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Ilaria Capua, quando il fango è peggio di una tortura

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“Prosciolta da tutto. Perché il fatto non sussiste”. Il messaggio che mi è arrivato dalla Florida era così: piatto, piano, senza punti esclamativi o una di quelle faccine che sui social si usano tanto. Sarà felice per la vita che ricomincia? mi sono chiesto. O sarà piuttosto arrabbiata per la vita che le hanno portato via? L’ho riletto più volte quel testo, così asciutto, in cerca di indizi. Niente. Più che un messaggio, era il titolo di una agenzia di stampa. Una notizia. Che aspettava da più di due anni, un tempo infinito in casi così: Ilaria Capua è innocente, non ha trafficato con dei virus, non ha tentato di creare una epidemia, non ha provato ad arricchirsi illecitamente mentre guidava il laboratorio di un prestigioso istituto di ricerca pubblico.

Via tutto il fango, resta la verità: Ilaria Capua è una scienziata, una grande scienziata italiana apprezzata in tutto il mondo, ingiustamente accusata di reati gravissimi (per uno di questi era previsto l’ergastolo); ma non c’è stato nemmeno bisogno di processarla per scoprire come stavano le cose.

Nell’udienza preliminare, quella che avrebbe dovuto rinviarla a giudizio chiudendo una inchiesta di undici anni, è stata prosciolta.

Nessuna gioia, nessun dolore. Allora ho capito: le hanno levato anche la voglia di festeggiare

Ho letto ancora una volta quel messaggio. Nessuna gioia, nessun dolore. Allora ho capito: le hanno levato anche la voglia di festeggiare. Perché se sei colpevole e finisci sotto accusa sei in un certo senso preparato, attrezzato a difenderti. Ma se sei innocente, se hai dedicato la tua vita alla scienza come bene comune, se sei orgogliosa di quello che hai fatto per il tuo paese e in fondo per l’umanità (non è esagerato, poi lo spiego), vivere due anni con delle accuse infamanti così è peggio di una tortura.

Come lo spieghi a tua figlia che ti chiede conto delle locandine dei giornali che strillano le accuse contro di te? Come, ai tuoi colleghi di laboratorio? Come a te stessa, la mattina, quando ti alzi dopo delle notti sempre più bianche? Vivere così è come morire, un po’, ogni giorno.

Ho ripensato a un messaggio che mi era arrivato un paio di anni fa. Era allarmata, quel giorno, Ilaria. Aveva ricevuto una telefonata da un giornalista dell’Espresso che le chiedeva una dichiarazione a proposito di una inchiesta giudiziaria. Non era chiaro di cosa si trattasse, ma sembrava roba grave. Lo era. Due giorni dopo il settimanale aveva la storia in copertina: Trafficante di virus, era il titolo che dava in conto di una inchiesta partita in America tanto tempo prima e poi approdata in Italia, a Roma.

C’erano state intercettazioni telefoniche che sembravano inchiodarla.

Ilaria Capua era un mostro ed era stata sbattuta in prima pagina.

Fino al giorno prima Ilaria Capua era una star della scienza

Fino al giorno prima Ilaria Capua era una star della scienza (aveva vinto il massimo premio per un veterinario, il Penn Vet) ed era da poco entrata in Parlamento con Scelta Civica. “Non lo fare” le avevo detto quando mi aveva chiamato per un consiglio nel Natale 2012. Ci eravamo conosciuti nel 2009, quando dirigevo Wired e celebravo ogni mese talenti italiani. Lei lo era. Ai tempi di una epidemia di aviaria, aveva scelto di mettere il virus, che il suo laboratorio aveva individuato, a disposizione della comunità scientifica mondiale invece che in una banca dati per poche case farmaceutiche, creando un caso che aveva occupato le pagine dei giornali di tutto il mondo. Quella scelta, che a lei appariva del tutto normale (“Lavoravo per un istituto pubblico, pagato con le tasse dei cittadini, ed era giusto che tutti potessero studiare il modo migliore per combattere il virus”), ha contribuito a cambiare i protocolli dell’Organizzazione mondiale della Sanità (l’open science, la scienza aperta, è nata lì, per alcuni); e ha reso Ilaria Capua una star. “Mente rivoluzionaria” è stata una delle tante roboanti definizioni che la stampa internazionale le ha dato allora.

