Il rapporto tra finanza e filantropia è stato sempre conflittuale. Ho avuto diverse volte il privilegio di confrontarmi con i protagonisti dei “due mondi”, e non sono mai riuscito a individuare una sintesi, un ponte che potesse costruire modelli ibridi o incentivi che promuovessero una loro minima convergenza. Finanza buona contro finanza cattiva. Un’arena di scontro in cui non interrogarsi, non riflettere, ma competere su scale di valori e posizioni (ideologiche) difficilmente compatibili.
Nel XV secolo, i Monti di pietà si presentavano come istituzioni finanziarie non profit che erogavano prestiti a condizioni di favore rispetto al mercato, in cambio di un pegno. Questo doveva rappresentare un valore di almeno un terzo in più rispetto a quanto richiesto: la garanzia per rendersi “bancabile” diremmo oggi.
La selezione dei creditori poi, era vincolata a elementi di prossimità geografica (residenti nella stessa località del Monte o nelle aree esplicitate negli atti statutari) ed a micro prestiti di piccolo importo. I richiedenti avrebbero dovuto giurare che il prestito sarebbe stato impiegato per fini morali. In altre parole: “hai necessità di liquidità? Costruiamo un rapporto fiduciario a tempo. Se non sarai in grado di rispettare i patti, il bene dato in garanzia andrà all’asta”.
Rischio, fiducia, impatto locale. Di certo nel XV secolo non si parlava di seed capital e di startup, ma era evidente la necessità di architetture finanziarie diverse e complementari. Anche oggi, il dibattito si sta sempre più orientando sull’impatto generato da queste azioni: il sostanziale cambiamento, in positivo, di una comunità e del suo tessuto produttivo e sociale.
Dalla filantropia all’impact finance
L’impact investing si colloca all’interno dell’evoluzione del rapporto tra finanza e filantropia, in cui quest’ultima si reindirizza da un approccio solidaristico, dominato dall’attività di raccolta e distribuzione dei fondi (c.d. fund raising e grant making), verso un modello di investimento consapevole e coerente, capace di legare ritorno finanziario, impatto sociale, sviluppo e valorizzazione del territorio.
Il nuovo paradigma non si limita, quindi, a strumenti tradizionali legati alla donazione da parte di privati o trasferimenti a fondo perduto della pubblica amministrazione, ma interviene in una riallocazione delle risorse in settori strategici ed una più puntuale valorizzazione delle pratiche innovative di sviluppo locale.
Nuove codifiche portano alla definizione di un’economia emergente che combina logiche di mercato con i bisogni della società.
È un mercato, ma anche un movimento di idee e talenti che si riconosce nel fenomeno della “social innovation”: innovazioni di prodotto o di processo, il cui impatto va a beneficio della collettività rispetto ai singoli promotori o comunità di riferimento.
Finalmente, anche una nuova strumentazione finanziaria si presenta ad un mercato ibrido, dalle grandi potenzialità, che abbraccia organizzazioni non profit ed enti locali, piccole iniziative d’impresa e grande industria, intermediari finanziari e società civile.
Tema chiave per il successo degli strumenti di impact investing, all’intero di una architettura finanziaria più ampia denominata “impact finance”, risulta la sistematizzazione dei suoi elementi caratterizzanti: trasparenza delle transazioni; raccolta di seed capital dando fiducia alle idee; coerenza degli interventi di sviluppo da parte del settore pubblico; partecipazione delle comunità locali, responsabilizzate ad intervenire come primi investitori nelle iniziative di social innovation.
Alcune esperienze risultano particolarmente significative per la rilevanza dei soggetti che coinvolgono – si veda ad esempio il network Global Impact Investing Network – o perché costituiscono un’assoluta novità nel panorama della finanza internazionale. In particolare in UK, si ricordano: la Big Society Capital, il fondo Bridges Venture, la “Social Investment Task Force”, lanciata dal Ministero del Tesoro inglese nell’aprile del 2000 al fine di esplorare nuove aree d’innovazione in cui il settore pubblico, della filantropia e delle imprese potessero allearsi e trovare sinergie comuni (qui alcuni report interessanti).
La Big Society Capital presenta un patrimonio di 600 milioni di sterline, provenienti da due fonti: conti bancari dormienti non reclamati (400 milioni di sterline), e finanziamenti da quattro importanti banche inglesi – RBS, Barclays, Lloyds e HSBC.
