Il 4 marzo scorso me lo ricordo bene. Ero imbottigliata nel traffico che scorreva lento sul raccordo. Non era Roma, ma Il Cairo. E il fatto che fosse domenica non cambiava nulla. Per gli egiziani il giorno di festa è un altro. Per di più, era la prima volta che tornavo in Egitto dopo la rivoluzione che ha cambiato il paese. Non ero là per parlare di Primavera araba, ma di virus. Sono una scienziata.
Il mio laboratorio (presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delleVenezie) collabora da molti anni con l’Egitto per studiare H5N1, il virus dell’influenza aviaria. Là, all’ombra delle piramidi, ormai è diventata una malattia endemica. A essere a rischio non sono solo gli allevamenti intensivi, ma anche le miriadi di persone che allevano i polli in casa.
In Egitto, possedere una gallina è come avere tra le mani una carta di credito. Le sue uova e la sua carne sono una piccola sicurezza per i nuclei familiari poveri e numerosi. Tutti ne vogliono una, e se le scambiano fra famiglie.
Succede anche al Cairo, nella parte vecchia della città. Qui 500mila persone vivono ammassate sui resti di un antico cimitero. Da lontano, i tetti delle case sembrano piccole discariche. Qua e là una sedia senza una gamba, un televisore sfasciato, una scarpa rotta. E uno stuolo di recinti con anatre e polli. Un focolaio di infezione direttamente sopra la testa. Lo stesso vale per le terrazze, invase da parabole satellitari e galline.
L’Egitto si è preso l’aviaria dal 2006, e non è mai riuscito a liberarsene.
Ora è dappertutto – anche negli allevamenti in mezzo al deserto. Sono anni che lavoriamo con l’Egitto, abbiamo ospitato i loro ricercatori e mandato i nostri – per cercare di dar loro gli strumenti per affrontare la situazione. Abbiamo tipizzato centinaia di virus e studiato l’efficacia di vaccini con il progetto “Save Egypt”. Obiettivo: tenere sotto controllo l’aviaria e raccogliere campioni da analizzare. Il secondo è un punto fondamentale, perché le mutazioni inattese di H5N1 potrebbero trasformarlo in un virus capace di trasmettersi anche tra esseri umani. E visto che nessuno può dire se e quando accadrà, l’unica cosa certa è che non possiamo farci cogliere impreparati.
Sul raccordo il traffico è davvero lento. Il tempo, invece, corre veloce. La mia ultima visita al Cairo è stata a ottobre 2010.
Tre mesi dopo a Piazza Tahrir è arrivata la rivoluzione. Quello che è successo lo sappiamo tutti. L’Egitto ha scelto la sua strada verso la democratizzazione. Ma la caduta del regime non è stata indolore. Oltre alle vittime, sono scomparsi anche i programmi di monitoraggio delle malattie e ne ha sofferto l’organizzazione dei servizi sanitari. Così, l’aviaria ha avuto campo libero per più di un anno. La settimana precedente il mio arrivo c’è stata l’ultima vittima: la 57ma su 163 persone infette.
Ora che la situazione politica si sta assestando, è arrivato il momento di fortificare le attività e riprendere il nostro lavoro. Per fortuna i rapporti tra l’Università del Cairo e il mio Istituto sono sempre stati buoni. Valeva la pena affrontare il traffico domenicale sul raccordo per incontrare i nuovi responsabili del progetto ed il nuovo direttore generale dei servizi veterinari. L’accoglienza è stata ottima anche se, per la prima volta, a me e al mio collega Giovanni Cattoli hanno assegnato un albergo vicino all’aeroporto. Secondo alcuni, il centro della città potrebbe essere ancora pericoloso.
Eppure, a guardarla dalla strada sopraelevata, la capitale egiziana sembra come rivitalizzata. Ai margini del labirinto caotico di strade senza semafori, dove il traffico scorre in nubi di polvere, c’è qualcosa di diverso. In lontananza stanno crescendo centinaia di nuovi palazzi. Ma ovunque rivolgi lo sguardo incontri ancora pulmini che arrancano stracolmi di gente. A bordo tanti bambini e tante donne. Moltissime indossano il hijab, il velo che lascia scoperto il volto. Mi rimangono impressi nella memoria tanti occhioni neri, un po’ sfiniti, un po’ carichi di aspettative.
