Innovazione e Ruralità:come svolgere un mestiere antico ai tempi del web

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Il mondo che ci circonda è caratterizzato da una crisi che non ha intenzione di finire, in questo scenario tutto cambia di nuovo e può capitare che il settore dell’agricoltura abbia vita nuova anche grazie al contributo delle tecnologie che, di fatto, rendono possibile innovare settori tradizionali.

Ruralità 2.0: qualcuno definisce così questo nuovo fenomeno che va oltre l’applicazione delle tecnologie, ma piuttosto riguarda una nuova filosofia di vita. Molte persone hanno capito che l’unica strada percorribile è quella della sostenibilità con la riscoperta delle comunità.

Ne ho parlato con Carlo PetriniFondatore di Slow Food *.

Dopo la rivoluzione industriale c’è stata la rivoluzione informatica. Ora e nel futuro cosa ci sarà?

Di sicuro la rivoluzione informatica continuerà a ridefinire i nostri modi di comunicare e di rapportarci agli altri, in modi che forse non possiamo neanche immaginare.

Pur se ci vorrebbe una sfera di cristallo per prevedere il futuro, io posso dire che colgo una tendenza già in atto, molto forte e diffusa in tutti i Paesi: è quella del ritorno alla terra, alla manualità e alla costruzione di comunità reali e non virtuali, attorno al cibo e ai suoi valori, tanto quelli legati alla qualità ma soprattutto quelli legati all’economia, alla socialità, alla sostenibilità dei processi. Crescono ovunque nuovi modi di consumare il cibo, nuove reti di distribuzione alternative e informali, dirette tra chi produce e chi mangia. La conoscenza del cibo e delle sue ricadute sulla nostra esistenza si diffonde più facilmente e ci sono tutti i presupposti perché nascano nuove generazioni di agricoltori e di consumatori responsabili e consapevoli, in grado di mettere in atto i nuovi paradigmi richiesti da una situazione mondiale molto critica, che segna la stanchezza dei vecchi modelli economici, alimentari e culturali.

Il cuore di tutto ciò, che non so se sarà una rivoluzione, ma di certo sarà un grande cambiamento, sarà senz’altro una nuova focalizzazione sul locale e sul concetto di comunità.

I dati parlano di un ritorno alla Terra: «In Italia si ritorna a una superficie pari a quella raggiunta settant’anni fa, in epoca bellica. Sono ventuno milioni gli hobby farmer che coltivano regolarmente o saltuariamente un orto». Che cosa sta succedendo?

Le persone si rendono conto che il cibo, e quindi parte della propria identità, gli sta sfuggendo di mano. Non ne controllano o conoscono i processi, temono (a ragione) che siano insostenibili e pregiudichino le risorse, dalla terra, dai suoli fertili, un bene comune preziosissimo e mai abbastanza riconosciuto.

Purtroppo mi sembra siano maggiori i problemi legati al consumo di suolo fertile. Dall’osservatorio della rete di “Salviamo il paesaggio, difendiamo i territori” di cui Slow Food fa parte, ci giungono pessime notizie: il consumo di suolo e la cementificazione stanno pregiudicando per sempre porzioni sempre più consistenti dei terreni su cui si può fare agricoltura. Per contro auspichiamo che questo ritorno alla terra sia il più completo possibile e vada un po’ al di là degli hobby farmers, che pur sono importantissimi perché mantengono viva la cultura del cibo. Abbiamo bisogno di nuovi agricoltori, giovani, consapevoli del loro ruolo non soltanto economico ma anche sociale, che siano in grado di orientare il comparto verso qualcosa di più sostenibile, in grado di salvaguardare biodiversità e diversità culturale, che insieme al suolo fertile rappresentano alcune delle più grandi ricchezze che restano all’Italia. Da qui parte la prospettiva futura.

Lei ha affermato che «la tecnologia rappresenta oggi uno strumento indispensabile per chi coltiva la terra». Qual è il rapporto tra tecnologia e agricoltura?

La tecnologia in agricoltura è proprio nelle mani di quei giovani di cui parlavo prima. Una nuova generazione di agricoltori che sa guardare alle pratiche tradizionali, alle tecniche antiche, alla cultura del territorio ma anche a nuove soluzioni per migliorarle, per promuoverle, per renderle accessibili ad altri. Sono loro che sono in grado di disegnare nuovi paradigmi per un’agricoltura davvero moderna, che usa la tecnologia, per essere più sostenibile, più di qualità, più legata alle comunità locali ma in grado di restare in rete con il mondo e le comunità di altri continenti. In questo modo l’agricoltura diventa non soltanto un modo per sfamarci e darci piacere, ma anche elemento di crescita collettiva, mondiale. È come una globalizzazione virtuosa, attenta alle diversità e per nulla omologante.

Può citarmi qualche case history?

Posso citarle il caso di una comunità marocchina che ho visitato personalmente. Abdelouhab El Gasmi di Mhammid El-Ghizlane, città alle porte del deserto a una decina di km dal confine algerino ha fondato con il fratello e la madre, la Cooperative de L’Oasis du Sud che trasforma i datteri di varietà locali in sciroppo (chiamato Rob) e marmellata. Usano vasetti di vetro riciclati e fanno promozione nazionale e internazionale dei loro prodotti. Vivono nel deserto ma i loro prodotti grazie a Facebook e Twitter sono conosciutissimi e venduti in Francia e in Germania. In un luogo dove devono combattere contro la mancanza d’acqua e l’invasione di Punteruolo rosso, l’insetto che uccide le palme da dattero, sono anche riusciti a ottenere finanziamenti per impianti d’irrigazione a goccia a goccia e la creazione di orti al servizio della comunità. Resistono in un posto isolato, dove è difficile fare agricoltura, ma sono in rete e in comunicazione con il mondo.

