Insegnare l’innovazione non è facile. E insegnare l’innovazione “sostenibile” è ancora più difficile. Perché quando si cerca di conciliare le tre P (profitto, persone e pianeta) adottando cioè una prospettiva che – senza danneggiare la redditività aziendale – consenta di tutelare gli interessi delle generazioni future e dei paesi emergenti, il gioco si fa davvero complesso e le soluzioni più o meno tecnologiche sono ancora in gran parte da scoprire.
D’altra parte essere “sostenibili” oggi non può più essere considerata solo come una delle possibili alternative strategiche, ma è a tutti effetti un prerequisito per qualsiasi nuovo business.
Per fornire a tutti i futuri manager dell’innovazione le necessarie competenze in ambito sociale e ambientale, le più blasonate business school prevedono programmi ad hoc. Corsi che un tempo sarebbero stati destinati a chi aveva in mente una carriera nel non-profit, magari come funzionario di una ONG.
Mentre oggi sono frequentati da studenti di ogni corso di laurea (da ingegneria a medicina, da economia a design), essendo opinione comune che quella sostenibile sia l’unica vera innovazione capace di “creare” soluzioni in grado di garantire un futuro al nostro pianeta.
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Un buon esempio è il Social Enterprise Lab della Chicago Booth, che organizza anche unpremio annuale per la migliore “social” startup. Ovviamente non è necessario andare negli USA per acquisire le giuste competenze: quando si parla di innovazione sostenibile – spiega Uday Salunkhe, il direttore della WE Business School di Mumbai – l’obiettivo non è più “il mondo del design” ma il “design del mondo”, e per attuarla occorrono conoscenze e sensibilità che non sono necessariamente appannaggio delle economie più avanzate.
Anzi, forse proprio vivendo sulla propria pelle tutte le contraddizioni tra sviluppo e problemi socio-ambientali si possono avere maggiori occasioni per imparare.
Non bastano quindi le lezioni in aula o gli incubatori: chi studia deve avere la possibilità di vivere – almeno per un breve periodo – la realtà dei paesi poveri. Solo così potrà capire cosa vuol dire fare business e creare benessere a fronte di risorse sempre più scarse.
Study tour di questo tipo, in particolare in Africa, li organizzano per esempio il MIT e, in Italia, il Dipartimento di Economia dell’università Roma Tre. L’obiettivo di queste missioni è quello di offrire agli studenti dei corsi di imprenditorialità un’ottica diversa e molto, molto attuale. E questo non solo perché le popolazioni svantaggiate rappresentano comunque un mercato vastissimo, ma anche perché molte soluzioni adatte per i contesti più poveri potranno essere successivamente trasferite, con successo, nei nostri mercati.
Assecondando così un percorso inverso rispetto a quello al quale siamo stati abituati: quello che Vijay Govindarajan, professore alla Tuck School of Business, chiama “Reverse Innovation”. Un buon esempio di reverse innovation è Akash, un tablet android che era stato progettato in India per costare meno di 50 dollari e che oggi viene lanciato anche in Usa a meno di 38 dollari per ridurre il digital divide delle famiglie meno abbienti.
I casi di business sostenibile nati dal basso sono i più vari e nei settori più disparati: si va dal microcredito (ideato dal Nobel per la Pace Muhammad Yunus) ai cellulari della Nokia (quelli muniti di torcia e a prova di polvere sono un must nei villaggi indiani); dalle protesi e le operazioni di cataratta realizzate con poche decine di dollari (di livello qualitativo paragonabile a quello occidentale) alle cucine economiche della BP.
Per non parlare di tutte le soluzioni in campo agroalimentare, come lo yogurt Shoktidoi di Danone venduto a circa 6 centesimi di euro per sopperire alle specifiche carenze nutritive dei bambini e distribuito porta a porta dalle donne che vivono in Bangladesh. Ognuno di questi prodotti ha la capacità di innovare radicalmente i nostri mercati maturi, modificando le regole della competizione e i più consolidati modelli di business.