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La California siamo noi, noi che veniamo da Timbuktu e non ci arrendiamo mai

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Finiscono tutte nel cielo le strade di San Francisco. Lo capisci che sei ancora in aereo. Se si viene dall’Europa, come è successo a noi, ci si arriva da Nord. E al Golden Gate gli si corre di fianco, sulla destra, con la Marin County alle spalle. Eccola, la Bay Area. Il Golden Gate Park, Ocean Beach. La cicatrice di Market Street in mezzo alla città. Alcatraz, come nelle cartoline. Le barche a vela. Il Financial District. Le gru del porto di Oakland. E in mezzo, il Bay Bridge. Lungo lungo, verso le colline di Berkeley.

Portiamo Timbuktu in California, Francesca e io. Abbiamo vinto Mind the Bridge e andiamo a San Francisco per lanciare la nostra startup. È cominciato tutto nel giugno del 2010, con la vittoria di Working Capital a Bologna per un progetto di magazine digitale per bambini.

Con la borsa di studio facciamo una prima versione beta, lavorandoci di notte e nei pochissimi giorni liberi che ci lasciano i nostri lavori. Vogliamo inventare un nuovo modo di progettare contenuti digitali per bambini e partiamo dallo strumento che ci sembra più naturale per loro, l’iPad. Coinvolgiamo da subito alcuni dei giovani illustratori più talentuosi da ogni parte del mondo (New Delhi, San Francisco, Barcellona, Berlino, Lisbona, Madrid, Tokyo, Milano, Londra). E mettiamo in piedi un team piccolo e appassionato come noi. Samuele Motta è l‘art director, Alberto Sarullo il developer.

Ci piacciono il design, gli aquiloni, l’educazione e le famiglie numerose. Ci piace l’immaginazione come strumento di conoscenza. Ci piace la realtà per il suo potenziale. Ci piace provare nuove cose, e poi Timbuktu suona bene.

Non abbiamo un ufficio naturalmente, e le riunioni le facciamo nei bar e in cucina. La versione beta fa più di ventimila download in tre mesi e iniziamo a convincerci che Timbuktu possa diventare davvero qualcosa di grande. Iniziamo a partecipare a tutti i possibili concorsi per startup e iniziamo a costruire intorno alla nostra idea un modello di business. C’è un incontro in particolare che ci fa fare il salto. Durante la Startup Initiative di Intesa San Paolo nel giugno del 2011 conosciamo Joe Petillon, partner del fondo d’investimento americano Banner Ventures. Si appassiona al nostro progetto e ci insegna tutto passo dopo passo. Impariamo che cos’è una go to market strategy, che cos’è una exit, che cos’è un business model e che cos’è un pitch.

Proviamo centinaia di volte la presentazione. Prima solo io, poi solo Francesca, poi tutte e due insieme sul palco. Arriviamo a Mind the Bridge a novembre e finiamo tra le startup selezionate per il gran finale a San Francisco.

Rita ci viene a prendere alla fermata della BART di North Berkeley. La sua casa è uguale a quella di UP e la nostra stanza è un attico in cui entri da una scala a pioli e una porta sul soffitto. I primi dieci giorni li passiamo lì, che poi per me è un po’ dove è cominciato tutto. Tutte le mattine attraversiamo la baia per andare a San Francisco. Mind the Bridge è in uno dei palazzi più belli del Financial District, a One Market. Dai vetri vedi le macchine sul Bay Bridge che si infilano dentro la città. Ci sono tutte le startup finaliste del concorso (Stereomood, Next Styler, Vinswer, Vivocha, D-Orbit). Ci sono Marco Marinucci e Nicola Allieta ad accoglierci.

