Cambiare aria aiuta a chiarirci le idee sulle cose di casa nostra. Sono stato in Israele per una settimana. Incontri, lezioni e conferenze. Ci sono stato in questi tempi travagliati, con la tregua su Gaza appena firmata e la questione ISIS che già bussa alle frontiera del nord. Paese di per sé emozionante e dove, dunque, il problema della sicurezza a 360 gradi non è proprio una bazzecola. È divertente, entrando in un ministero qualsiasi, farsi ritirare il documento dalla ragazza in portineria che, con sorridente naturalezza, porta a tracolla il suo nero TAR 21, il micidiale fucile mitragliatore delle truppe d’assalto israeliane. La security, si capisce, non è esattamente presa sottogamba per un popolo affamato di normalità.
Eppure laggiù il wifi, è libero e funziona.
Certo, dove meglio o dove peggio. Ma chiamare casa con Facetime, sul lungomare di Jaffa da un hot spot pubblico bevendosi una birra al tramonto, si fa tranquillamente.
Tranquillamente vuol dire senza troppi continui attacca e stacca. Ma anche senza doversi accreditare, proporre o subire password, perder tempo con i captive portal che ti vogliono vendere questo o quello. Vuol dire che il telefonino, il PC o l’Ipad si agganciano e buonanotte. Esattamente come succede a casa o in ufficio. Per la gente è normale, e il paese è sostanzialmente connesso, e non proprio malaccio. Anche perché la rete pubblica è forte ed e sussidiata da una galassia di punti di accesso forniti, anche questi liberi e gratuiti, dai caffè o dai negozi.
Per cui, nei posti più frequentati, si ha un tappeto quasi continuo: se ne perde uno e si trova l’altro. Anche in questo caso niente pubblicità, portali, password: tutto semplice.
L’Italia del wifi col freno a mano tirato
Torno a casa partendo dal Ben Gurion, arrivo con tre ore di anticipo per via dei controlli, dei quali ho diligentemente letto sul sito del nostro MAE. Li sbrigo in mezz’ora e mi trovo davanti due ore e mezzo di tempo per scrivere, lavorare, vedere posta e social. Anche lì, in uno degli aeroporti più sorvegliati al mondo, c’è wifi “a palla” come si dice da noi. Libero, tranquillo. Basta agganciare la rete e via. No password, no credenziali, no captive portal, regole, avvertenze, pubblicità.
Non racconto queste cose in senso assoluto, perché probabilmente sarebbero di scarso interesse. Il problema è che dal Ben Gurion sono sbarcato a Fiumicino, anche qui in attesa di un altro volo. Un’ora da aspettare. Ci sono i cartelli, wifi libero, gratuito ecc… Certamente molti di voi hanno fatto la stessa esperienza. Non voglio dir troppo, andate e provate. Diciamo che non è esattamente la stessa cosa del Ben Gurion, e per averne un’idea navigatevi questo link dove si spiega come connettersi: “Accendete il vostro dispositivo, scegliete la rete, avviate il vostro browser, sarete automaticamente rediretti verso la pagina di accoglienza, seguire le istruzioni per effettuare l’accesso selezionando l’opzione Free…”. Tutto un programma. Seguite le istruzioni mentre dovete rispondere a una mail tra un aereo e l’altro, facendo lo slalom tra questa offerta o quella, tra la richiesta del tuo indirizzo di mail e la dichiarazione sulla privacy. Ripeto, provare per credere.
Il guaio è che tutto questo, intendo il problema dell’identificazione certa di chi si connette a internet, è per il nostro Paese un’autentica ossessione sulla quale il quadro normativo non è nemmeno di facilissima interpretazione.
Eppure qui, pur con tutti i problemi che abbiamo, non piovono razzi Quassam che sembra la sagra del paese, né si gira portando a spasso il Tavor Assault Rifle come fosse il cagnolino. È una ossessione le cui ragioni, che senz’altro ci sono, andrebbero bilanciate con i problemi che ne derivano. E non parlo dello stagno nel quale nuotano decine di imprese che vendono servizi con questa scusa e che invece li potrebbero vendere ugualmente, di più e meglio puntando sulla infrastruttura e sulla capacità innovativa di incontrare i bisogni dell’utente. Parlo dei cento freni a mano che l’Italia tira caparbiamente sulla connettività del proprio territorio. Eppure l’uscita dalla crisi, guarda caso, passa proprio da lì.
GIOVANNI MENDUNI