Innovazioni e caratteristiche delle startup venture backed

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Rispetto a qualche anno fa, anche nel nostro Paese sono aumentati gli operatori di venture capital e gli investimenti nell’early stage. La crescita dei numeri consente alcune analisi, che possono essere di supporto per i nuovi imprenditori che si avvicinano ad un venture capitalist per un round di finanziamento e per i policy makers che devono mettere in campo politiche per agevolare i processi di investimento in innovazione e nuove tecnologie.

In cosa investono gli operatori di venture capital in Italia? Quali settori prevalgono? Quali le innovazioni e le tecnologie proposte dalle startup venturebacked? Quali le caratteristiche di queste aziende che potrebbero costituire una parte importante dell’industria futura del nostro Paese?

Su queste basi, l’articolo propone un’indagine esplorativa sulle startup che hanno concluso un round A di venture capital, tipicamente tra 1 e 3 mln, nel periodo 2009 – 2013.

I dati sono stati raccolti attraverso i siti web dei fondi, delle startup, da magazine e database on line. Complessivamente, il campione è composto da 65 startup venturebacked ed ha considerato 8 fondi di venture capital operanti nel segmento early stage. Di seguito una sintesi dei risultati.

I settori: prevale l’ICT seguito a distanza da Biotech e Cleantech. Prevalgono ampiamente gli investimenti in startup del settore ICT: circa il 6o% dei casi analizzati. Ovviamente, l’ICT rappresenta una categoria molto ampia e variegata al suo interno: si trovano startup di e-commerce, startup di web advertising, startup che realizzano applicazioni mobile, startup che propongono servizi on line (per la consulenza finanziaria e assicurativa, per l’editoria, per l’informazione, per la musica, per la formazione a distanza, per la scelta di beni di consumo), start-up che sviluppano game, startup che propongono tecnologie software per diversi impieghi industriali (customer relationship management, efficientamento energetico, soluzioni di fluidodinamica, intelligenza artificiale, ecc.).

Seguono gli investimenti in startup biotech, che tuttavia sono sensibilmente meno: nel campione si attestano intorno al 15%. Queste startup propongono diagnostici, soluzioni di drug delivery (veicolazione del farmaco), sviluppo di proteine per impieghi terapeutici, nuove apparecchiature medicali. Altri investimenti – ancora pochi – riguardano le startup in ambito energia ed ambiente (intorno al 11% nel campione). Alcune di queste startup propongono lo sviluppo di nuovi impianti e tecnologie (ad es. per la depurazione delle acque, per lo smaltimento di rifiuti industriali, per la produzione da fonti rinnovabili), altre sfruttano i vantaggi dell’ICT in ambito energia. Infine, qualche altro caso residuale riguarda i nuovi materiali, l’elettronica, l’aerospazio.

Le startup technology push e demand pull. Le startup venture backed, presenti nel campione, possono essere classificate essenzialmente in due tipologie.

Una prima tipologia, technology push, è basata prevalentemente sul valore stand alone della tecnologia. Queste startup propongono un avanzamento rispetto allo stato dell’arte della tecnica (sono i casi, ad esempio, della proteina antitumorale, del software per il trattamento di big data, della tecnologia per il riconoscimento dei tratti facciali, di nuovi impianti industriali, di materiali innovativi).

Una seconda tipologia, demand pull, nella quale le startup non appaiono caratterizzarsi per un valore intrinseco della tecnologia, ma colgono trend emergenti di mercato ed hanno tipicamente co-fondatori con esperienze significative nello stesso settore, prevalentemente internet. Si tratta di numerose startup basate sull’innovazione nei servizi on line, su web advertising, e-commerce, ecc.

