Ho assistito, da spettatore, al “Twitter time” tra il Presidente del Consiglio uscente Mario Monti e alcuni utenti di Twitter (#MontiLive). Non so molto di politica: il mio punto di vista è quello di una persona che si interessa di collaborazione online tra cittadini e istituzioni. Guardato con questa angolazione, ciò che è successo al Twitter Time è inquietante.
Molti commentatori hanno concentrato la loro attenzione sull’uso del mezzo da parte del senatore Monti (per esempio sulla sua velocità nel rispondere). Alcuni hanno notato che il formato 140 caratteri di Twitter non è molto adatto a rispondere a domande di argomento complesso. Pochi si sono spinti fino alla riflessione che Monti avrebbe potuto essere più efficace se avesse preparato prima una serie di FAQ e avesse usato Twitter semplicemente per condividere dei links alle FAQs stesse.
La vera notizia, però, a mio parere sta nell’altro lato del Twitter time, e cioè nei cittadini.
I cittadini, spiace dirlo, non hanno fatto bella figura. Accanto a domande ragionevoli c’erano commenti frivoli (“ce lo fa un sorriso?”); insulti (“ma vai a …. vecchio idiota”); accuse ovviamente non documentate (“ti candidi per arricchirti alle nostre spalle”); e lodi esagerate (“grazie per averci salvato”).
Guardavo il diluvio di tweets irrilevanti, scortesi o volgari con un forte senso di disagio. L’Italia è un paese con seri problemi strutturali, che si prepara (come minimo) a una lunga recessione. Il futuro immediato ci riserverà sacrifici, e perfino sofferenza. Mario Monti, in virtù delle sue competenze e della sua esperienza di commissario europeo e presidente del consiglio, ha un punto di osservazione privilegiato, da cui vede delle cose che noi non vediamo e che, invece, abbiamo assolutamente bisogno di capire – se non altro per sentirci meno sballottati dagli eventi.
Se potessi andare a cena con lui, gli farei almeno un centinaio di domande; molte sarebbero domande scomode, o anche cattive, ma non mi permetterei mai di insultarlo (perdendo, tra l’altro, oltre al suo tempo anche il mio). Come minimo, è stata un’occasione sprecata.
Cosa penserei se fossi al posto di Monti? Se fossi un uomo di un’altra generazione, indubbiamente intelligente, ma probabilmente non abituato ai social media: sa cosa sono Twitter e Facebook (probabilmente ne ha letto sull’Economist), ma non ne ha esperienza diretta. Se il mio staff mi convincesse a fare questa esperienza, e poi mi trovassi inondato di odio e spazzatura, come reagirei? Credo che penserei “È questo il popolo della rete? È questa la famosa agorà digitale? Bella roba.
Non c’è niente da imparare qui. Meglio usare questo strumento per fare comunicazione broadcast, se costa meno dei media tradizionali”.
Chi conosce Internet più che superficialmente sa che questa conclusione è sbagliata. La rete ha una straordinaria tradizione di autogoverno partecipativo e di intelligenza collettiva basata sulla collaborazione di larga scala. Certo, facilita le persone a coordinarsi tra loro sia per forme altissime di impegno civile che per condividere foto di gatti (e certo, ci sono molti più gatti che impegno civile). Il problema però rimane: come si passa da Ushahidi e Wikipedia agli insulti di #MontiLive? Come ha fatto l’agorà elettronica a trasformarsi nella curva sud?
Ci ho pensato molto, e credo che all’origine di tutto ci siano due fenomeni: la prima legge di Kranzberg e quello che chiamerò l’avvelenamento del pozzo.
La prima legge di Kranzberg dice questo: la tecnologia non è nè buona nè cattiva, ma non è mai, MAI neutrale. Scelte che sembrano solo tecniche gettano un’ombra sul futuro, perché incanalano (e quindi modificano) il modo in cui noi umani interagiamo. Immagino che #MontiLive sia nato da esigenze di comunicazione, di mostrare un Monti aperto al dialogo; ma la scelta di Twitter ha pesantemente condizionato la forma del dialogo stesso. I 140 caratteri privilegiano la battuta fulminante; la bassa soglia di accesso (non era necessaria un’iscrizione all’evento) e la visibilità dell’hashtag hanno attirato persone che non avevano vero interesse a discutere con Monti, ma erano solleticate dall’opportunità di fare passare un loro tweet su migliaia di schermi (per le stesse ragioni ha attirato anche spambot che pubblicizzano siti porno e simili). Inoltre molte app per Twitter (ma non il sito) aggiornano la timeline in automatico, per cui un tweet, anche se molto meditato, viene immediatamente spinto fuori dallo schermo da quelli successivi; non è la qualità a venire premiata, ma la velocità. Quanto a Monti, la brevità richiesta da Twitter ne ha penalizzato le risposte, abituato com’è a pesare le parole e a non parlare per slogan. Le molte persone che hanno provato a ingaggiarlo in una discussione seria sono state sommerse dai tweets spazzatura: la prima legge di Kranzberg, in quel contesto, le metteva in posizione di svantaggio.
