione, si è però consolidato un sistema chiuso, che è riuscito a distribuire ricchezza sul territorio e che andava bene a tutti. Col paradosso però di trovare risorse anche per progetti di respiro internazionale… senza farne però tesoro a casa propria, fa capire Antonio Rizzo docente di Interaction Design e Cognitive Science and Technology (e omonimo del superteste nell’inchiesta MPS).
“Sono venuto a Siena da San Diego con la nascita della Facoltà di Scienza della Comunicazione nel 1993, abbiamo lanciato con Olivetti un laboratorio multimediale d’avanguardia. Presto però l’abbiamo ribattezzato “Multimedievale”: eravamo visti con sospetto, per il successo come numero di studenti, malgrado il numero chiuso… siamo stati fra i primi a lanciare insegnamenti sull’interazione uomo macchina ma erano molti di più i contatti che avevamo con l’estero di quelli che avevamo in città”.
Quando quella senese divenne una delle tre Università europee coinvolte nell’Apple Design Project, ambizioso progetto di interazione e creazione fra il colosso dell’informatica e il mondo accademico, grande prestigio internazionale ed ottime opportunità per gli studenti, ricorda ancora Rizzo, in città l’esperienza venne ignorata, così come la sua prosecuzione, “Siena Design Project”, che coinvolse designer di fama internazionale, pure realizzata con fondi del Monte dei Paschi.
E non andò meglio, dice ancora Rizzo, quando l’Università propose servizi d’avanguardia per i cittadini che avrebbero valorizzato l’innovativa rete di cablatura della Provincia. “L’atteggiamento di fondo era sempre quello di snobbare innovazioni ispirate da esperienze provenienti dall’estero, in base al principio che ‘abbiamo sempre fatto bene’”, dice ancora il docente.
In una città così orgogliosa della propria storia, uno straordinario senso civico, che già nel Medioevo aveva una sorta di piano urbanistico, vietava in città i balconi, che all’epoca venivano usati come latrine e si prendeva cura degli orfani, molti chiamavano “Babbo Monte” quella potente e generosa istituzione bancaria.
“Per 50 anni è stata un’isola felice, fino all’avvento dell’economia globalizzata… ma la grossa contraddizione è il fatto che la banca abbia catalizzato energie e competenze, assorbendo molti dei migliori al servizio di una consolidato servizio bancario, mentre in una città pure aperta, agli stranieri ad esempio, è stato sempre più difficile far passare qualcosa di veramente innovativo e di respiro internazionale…”, dice Domizio Baldini, insegnante senese da poco in pensione, formatore di docenti sulle nuove tecnologie e coordinatore italiano ed europeo di Apple Distinguish Educator, comunità mondiale di educatori innovativi…
No, non è la conflittualità della Sindrome del Palio, che trasforma l’orgoglio della tradizione in resistenza al cambiamento. Piuttosto quella che un altro italiano di Silicon Valley, Francesco Lemmi, ingegnere a Innovalight aveva più o meno definito “Sindrome della Pastasciutta”. Perchè molti innovatori, in patria e all’estero, sono consapevoli che la nostra straordinaria tradizione di cultura e civiltà, il vero punto di forza della loro versatilità, per molti altri connazionali è invece un freno.
Come se avere un patrimonio culturale così prezioso rendesse superfluo conoscere e misurarsi con il resto del mondo, come se la bontà della pastasciutta fosse un motivo per non volere nemmeno conoscere altre tradizioni gastronomiche.Strano, anche un altro italiano di Silicon Valley era ricorso… al piatto nazionale, come simbolo di una mentalità arretrata.“Qui in America troverai anche figli di emigrati italiani che non hanno più contatti con la madrepatria, non parlano la lingua e magari ti offrono come ‘specialità che faceva la loro nonna’ un piatto di pasta che a te pare immangiabile… ed è così. Quando la tradizione non si aggiorna, diventa rancida”, aveva osservato Mario Fusco, veterano dell’ingegneria, già alla Lockheed, oggi Executive Director all’Istituto Educazione Italiana nella Bay Area di San Francisco.
“E’ un rebus immaginare come reagirà ora la città… Intanto, prepariamoci a vincere il Palio…”, dice qualcuno a Siena.Già essere consapevoli che “Sindrome del Palio” e Sindrome della Pastasciutta” sono cattive abitudini di cui liberarsi è un passo importante, per guardare avanti. E certo non solo a Siena…