In merito agli strumenti invece, di grande interesse si rivelano i Social Impact Bonds (SIBs), nati in Inghilterra alla fine del 2009 come esperimento di Social Finance società nata per sviluppare prodotti finanziari a sostegno delle imprese sociali ed in collaborazione con il Governo centrale. Il progetto, della durata di sei anni, mira alla creazione e al mantenimento di strutture per gli ex detenuti dell’istituto penitenziario di Peterborough, dove possano trovare l’aiuto e il sostegno necessari per reinserirsi con successo nella società. I fondi vengono reperiti offrendo i SIBs in sottoscrizione ai citadini-investitori; se il tasso di recidiva non si ridurrà almeno del 7,5 per cento, gli investitori non riceveranno alcun compenso.
Non ultima, la città di New York ha lanciato nell’estate 2012 il suo primo SIB con la Goldman Sachs: 9,6 milioni di dollari in un programma di rieducazione e reinserimento sociale dei giovani detenuti (16-18 anni) di Rikers Island. Le risorse saranno gestite dalla non profit MDRC (spin-off storica della Ford Foundation) che gestirà i fondi per le attività (formazione, assistenza psicologica e percorsi di reinserimento lavorativo). La misurazione dell’impatto dell’iniziativa, elemento centrale per i SIB, è affidata al Vera Institute for Justice. Tecnicamente l’investitore otterrà un ritorno finanziario a condizione che il proprio investimento si dimostri con evidenza “d’impatto”: in questo caso, se il tasso di reiterazione del reato calerà del 10 per cento, e con l’ipotesi di rendimenti superiori qualora il tasso di recidiva diminuisca ulteriormente.
Di interesse risultano inoltre la Borsa di Valori Sociali a Lisbona, la Social Investment Business (già “Future Builders”), la Charity Aid Foundation, la London Social Stock Exchange (ancora in costruzione).
L’impact finance nelle stanze dei bottoni
Anche all’interno delle istituzioni europee, è definitivamente maturata la consapevolezza di dover sviluppare modelli innovativi che, traendo ispirazione anche dalle tecniche del venture capital, possano creare un nuovo rapporto tra capitali privati, enti locali, organizzazioni non profit ed imprese (anche for profit) ad impatto sociale. La Social Business Initiative della Commissione Europea, le novità di Horizon e del Programma per il Cambiamento Sociale e l’Innovazione 2014-2020 potranno essere utili strumenti di sperimentazione.
Dal 2008, quando il presidente della Commissione Europea, Barroso, istituì una prima task force sulla social innovation, diversi (anche se fisiologicamente lenti) sono stati i progressi per identificare gli investimenti in iniziative di impatto sociale quale strategia per gli obiettivi di crescita economica dell’Unione Europea (Europa 2020).
Nel 2011, il Commissario Barnier, a capo della riforma dei servizi finanziari e del Mercato Unico, con la Social Business Initiative ha seguito la stessa traccia, che porterà nel 2014 al nuovo programma di finanziamento a sostegno del microcredito, dell’impresa sociale e della Social Innovation: la “Social Change and Innovation” con una prima dotazione di quasi un miliardo di Euro. A questa si aggiunge il fondo per gli investimenti sociali della Banca Europea degli Investimenti, anche se in standby a causa di una mancata condivisione della definizione di “impresa sociale” (per approfondire, qui un interessante post di Filippo Addarii).
Poco più di tre anni fa, durante la Social Enterprise Coalition annual conference Voice10, Caroline Mason – attuale chief operating officer della Big Society Capital e allora direttrice di Investing for Good (impresa sociale che finanzia progetti sociali e ambientali), richiamò con forza una maggiore attenzione da parte di banche di proprietà governativa (RBS in primis) verso le social enterprise in UK:
‘The government owns two of the largest banks in the UK and is insuring the rest[…]. To the social sector, investment bankers are awful, evil greedy monsters rampaging through the world, causing crushing havoc and destruction as they go. To the finance sector, the social enterprise world is inhabited by aliens, speaking a completely unintelligible language, with utterly unrecognisable and strange ways of doing things, and frankly the complete inability to know one end of a spreadsheet from another”.
Una situazione di stallo che potrebbe risolversi solo con la nascita – affermò Caroline – di imprese sociali quali intermediari finanziari. Interessanti anche gli altri interventi, dal direttore di ResPublica, Phillip Blondche al segretario generale di Cooperatives UK, Ed Mayo (tutte relazioni che potrete approfondire e commentare cliccando qui).
