Il progetto dell’Europa per restare umani nell’era iperconnessa

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«Cosa significa essere umani nell’era iperconnessa?». Un’ agenda digitale pienamente compiuta è anche, se non soprattutto, l’occasione per affrontare questa domanda filosofica e insieme pratica, perché gravida di conseguenze in termini di policy-making.

Il Direttorato Generale per le Reti di Comunicazione, Contenuti e Tecnologia (DG Connect) della Commissione Europea (che fa riferimento alla vicepresidente Neelie Kroes), ci ha recentemente provato dando vita alla Onlife Initiative. Un progetto condotto da un gruppo di 13 studiosi di antropologia, scienze cognitive, computer science, neuroscienze, scienze politiche, filosofia, sociologia, psicologia. E che consiste in «un esercizio collettivo di pensiero», «una riflessione sul modo in cui un mondo iperconnesso richieda un ripensamento dei framework di riferimento su cui sono costruite le nostre politiche».

Il lavoro dei 13, coordinato dal filosofo italiano Luciano Floridi e compendiato recentemente in un vero e proprio Onlife Manifesto, inserisce la domanda sull’impatto delle tecnologie dell’informazione sull’umano all’interno di una più ampia riconcettualizzazione degli spazi pubblici, così come intesi dalla Hannah Arendt di ‘La condizione umana’: lo spazio tra noi, in cui ciascuno esperisce la libertà e il pluralismo da cui emerge la vita politica.

La questione dell’umanità nel digitale, dunque, si salda a quella – altrettanto rilevante dal punto di vista delle politiche pubbliche – di «come si faccia esperienza di quella libertà e di quel pluralismo in un’era iperconnessa», si legge nel Manifesto. E di come garantirne le «precondizioni e gli strumenti».

L’obiettivo è nobile, specie se si accompagna al tentativo di suscitare un dibattito pubblico su temi che vengono troppo spesso o ignorati o schiacciati sulle (pur necessarie, in particolare in Italia) dotazioni infrastrutturali. Il cittadino è stimolato a intervenire ed esprimersi su Twitter (#onlifeeu) o tramite l’apposita piattaforma di dibattito, Futurium. E il punto di partenza, il rigetto di quello che il sociologo Nathan Jurgenson chiama ‘dualismo digitale’, una boccata d’aria in una stanza satura di vecchi discorsi sul reale e il virtuale come sostituti, invece che complementi.

Per il Manifesto, invece, siamo in un’era in cui «l’ibridazione tra bit e altre forme di realtà è talmente profonda da cambiare radicalmente la condizione umana». Così che la diffusione delle ICT «modifica le nostre relazioni con noi stessi, gli altri e il mondo intorno a noi». Non solo: «sfuma i confini tra reale e virtuale, spostando il primato dalle entità a connessioni e informazioni».

A prendere sul serio la fine dell’ipotesi dualista, dunque, discendono conseguenze che ci costringono, sostengono i 13, a un esercizio di «concept reengineering». Ossia a ripensare il nostro intero armamentario concettuale, e capire se sia adatto o meno ad affrontare le sfide poste dalla nostra epoca e dalle tecnologie che tanta parte hanno nel definirla. Ed è qui, scavando tra le premesse fondamentali di questa ristrutturazione del pensiero, che sorge un primo dubbio.

Perché da un lato è vero, con Arendt, che la nostra è un’epoca caratterizzata da una paradossale assenza di pensiero (paradossale perché avviene nel mezzo dell’overload informativo); ed è vero, ancora, che di ciò che non viene pensato tendiamo ad avere paura. Ma da questo non è lecito dedurre, come nel Manifesto, che il ripensamento dei nostri concetti di base debba necessariamente servire a «immaginare il futuro in termini migliori».

Prima di tutto, perché potrebbe darsi – è un’ipotesi, non una premessa – che la riflessione ci costringa allo scetticismo, o al rigetto di quel mito del progresso che gli autori stessi associano alla modernità, e a una modernità radicalmente messa in questione proprio dalla diffusione delle tecnologie dell’informazione. E poi perché assume che la nostra attuale concettualizzazione del futuro sia «dominata» da «proiezioni negative» senza chiedersi la legittimità di quei dubbi. Che pure si moltiplicano anche in riflessioni articolate, non solamente in un vuoto di pensiero: per convincersene, si leggano per esempio il saggio del teorico di Occupy Wall Street, David Graeber, Of Flying Cars and the Declining Rate of Profit e l’epitaffio della coscienza – più che dell’intelligenza – artificiale steso dal futurologo Bruce Sterling in risposta alla Big Question di Edge di quest’anno: «Come ha detto una volta il Papa, ‘non avere paura’».

