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innovazione dal basso: Viaggio tra gli innovatori che non devono chiedere permesso

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Venerdì scorso 250 persone si sono incontrate a Torino accomunate dalla voglia di cambiare le cose. E non si sono incontrate in un luogo qualsiasi ma sul tetto di Toolbox, il grande spazio di coworking che integra Fablab Torino, il primo fablab in Italia. Tutti sul tetto, circondati da quel senso di stupore che ti prende quando di colpo vedi le cose di tutti i giorni da un’altra prospettiva, il punto di partenza perfetto per un incontro dedicato alle idee e alle persone che stanno cambiando il mondo senza chiedere permesso a nessuno.

L’occasione era L’Innovazione dal Basso”, l’incontro organizzato da Toolbox Coworking e Officine Arduino in occasione dell’Arduino Camp e sul tetto, insieme ai 250 spettatori, c’erano Riccardo Luna, Massimo Banzi, co-fondatore di Arduino, e Juan Carlos De Martin del Politecnico di Torino, introdotti da Leonardo Camiciotti di TOP-IX.

Tutti insieme per parlare di open source, open hardware, creative commons e, più in generale, delle idee che stanno disegnando un mondo che delle regole e dei modelli economici precedenti non sa più che farsene, dove l’innovazione non passa solo dai laboratori R&D ma anche dalle scrivanie di un coworking, dove al mito del prodotto perfetto si sostituisce il concetto del sempre-migliorabile, dell’eterno beta, dove il fallimento non incute timore perché è una delle strade che portano al successo.

Un movimento frastagliato di volti nuovi e nuove idee che dal basso sale verso l’alto, che definisce nuovi stili di vita e nuovi modi di organizzare la società, anche in Italia, come testimonia l’entusiasmo con cui i lettori hanno adottato “Cambiamo Tutto!” il libro di Riccardo Luna dedicato all’innovazione: un flusso continuo di foto e commenti sui social media che hanno colto di sorpresa lo stesso Luna: ‘Evidentemente ha acceso qualcosa, ha interpretato un pezzettino dello spirito del paese, che noi giornalisti non raccontiamo mai.

Non raccontiamo mai le soluzioni e non raccontiamo mai quelli che cercano le soluzioni.”

Come Massimo Banzi, di cui lo stesso Luna non aveva mai sentito parlare prima che glielo segnalasse Chris Anderson, direttore dell’edizione americana di Wired. Un esempio che da solo basta a descrivere l’invisibilità forzata in cui si ritrovano i tanti italiani che fanno innovazione ignorati dai media e dalla politica, ma che per fortuna vanno avanti per la loro strada. Com’è accaduto per i fablab italiani, luogo simbolo di questo tipo di innovazione, che in poco più di un anno sono passati dall’unicum di Torino –aperto proprio in Toolbox Coworking– ai quindici aperti e funzionanti entro la fine dell’anno in tutta Italia.

La bella notizia quindi è che le cose succedono comunque, come conferma lo stesso Massimo Banzi che racconta di come questa nouvelle vague di innovatori nasce a metà degli anni 2000, quando la gente riscopre il piacere di fabbricare oggetti.

Ai più la cosa è passata inosservata, liquidata come poco più di un ritorno di fiamma del buon vecchio bricolage, sulla scia della glorificazione hipster del vintage a tutti i costi. Ma le cose in questo caso sono molto diverse perché dietro questo ritorno agli atomi non ci sono (solo) trapani e martelli ma tecnologie come Arduino, che rende accessibile a tutti l’aspetto ingegneristico, il web, che rende la condivisione di progetti e conoscenze semplice e immediata, e l’evoluzione silenziosa dei concetti di copia e copyright nel modello più inclusivo dei Creative Commons.

Del resto, come ricorda Juan Carlos De Martin, nella storia dell’innovazione è l’esperienza dei grandi laboratori strutturati a essere l’eccezione. L’innovazione è sempre passata attraverso la figura dell’inventore che da solo, con capitali modesti e conoscenza limitata, riesce a fare invenzioni in grado di cambiare il mondo. Fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando i governi nazionali scoprono che la potenza e il prestigio di un paese passano anche dall’innovazione scientifica e che certe cose l’inventore solitario non può farle. E siamo all’era dei grandi investimenti, delle grandi concentrazioni di persone ciascuna con la sua specializzazione, dei grandi laboratori come i famosi Bell Labs.

Fino al trionfo del digitale e della retorica del bit che schiaccia l’atomo dal quale però, in uno di quei capovolgimenti di paradigma paradossali tipici delle rivoluzioni, si ritorna all’invenzione di oggetti, alla figura dell’inventore solitario, ai laboratori negli scantinati. Ovviamente non si tratta di un ritorno puro e semplice al modello romantico dello scienziato circondato da taccuini ed alambicchi perché questo movimento poggia sui tre pilastri del software libero, dell’hardware libero, e dei creative commons, ai quali si aggiunge la disponibilità continua e a costi accessibili della rete. Il che ci riporta con i piedi per terra, alle zavorre che perseguitano l’Italia, digital divide ma non solo.

L’Italia infatti, cosa sulla quale concordano tutti, sconta una serie di ostacoli culturali alla diffusione di una cultura diffusa dell’innovazione: il paternalismo delle vecchie generazioni nei confronti delle nuove, che alimenta pessimismo e rassegnazione, il totem della stabilità a tutti i costi che diventa immobilismo, il mors tua vita mea, e soprattutto la mancanza assoluta di una cultura del fallimento, che in Italia costituisce ancora un tabù inconfessabile. Peccato che, come giustamente ricorda Massimo Banzi, in un magma creativo è normale che ci sia un rumore di fondo fatto di idee che finiscono nel nulla, tentativi non andati a buon fine, fallimenti.

Eppure l’Italia ha tutte le carte per uscire dall’empasse e vincere la partita, anche contro quello schiacciasassi di ottimismo e fiducia nel futuro che sono gli Stati Uniti. ‘Non è vero che abbiamo un gap storico con gli americani’ dice Riccardo Luna ‘Questo è un paese che dopo la Seconda Guerra Mondiale ha avuto una generazione strepitosa che è ripartita. Oggi noi le chiamiamo startup ma le piccole aziende italiane sono state un tessuto fantastico di ripartenza dell’economia. Negli anni Cinquanta e Sessanta sono nate un’infinità di aziende italiane che si sono imposte nel mondo. I nostri genitori hanno dimostrato la capacità vera di mettersi in gioco, di sperimentare, di innovare. Non c’è bisogno di copiare nulla dagli americani. Non è un problema di dna, ci manca solo l’innesco.’

E questo è la sfida, a suo modo innovativa, che aspetta le vecchie generazioni: mettere in circolo l’energia che già circola nell’aria, prendere le chiavi, metterle in mano ai giovani e dire ‘Non è vero che il tuo mondo sarà peggiore del mio. Da oggi, fai tu’.

MASSIMO POTI’

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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