Forme ibride ed esperienze emergenti
Sono al vaglio ipotesi circa l’utilizzo di forme “ibride” di finanziamento, supportando la creazione di modelli di crowdfunding, volti alla raccolta di capitali, anche sottoforma di equity. Piattaforme di finanziamento all’interno delle quali le iniziative locali in startup possano proporre i propri progetti ed i soggetti privati possano scegliere quali finanziare.
In Italia, i limiti imposti dalla disciplina relativa alla raccolta del risparmio tra il pubblico, non consentono lo svolgimento di attività di carattere “finanziario” a soggetti diversi da quelli autorizzati, in particolare sul tema del crowdfunding equity based. La Consob su questo è al lavoro, ed anche se non ritengo soddisfacente quanto partorito dal c.d. Decreto Cresci Italia in merito al crowdfunding, ho “respirato” al recente evento di presentazione delle misure in oggetto (qui il post di Gianluca Dettori), una buona disponibilità al dialogo.
Quali allora gli agenti del cambiamento, le teste di ponte per l’impact finance in Italia? Diverse le iniziative, alcune strutturate, altre provocatorie ma allo stesso tempo con un altissimo potenziale.
Un attore ancora poco protagonista, a mio avviso, diventa la “startup” al femminile. Non sono un tifoso delle quote rosa o di differenziazioni di genere “by default”, ma – anche se come al solito oltreoceano – sono in aumento le startup americane al femminile che si avvalgono del sostegno di fondi privati reperiti tra amici e familiari.
Una ricerca del Centre for Venture Research afferma che “sono circa due terzi delle donne imprenditrici che riescono ad intercettare investimenti di questo tipo” (qui una interessante lista dei loro report).
Network di angel investor e fondi di Venture Capital come Golden Seeds (uno dei primi gruppi in prima fila nel sostegno alle iniziative “rosa”) e Alliance of Angel (primo gruppo del Nordamerica del settore presieduto da una donna, Catherine V. Mott, e che nel 2010 ha registrato un recordi di 10,3 milioni di dollari di investimenti in 33 start-up) sono realtà consolidate in USA.
In Islanda, a Reykjavik, Halla Tomasdottir e Kirstin Pedtursdottir, rispettivamente ex d.g. della Camera di Commercio islandese ed ex vice ceo della filiale della Kaupthing Bank (chiusa nel 2008) – sono le fondatrici della finanziaria Audur Capital. “150milioni di massa amministrata, 37 dipendenti, perlopiù donne” e sopravvissuta alla tempesta del 2008”.
“Quando prendiamo in considerazione un investimento, oltre ai bilanci e alla contabilità esaminiamo i valori delle persone e la sostenibiltà ambientale del business. Se l’impatto sociale è negativo scartiamo subito la richiesta“.
Tra le beneficiarie del fondo Audur I, 30milioni di euro di asset e dedicato alle imprese “guidate e fondate da donne”, ci sono la designer Gudrun Lilja Gunnlaugsdottir con la sua impresa di bare ecologiche (!); la fondatrice della società di microcrerdito Uppspretta e quella di Secret North, che con la lava vulcanica crea prodotti d’arredamento (fire features).
La cantante Björk ha finanziato con 830mila dollari la Audur Capital con l’istituzione di un fondo: il Bjork Fund, che si propone di raccogliere 10milioni di euro” dedicato alle imprese islandesi (in preferenza “rosa”) attive “nei valori del territorio e dell’ambiente” (fonte: Ventiquattro, n.9, 3 settembre 2010).
Tornando all’Italia, il vuoto di strumenti, pratiche di successo e attori istituzionali non presenta uno scenario roseo. Eppure proprio nel nostro Paese si evidenziano le esperienze avviate (con alterne fortune) dalla rete delle MAG, mutue di auto gestione, c.d. cooperative finanziarie che hanno dato il via alla finanza etica, già dal 1978, per finanziare iniziative economiche nei settori del sociale, dell’ecologia, del consumo consapevole e della cultura.
A queste si lega il ruolo che si potrebbe riconoscere alle fondazioni di origine bancaria (tema “caldo”, affrontato da tempo con fervore dal prof. Roberto Perotti con la sua “indagine sulle Fondazioni bancarie”), quindi – e senza la presunzione di essere esaustivo, aggiungetene pure ai commenti molto volentieri – le iniziative di social venture capital avviate da Oltre Venture, con Luciano Balbo e Lorenzo Allevi, l’ Opes Impact Fund della ONG Acra e curato nel suo set-up anche da Roberto Randazzo, lo sforzo di captare inizative di social impact italiane da parte di Rodolfo Fracassi di Main Street Partners.