Insomma, un lavoro di riflessione che parte da un pregiudizio (il futuro non ci appare fulgido solo perché non lo guardiamo con gli occhi giusti) non nasce sotto la più favorevole delle stelle. Eppure ottiene diversi risultati profondamente interessanti. Smetterla col dualismo digitale, si legge nel Manifesto, consente per esempio di esplorare il livello di «continuità morale e comportamentale» che dovremmo aspettarci negli spazi pubblici virtuali e fisici (ma riaffiora il dualismo?). In concreto: mentiamo di più (su noi stessi) in rete? È norma sociale consueta nei siti di dating, ma è innocua? E ancora: «sta avendo contraccolpi sulla fiducia reciproca o, al contrario, è parte degli strumenti di acculturazione fornite dalle ICT?».

Affacinante la riflessione su scarsità e abbondanza, fondamento del valore economico ma anche base su cui sviluppare il sapere: «Il nostro senso di infinitudine è slittato dalle risorse naturali (ora riconosciute come limitate) all’informazione e alla conoscenza», si legge in un passaggio fondamentale del Manifesto, foriero quasi di implicazioni teologiche (e non a caso, forse, quello della «singolarità» appare a molti come un culto, più che una posizione scientifica). Conseguenza? Dalla necessità di sapere enciclopedico («sempre meno significativo ed efficiente», come modo di organizzazione della conoscenza), siamo passati a quella di essere in grado di filtrare un sapere infinito, e dargli senso. È una rivoluzione che nessuna agenda digitale può ignorare. Ed è essenziale quando si affronti il problema del trattamento dei nostri dati personali, non più bene scarso, ma bene abbondante di cui imparare a capire come rendere apprezzabile e tutelata la forma di scarsità che desideriamo.

Più sfuggente la nozione di «responsabilità distribuita» che dovrebbe discendere, secondo il Manifesto, dal passaggio dal «primato dell’ente» a quello delle interazioni. Se è vero che la razionalità del contemporaneo (situata, inserita nelle emozioni, nel corpo – si legga in proposito il lavoro di Antonio Damasio – e dunque negli artefatti tecnologici che sempre più spesso ne diventano parte) è altro da quella del moderno (la razionalità pura, strumentale, disembodied), è difficile comprendere come ciò possa comportare che la responsabilità diventi non più caratteristica umana ma dell’uomo e della macchina insieme.

Un esempio concreto: nel caso di un drone semi-autonomo, che apre il fuoco dopo cinque secondi da una segnalazione inviata al riconoscimento automatico di una situazione di pericolo (sono realtà, sulla striscia di Gaza): si sta dicendo che la responsabilità è anche del drone? Sembrerebbe di sì, visto che più gli estensori più avanti scrivono: «Ora che gli artefatti presi globalmente sono riusciti a fuggire il controllo umano, anche se hanno avuto origine da mani umane, metafore biologiche ed evoluzionistiche possono applicarsi anche a loro». La responsabilità è di certo una di queste metafore, ma cosa significa punire un drone per aver violato le regole?

Qua e là affiorano ipotesi che tradiscono un certo ottimismo di fondo, dalle possibilità del digitale per rinnovare le forme democratiche in senso di democrazia diretta (come si apprende dall’esperimento del MoVimento 5 Stelle in Italia, è un’idea tutta da dimostrare) a quella di sciogliere (e non creare) strutture gerarchiche e concentrazioni di potere. E se l’ottimismo è lecito negli auspici, lo è meno in chi si propone di guardare al futuro in modo il più possibile obiettivo.

Resta, tuttavia, un passaggio di straordinaria, cristallina chiarezza e opportunità. Va riportato integralmente (la traduzione è mia):

Le politiche devono partire da un’investigazione critica di come le vicende umane e le strutture politiche siano profondamente mediate dalle tecnologie.

Affrontare la responsabilità in una realtà iperconnessa richiede il riconoscimento del fatto che le nostre azioni, percezioni, intenzioni, la nostra moralità, perfino la corporalità, siano intrecciati con le tecnologie in generale, e con le tecnologie dell’informazione in particolare.

Lo sviluppo di una relazione critica con le tecnologie non dovrebbe essere mirato al reperimento di un luogo trascendentale al di fuori di queste mediazioni, quanto piuttosto a una comprensione immanente di come le tecnologie ci modellino in quanto umani, mentre allo stesso tempo noi umani modelliamo in modo critico le tecnologie».

È qui il cuore del progetto, l’idea che si debba sviluppare una relazione critica, ragionata con tecnologie capaci di ridefinire la nostra stessa umanità, che sono già parte integrante delle nostre vite e dell’ambiente, anche sociale, che ci circonda. Il punto, di cui non si parla a sufficienza e che il Manifesto fa bene a sottolineare, è che abbiamo ancora la possibilità di modellare «in modo critico» le tecnologie, senza esserne necessariamente un puro e semplice strumento di realizzazione.

Ed è questo umanesimo di fondo a fare della Onlife Initiative un progetto che merita partecipazione e attenzione, sperando che alcuni dei suoi risultati concettuali possano trovare in questa classe politica un valido, e umile, interlocutore.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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