La ricerca scientifica: ancora poco valorizzata. I casi di startup proposte da ricercatori universitari per portare al mercato i risultati della ricerca scientifica (i cosiddetti spin-off accademici), partecipate dal venture capital, rappresentano ancora una percentuale relativamente limitata (rispetto al potenziale dei nostri Atenei): circa il 16 % del campione analizzato, con poco più di una decina di casi di spin-off venturebacked rilevati. Nel campione si ritrovano casi su tutto il territorio italiano: da Trieste, alle Università milanesi, fino a Salerno e ad Istituti del CNR in Calabria.

La proprietà intellettuale: un ‘must’ per accedere al VC. La tutela brevettuale della tecnologia rappresenta un elemento fondante in diverse startup. Il 57% delle imprese nel campione possiede, infatti, propri brevetti. Dato che si ritrova in tutti i casi delle startup biotech, nelle startup che propongono nuovi dispositivi ed impianti, ed anche nelle startup che hanno sviluppato tecnologie software che consentono di ottenere peculiari effetti tecnici.

L’esperienza industriale nel team: una garanzia per il VC. Le startup venture backed analizzate sono spesso promosse da soggetti con rilevanti esperienze industriali e professionali nello stesso settore ed ambito di riferimento: circa il 60% dei casi presenti nel campione. Nei team analizzati, infatti, si trovano spesso manager senior. Vi è inoltre un gruppo di start-up che hanno come co-investitori fondi seed, venture incubator, angel investors, i quali sono considerati un indicatore della bontà dell’investimento per un venture da round A. Questo accade per circa il 35% del totale delle start-up nel campione.

Infine, in qualche caso limitato, la startup nasce come gemmazione di un’azienda già esistente (i cosiddetti spin-off industriali), e quindi su iniziativa di alcuni dei suoi dipendenti per valorizzare una nuova tecnologia piuttosto che entrare in uno nuovo mercato. Nel campione, almeno 5 startup sono appunto casi di corporate entrepreneurship.

Considerazioni per startuppers e policy makers. L’indagine proposta non ha ovviamente carattere di esaustività rispetto agli operatori di venture capital ed agli investimenti in start-up in Italia. Tuttavia, i risultati permettono alcune considerazioni:

  • per gli ‘startuppers’ più giovani, farsi affiancare da figure senior con esperienza è visto come una garanzia per un venture capitalist, tanto più nelle startup demand pull;
  • definire un solido portafoglio brevetti (elaborati da professionisti del settore, estesi a livello internazionale) è un must per presentarsi ad un venture capitalist, necessariamente per le start-up technology push;
  • a livello di policy, occorrerebbe incentivare la costituzione di fondi seed specializzati nel supportare i progetti provenienti da settori hard science (cleantech, nuovi materiali, biotech, ecc.), ancora relativamente limitati nel nostro Paese. Tali fondi finanzierebbero la validazione di idee in fase embrionale ed accrescerebbero i progetti eleggibili per un round A (si veda ad esempio, il Biomedical Accelerator Fund dell’Università di Harvard).
  • definire, al contempo, nuove strategie di valorizzazione dei risultati della ricerca scientifica (da cui possono nascere progetti science-based), superando l’effetto moda che bada semplicemente a costituire tanti spin-off (in Italia ne sono censiti circa 1.000), che poi non crescono. Nuove strategie che si basino su un importante coinvolgimento di competenze imprenditoriali nella validazione e finalizzazione industriale dei risultati della ricerca, su uno sviluppo della collaborazione tra ricercatori ed aziende finalizzata alla creazione di impresa. La presenza di team misti – ricerca accademica ed esperienze industriali – consente di evitare che un’eccessiva focalizzazione sulla tecnologia, tipica dei ricercatori, induca a perdere di vista le concrete esigenze del mercato, riducendo quindi l’interesse del venture capitalist.

Se poi l’idea imprenditoriale dimostra potenziale, i tempi per chiudere un round A con un venture capitalist sono relativamente brevi: in circa il 75% dei casi analizzati entro 3 anni dalla costituzione della startup si è registrato il closing dell’operazione, ed in diversi casi anche entro l’anno successivo alla costituzione.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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