Sono oramai operative da tempo Banca Prossima, indirizzata esclusivamente al non profit, Banca Etica, quest’ultima anche membro di FEBEA (federazione europea di banche etiche ed alternative), l’esperimento (riuscito due volte, da aprile 2012) della piattaforma UBI comunità, di UBI Banca con la emissione di 18 social bond, per un valore di 200 milioni di euro.
Ed ancora le pratiche di microfinanza di Microprogress, Permicro, la piattaforma di social lending di Smartika e Prestiamoci, le esperienze di moneta complementare come Sardex (già un vero e proprio caso di successo), il movimento Scec (Solidarietà Che Cammina), la startup Dropis.
Infine, non volendo proseguire ulteriormente, ricordo l’esperimento di JAK Medlemsbank, banca che opera in Svezia dal 1973, dove i risparmiatori non ricevono interessi sul capitale versato, mentre coloro che prendono prestiti pagano unicamente una commissione, corrispondente ai soli costi di gestione della banca: costi di struttura e personale. Anche in Italia esiste un gruppo JAK per replicare l’esperienza svedese.
Allo stesso, tempo, stanno prendendo forma community emergenti che stanno aprendo il dibattito sull’impact finance in Italia, e che si propongono come think thank o veri e proprio attivatori di raccolta e gestione di capitali.
Tra queste: il neonato comitato promotore per i Social Impact Bond in Italia da parte del gruppo dei global shapers del World Economic Forum; Uman Foundation, già membro del GIIN; il gruppo di lavoro interno ad I-Sin (Italian Social Innovation Network, in partnership con Euclid Network); la piattaforma di incontro tra investitori e startup di social innovation Partnering for Global Impact , capitanata da Gamil de Chadarevian e che aspira a divenire un punto di riferimento in Europa, sulla scia di quanto già consolidato negli Stati Uniti da SOCAP (Social Capital Markest Conference).
Tanto movimento, tante energie e competenze che devono incrementare il proprio potere contrattuale, quindi il proprio grado di rappresentatività e concretezza (raccontando i success cases).
Il bug istituzionale come terreno fertile
Appare sempre più evidente l’interesse da parte di soggetti privati, profit e non profit, di investire nella sperimentazione di alcuni progetti di social venture che vedono il coinvolgimento di investitori privati ed imprese attive nella nella filiera della social innovation. Questo comporta sia interventi struttuali nelle organizzazioni – ovvero modifiche nella governance – che formazione per lo sviluppo di “soft skills” del personale. Si veda a titolo esemplificativo la formula delle c.d. “low profit”, in cui si prevede una parziale distribuzione degli utili (con un emendamento che ha fatto molto discutere in Italia) o delle Community Interest Company in UK.
In particolare, in questa fase, è necessario concentrarsi su interventi che consentano di supportare lo sviluppo dell’impact finance, generando strumenti idonei per l’attrazione dei c.d. “capitali pazienti” (citando Jacqueline Novogratz, di Acumen Fund), disciplinando non solo le modalità e le regole di investimento, ma anche i vantaggi a favore degli investitori e le metriche di misurazione dell’impatto sulle comunità e sui territori. In tal senso LM3, SROI, outcomes stars, Giirs, sono utili punti di riferimento.
Anche l’Istat, in collaborazione con il Cnel, a brevissimo ha lanciato il BES, indicatore di benessere equo e sostenibile per andare oltre il Pil: 134 indicatori per misurare il benessere di una comunità in termini di coesione sociale, tutela ambientale, misure di diseguaglianza e sostenibilità.
Il “bug” istituzionale e ideologico che sta caratterizzando queste settimane, non fa altro che rafforzare gli anticorpi di agenti del cambiamento già attivi, pronti a sperimentare soluzioni innovative con coraggio, faccia e portatafoglio.
Il coraggio di ambire a visioni di lungo periodo; la faccia, per mettersi in gioco e sopportare possibili costi reputazionali; il portafoglio, perchè l’asset reallocation è pratica che anche i grandi player hanno già avviato, ora servono i piccoli, ed in massa!
La trasparenza delle transazioni, la consapevolezza dell’investimento e del suo intero percorso, la standardizzazione delle metriche di misurazione del successo (dell’impatto) delle iniziative finanziate. Saranno queste, se vorremo parlare di sviluppo, le leve da azionare per costruire un ponte tra bisogni emergenti, talenti e allocazione efficiente di risorse finanziarie pubbliche e private.
E’ una finanza che che c’è già. Basta riconoscerla, potabilizzarla – anche a livello istituzionale – e partire in fretta.