C’è uno spazio a disposizione per un mese e un programma che ci aiuterà a preparare il pitch per l’Italian Innovation Day. C’è soprattutto un mentor strepitoso, Christian di Carlo. Ex Google, ora ad Adobe, Christian è un ragazzo americano della nostra età con un MBA della Columbia alle spalle che ci aiuta a lavorare sul nostro business model. I primi giorni sono soprattutto di esplorazione. Il mondo che ruota intorno alle startup a San Francisco è molto diverso da quello che avevo frequentato io da studentessa di Berkeley sei anni fa. Di giorno si lavora e di sera si va alle feste per fare quella cosa sfiancante che qui chiamano networking. Ti presenti a chiunque ti trovi davanti raccontando chi sei e cosa fa la tua startup. È come uno speed dating, solo con tonnellate di biglietti da visita.

Ogni tanto ci allontaniamo dalle serate startupper per riprenderci un po’. Rita ci organizza una festa di benvenuto con gli amici che suonavano con lei in giro per gli Stati Uniti negli anni Sessanta.

Ci viene a prendere alla fermata della BART un tipo buffo coi rasta enormi. Si è imbucato alla festa di Rita e lei lo ha mandato a prenderci. È Jaron Lanier, mi accorgo dopo.

Ma nessuno ci fa caso, quindi facciamo finta anche noi di non riconoscerlo. La casa si riempie di cornamuse, chitarre, fisarmoniche, armoniche e contrabbassi. Nel backyard suonano gli zampognari. Nel porch si balla flamenco. Nel salotto c’è un trio che canta a cappella le canzoni pop degli anni Trenta. Lanier suona il violoncello.

Nel frattempo esce il secondo numero di Timbuktu, The Night Issue. L’invio a Apple lo facciamo dal tavolino di un bar di Stanford con Alberto su skype che in Italia sono le 4 di notte. I download questa volta sono già ottomila nella prima settimana. Dopo due settimane Apple ci inserisce tra le Note and Noteworthy App della categoria Education. E finalmente arriva l’Italian Innovation Day. Scriviamo e riscriviamo la nostra presentazione decine di volte. Aggiustiamo la grafica delle slide con Samuele da Milano. Impariamo a decifrare le financial projections con Christian.

E alla fine vinciamo. A Berkeley, Timbuktu viene ufficialmente nominato 2012 Best Italian Startup.

Dopo qualche giorno ci trasferiamo a San Francisco da Ottavia, e senza saperlo ci ritroviamo nella più bella casa della città. Non ci eravamo mai viste prime, ci eravamo solo scambiate qualche email tramite un mio amico toscano. Dice che la sua casa è un porto di mare, per noi è un film. Anche lei organizza una festa per noi. Facciamo arrivare i cavatelli dalla Puglia e gli zolfini dalla Toscana. Io vado a comprare le cozze all’Embarcadero, Francesca cucina con Danuta. Lew fa il barbecue in terrazza. Conosciamo Brewster Kahle, il fondatore dell’Internet Archive e John Markoff, il giornalista scientifico del New York Times.

La notizia che stavamo aspettando arriva mentre saliamo su un taxi a Menlo Park, appena uscite da un appuntamento con Kleiner Perkins Caufield and Buyers. Christine ci comunica che siamo state prese da 500startups, l’accelerator program di Dave McClure, la rockstar delle startup in questo momento. Il tassista afghano intuisce che è successo qualcosa di grosso e ride. Siamo la prima startup italiana ammessa al programma. E naturalmente stiamo già pensando a come risolvere il problema del visto. Parliamo con due immigration lawyers e decidiamo di anticipare subito il rientro in Italia per avviare le pratiche per un B1. In ventiquattr’ore troviamo casa a Mountain View, facciamo il trasloco e ci buttiamo su un aereo per Milano.

Entrare dentro 500startups significa molte cose. Significa ricevere un investimento da 65mila dollari, significa entrare in uno dei migliori accelerator programs degli Stati Uniti, significa avere accesso a un network di mentor e di investitori da capogiro e significa divertirsi un sacco.

Il programma inizia oggi, ma noi siamo ancora a Milano. Per il visto c’è voluto qualche giorno in più e riusciamo a partire solo venerdì. Pronti?

Elena Favilli

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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