Fra me e lei era nata una amicizia vera, profonda. Di quelle per le quali ti senti autorizzato anche a dare consigli scomodi. “Non lo fare, Ilaria”, le dissi, quando mi raccontò che Mario Monti in persona l’aveva chiamata una seconda volta per insistere. Non avevo nulla contro Monti in particolare o contro la politica in generale. Ma la Capua è una scienziata di valore mondiale ed una persona emozionante, una leader trascinante (guardate qualcuno dei suoi TED per rendervene conto). Ricordo che le dissi come battuta, ma non troppo: “Piuttosto, vinci il Nobel”. Mi chiamò una terza volta, quel giorno, ma per dirmi che all’ennesima telefonata di Monti aveva detto sì. Pensava davvero di poter dare un contributo a migliorare questo Paese.

La mancanza di solidarietà nei suoi confronti è stata in certi momenti assordante

A Montecitorio ha fatto il suo dovere, non c’erano dubbi, ma la sua stagione parlamentare però è stata segnata da questa inchiesta giudiziaria terribile. E la mancanza di solidarietà nei suoi confronti è stata in certi momenti assordante (con l’eccezione di Gianantonio Stella, che la intervistò subito; e più recentemente di Paolo Mieli che sul Corriere della Sera ha ricostruito la vicenda da par suo). Ne abbiamo parlato spesso in questi lunghissimi mesi: ogni tanto le chiedevo di spiegarmi di nuovo le ragioni dei magistrati e le sue. Era evidente che era stata presa una cantonata, anche dal punto di vista scientifico c’erano errori grossolani. E una sigla burocratica che si usava nell’Istituto per imputare i costi, era stata scambiata per la sigla di un misterioso conto corrente dove nascondere delle tangenti. Quanto ci vuole a dimostrare una innocenza? Sempre troppo, ma in Italia anche di più.

Nel frattempo l’inchiesta da Roma è stata dirottata in altre tre procure, e poi ci sono state le solite lungaggini, alcuni reati sono persino stati prescritti. Il rinvio a giudizio sembrava scontato, inevitabile. Dagli Stati Uniti, però, dove l’inchiesta madre era partita e si era chiusa nel giro di poco più di un anno, si è aperta una speranza: in un centro di ricerca in Florida cercavano un direttore di rango mondiale, e hanno scelto proprio lei: la Capua. Ci ha pensato a lungo se accettare, se lasciare l’Italia. Posso dirlo: sperava di non doverlo fare. Ci ha pensato a lungo e a qualche mese fa ha deciso che sì: avrebbe lasciato il paese che ama e avrebbe ricominciato da zero facendo quello che sa fare meglio, ricerca scientifica.

Ha organizzato una piccola festa di addio con l’occasione dei 50 anni di età. Era una festa ma in fondo eravamo tutti un po’ tristi

Un mese e mezzo fa a Padova, dove abitava, ha organizzato una piccola festa di addio con l’occasione dei 50 anni di età. Era una festa ma in fondo eravamo tutti un po’ tristi. Ricordo di aver incrociato Monti, in quell’occasione, e di avergli rivelato il mio inutile tentativo di convincere Ilaria a non entrare in Parlamento. “Allora lei voleva che vincesse Berlusconi?” mi aveva incalzato lui prima di fare il solito ragionamento per il quale senza Scelta Civica, Forza Italia avrebbe vinto le elezioni politiche del 2013. Certo che no, presidente, gli risposi, ma la verità è che speravo che Ilaria avrebbe avuto una vita migliore. Proprio quel giorno il tribunale che avrebbe dovuto decidere quello che ha poi deciso oggi, aveva aggiornato la decisione.

Ma la vita la Capua se l’è ripresa lo stesso. Ha venduto la casa di Padova, e tutti i mobili, e tutto quello che non voleva portarsi in America. A Milano il 10 giugno mi ha fatto il regalo che le avevo chiesto: una lezione, l’ultima, prima di lasciarci. Sul palco dell’Innovation Week ci ha incantato per mezz’ora con un format che aveva in mente da un po’, mescolando brani musicali e pietre miliari, per dirci che in fondo la vita è questa roba qui, che a volte pensi di essere arrivato in cima e allora devi essere pronto a resistere a tutto, perché ti colpiranno con degli schiaffoni tremendi, ma se sarai bravo potrai ricominciare. Ed è partita, ma promettendo di tornare un giorno, “perché l’Italia è il mio paese”; è partita il 16 giugno, con il marito, il pazientissimo Richard, uno scozzese che a volte ha il vezzo di usare il kilt; e la figlia, dolcissima, Mia.

Mi ha chiamato dalla Florida qualche giorno fa, mentre guidava per andarli a prendere all’aeroporto. Parlava veloce, come fa lei, quando ha mille progetti. Era di nuovo felice.

Oggi lo sono anche io. Ma mi chiedo: ci deve volere così tanto in questo paese per essere considerati innocenti?

RICCARDO LUNA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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