L’avvelenamento del pozzo consiste nel fatto che, a partire dalla fine degli anni 90, Internet è stata percepita come un luogo in cui si fa essenzialmente pubblicità e commercio. Per essere vincenti occorre attirare molti utenti, e i community managers sono incoraggiati a non essere troppo severi rispetto agli standard di comportamento in rete, per non perdere preziose page views. Alla sua nascita, invece, la rete era uno spazio dedicato alla ricerca scientifica, caratterizzato da quella che chiamiamo etica hacker: conoscenza come valore supremo, libertarismo radicale, e forte attitudine alla condivisione. Fino al 1995 le attività commerciali in rete sono state proibite o fortemente limitate; con il venire meno di queste restrizioni, l’etica hacker ha dovuto imparare a convivere con la società dei consumi, anche nei suoi aspetti più deteriori. Oggi – sebbene essa sia ben viva e molto influente – gli uomini e le donne più influenti di Internet non sono hackers, ma marketeers; e noi ne paghiamo l’uso accettando di essere continuamente profilati, impacchettati in grandi database e rivenduti per essere oggetto di marketing sempre più pressante e sempre più mirato. Non è un giudizio morale, ma tecnico. Twitter, Facebook etc. non sono agorà elettroniche: sono progettati per venderci delle cose. Possiamo provare a usarli per esercitare la democrazia, ma è ragionevole aspettarsi qualche intoppo. “Qualche intoppo”, nel contesto di #Montilive, significa sprecare in un’esperienza deludente il capitale di fiducia reciproca – già scarso – che permette a governati e governanti di confrontarsi.
Che fare, dunque? Ai collaboratori dei leaders politici e di governo che vogliono interagire in rete con la cittadinanza consiglio di meditare bene la prima legge di Kranzberg, e scegliersi i mezzi di conseguenza. Un formato ben collaudato (da Robert Gibbs, responsabile dell’ufficio stampa della Casa Bianca durante la prima presidenza Obama, che lo usava già nel 2010) è raccogliere domande tramite Twitter, ma rispondere con un breve video. Questo permette di usare canali diversi per domande e risposte, introduce un piccolo scarto temporale tra esse; in questo modo toglie visibilità a insulti e volgarità (ignorate), dandola invece a domande intelligenti (a cui il presidente risponde). In genere non c’è nemmeno bisogno di esercitare una particolare censura: semplicemente, il contesto non è interessante per le teste calde. Ancora meglio sarebbe costruirsi spazi virtuali separati, in cui entrare con rispetto e spirito costruttivo, e da cui la pubblicità in tutte le sue forme resti fuori.
Ai leaders stessi consiglio di non cedere alla tentazione di etichettare Internet come un luogo dove bisogna gridare per non essere sopraffatti. Con guide esperte e onestà intellettuale, l’interazione in rete può dare ai governanti una merce preziosissima: l’accento di verità che hanno le voci dei cittadini, disintermediate dai vari meccanismi di rappresentanza.
noi cittadini non consiglio nulla. La partecipazione è un dono, e per definizione si può concedere ma non pretendere. Ma chiedo, con tutto il cuore, di non contribuire ad avvelenare il pozzo. Di non cedere alla tentazione dell’insulto, del vaffa, della battuta facile. Di prepararsi. Di mantenere la mente aperta. Sono anni che studio il problema, e sono convinto che Internet – se usata bene – possa davvero essere un’agorà per l’era digitale. I progettisti di questi momenti di incontro, certo, hanno fatto errori, e altri ne faranno; ma noi possiamo mitigarne le conseguenze con un comportamento retto e rigoroso. Sarebbe davvero un peccato sprecare questa occasione di rinnovamento delle nostre democrazie.
ALBERTO COTTICA