Slow food è un network internazionale molto complesso in termini di culture, storie, religioni, ecosistemi. Quali sono le analogie con la Rete Internet ed i suoi meccanismi?

Forse l’analogia principale è quella di fondare la propria esistenza e il proprio progresso sulla diversità che contengono. Una diversità lasciata libera di sprigionare tutta la sua energia creativa. Questo è il valore più importante, da cui nascono nuove idee, nuove identità attraverso lo scambio, il dialogo, l’incontro o lo scontro. Solo coltivando la diversità, senza voler porre cappelli ideologici o omologanti, si cresce e ci si evolve, si cambia. Forse noi siamo un po’ più slow d’internet, ma del resto è nei nostri geni. Diamo più valore alla lentezza, al reale piuttosto che al virtuale, a tutto quello che potremmo definire sotto il nome di convivialità, una cosa difficile da praticare davanti a un computer.

Oltre al parere di Petrini ho voluto sentire altri due protagonisti italiani che a vario titolo si stanno adoperando in questo settore.

Gianni Gaggiani – Fondatore della startup Grow The Planet ed Alex Giordano esperto di etnografia digitale

Che cosa sta succedendo in Italia, ritorneremo a essere tutti agricoltori?

Gaggiani – Quello dell’agricoltura è uno dei pochissimi settori, se non l’unico, che in questa lunghissima crisi è andato controtendenza e ha fatto registrare un aumento delle assunzioni pari al 3,6%; il motivo principale è che, con le decine di fabbriche e le attività che chiudono ogni giorno, i disoccupati, per lo più giovani, cercano lavoro laddove è disponibile e in agricoltura c’è ancora richiesta. Non solo: credo che ci sia in atto un cambio di mentalità che spinge molte persone, soprattutto i giovani, a cercare alternative ai classici lavori e queste alternative sono offerte proprio dalla possibilità di lavorare la terra, complice anche un rapporto più consapevole con i problemi ambientali che sono ogni giorno più tangibili; credo che l’incredibile numero di appassionati dell’hobby farmer sia anche e soprattutto figlio di questa nuova sensibilità.

Giordano – I fattori sono tanti, da annoverarsi anche nella crisi dell’economia finanziaria che spinge i giovani verso l’economia reale. Non è un caso che uno dei trend più importanti del contemporaneo è il fenomeno del downshifting, cioè del recuperare uno stile di vita meno frenetico, dedicandosi maggiormente a lavori che permettono di vivere con una qualità di vita migliore, in attesa che scelte individuali diventino moda, capaci di trasformare la nostra società e la nostra rigida divisione del lavoro.

Il downshifter è chi recupera la propria sfera emotiva, privandosi di chances di carriera, successo e denaro per abbracciare lavori quali l’agricoltura o l’artigianato.

Qual è il rapporto tra tecnologia e agricoltura?

Giordano – I giovani che tornano alla terra non sono come i braccianti del secolo scorso. Sono ragazzi pieni di competenze e con una cultura globale. È importante che il ragazzo che torna alle campagne impari a definirsi un imprenditore agricolo e che capisca che deve considerare il frutto del suo lavoro integrato con il territorio e con tutti i suoi pubblici globali e con tutte le tecnologie che possono metterlo in comunicazione con essi. Poi ci sono anche le tecnologie “hard”, con i ragazzi di RuralHub stiamo organizzando dei workshop, dove insegneremo ai futuri contadini come utilizzare Arduino per realizzare apparecchiature utili all’agricoltura.

RuralHub è un gruppo di amici, un network di persone, idee ed esperienze aggregate durante anni di sperimentazione sull’innovazione rurale. Per ora è una rete coordinata da un gruppo di validi e giovani ricercatori come Michele Sica, Gennaro Fontanarosa e Giacomo Bracci, tutti attivissimi sul fronte dell’innovazione rurale. Per il futuro ci riserveranno sorprese bellissime di cui non posso ancora dare anteprima se non quella della Summer School di Societing tutta dedicata al Dowshifting e all’innovazione rurale che si terrà a fine agosto cui siete tutti invitati.

Gaggiani – È inevitabile che anche l’agricoltura benefici dell’evoluzione tecnologica e digitale che sta interessando tutti gli altri settori lavorativi, a patto che questa evoluzione migliori l’impatto di solito devastante che l’agricoltura moderna ha nei confronti dell’ambiente. Ben venga dunque l’agricoltura di precisione con i trattori guidati dal satellite che ottimizzano gli spostamenti e quindi i consumi, o i sensori che fanno partire i trattamenti in maniera mirata e quando davvero necessario, o ancora i sistemi d’irrigazione guidati da complessi sistemi informatici, capaci di razionalizzare il consumo di una risorsa preziosa come l’acqua.

Grow the Planet nasce dalla mia passione per il Regno vegetale e l’ambiente in generale; fin da piccolo mi sono sempre occupato di piante e orto poi, da grande, ho riversato questa passione su un blog chiamato Florablog, dove mi sono fatto le ossa, studiato e capito cosa chiedano in genere gli utenti. Nel frattempo ho maturato un sacco d’idee che poi ho radunato in un unico documento che è diventato la base del progetto Grow the Planet; ho poi sottoposto l’idea a H-Farm alla quale è piaciuta e che mi ha dato la possibilità di trasformarla in una start up.

Antonio Savarese

Napoli, 10 Luglio 2013

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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