Il lato più spossante di questi viaggi riguarda il fatto che non hai mai abbastanza tempo per interessarti ad altro se non al tuo lavoro. Il 5 mattina c’è una conferenza sull’aviaria all’Università del Cairo. Lasciato l’albergo ci gettiamo di nuovo nel traffico prima delle 8 di mattina. Per fare 20 chilometri di raccordo la macchina impiega almeno due ore e mezza. La città ti sfila di nuovo sotto gli occhi. Per fortuna gli organizzatori del convegno sanno che è perfettamente normale arrivare in ritardo.
La sala è colma di persone. Saranno 300 o 400, difficile dirlo. Aspettano noi per firmare il nuovo accordo tra il nostro Istituto e l’Università. Vogliamo riprendere a lavorare insieme il prima possibile. E non c’è modo migliore per iniziare se non quello di riunire in una stanza tutte le persone che si occupano di aviaria. A tutti i livelli. Ci sono funzionari del ministero dell’agricoltura e della sanità, virologi che si vantano di aver partecipato agli scontri in piazza Tahrir, e raccontano di portare ancora sul petto i segni delle pallottole di gomma sparate dall’esercito. Ci sono ricercatori, veterinari, medici, industriali e anche giornalisti stranieri.
Alcuni imprenditori mi dicono di essere molto preoccupati. I problemi sanitari ci sono, e sembra difficile risolverli nel breve periodo. L’arrivo di H5N1 ha abbattuto la produzione avicola del 70%. Il virus continua a uccidere gli animali indisturbato e la carne di pollo e le uova, che sono alla base della dieta egiziana, iniziano a scarseggiare. I prezzi salgono e a rimetterci sono soprattutto i più poveri. Gli allevamenti che ho visto sui tetti delle case non fanno che peggiorare le cose. Il tasso di infezioni da animali a esseri umani è uno dei più alti al mondo e gli individui più a rischio sono proprio coloro che governano gli animali: donne e bambini.
Nel mezzo della conferenza mi accorgo di un particolare. In sala ci sono pochissime donne. Meno del solito, e tutte indossano il velo. La cosa un po’ mi stupisce. Anche la nuova direttrice del centro di ricerca sulle malattie degli animali porta il hijab. Poi scopro che è stata eletta direttamente dal personale del laboratorio. Prima d’ora una cosa del genere non era mai accaduta. L’Egitto è così: dopo la rivoluzione i suoi abitanti hanno scelto tante piccole forme iper-democratiche per guidare passo dopo passo il cambiamento del paese. La volontà di ripartire c’è.
So di dover razionalizzare la cosa. Come scienziata, sento il dovere di fare il possibile per aiutare l’Egitto a pianificare la lotta contro l’aviaria, ridurre i focolai di infezione e monitorare l’evoluzione del virus. Il mio Istituto, con il sostegno del Ministero della Salute si sta impegnando molto in questo campo. Potere esportare conoscenza è un motivo di vanto per noi, ma non si tratta solo di mettere a disposizione i nostri cervelli per migliorare le strutture sanitarie all’estero. Nei prossimi mesi i nostri centri di ricerca offriranno i primi corsi di specializzazione direttamente ai loro dottorandi. Il nostro è un progetto a lungo termine. E non riguarda solo l’Egitto, ma molti altri paesi che hanno bisogno del nostro aiuto per debellare le malattie che colpiscono gli animali e uccidono l’uomo – come la rabbia.
Sulla strada di ritorno verso l’aeroporto incrocio di nuovo i pulmini sovraffollati che avanzano lenti nel traffico. Ancora una volta, mi rimangono impressi nella memoria. Come donna, auspico che al centro di ogni cambiamento – democratico e scientifico – ci siano proprio loro: le donne egiziane.
Il Cairo, 27 marzo 2012ILARIA CAPUA