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La democrazia diretta del web non funziona (lezioni dopo Brexit)

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Il referendum britannico a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (noto come Brexit) è stato descritto come “probabilmente il singolo evento più disastroso nella storia britannica dopo la seconda guerra mondiale” (Wolf 24 June 2016). Sono d’accordo. Ma, come si suol dire, “mai sprecare una crisi”, specie se si vuole scoprire cosa è andato storto e cosa invece potrebbe essere evitato in futuro. Da Brexit si possono apprendere una serie di lezioni. Tre di esse sembrano essere particolarmente rilevanti a proposito del rapporto tra democrazia e tecnologie digitali.

Prima lezione

Prima lezione. Si è soliti considerare la democrazia rappresentativa come un compromesso legato a vincoli pratici. La vera democrazia dovrebbe essere quella diretta, basata sulla partecipazione non mediata, costante e universale di tutti i cittadini nelle questioni politiche.

Immaginiamo di vivere in una piccola comunità dove tutti sono a conoscenza dei problemi comuni, tutti partecipano alle discussioni relative a tali problemi, identificano e discutono le opzioni disponibili e le rispettive conseguenze, i vantaggi e gli svantaggi e, infine, immaginiamo che si raggiunga un consenso ragionevole, informato e tollerante sul da farsi, basato sul suffragio universale e dato da una maggioranza di voti individuali: questa sarebbe una vera democrazia. Purtroppo siamo in tanti, anzi in troppi, e la delega del potere politico è una condizione necessaria seppur non quella ideale. Come sostiene John Stuart Mill in maniera abbastanza eloquente:

“[…] il solo governo, che possa soddisfare pienamente tutte le esigenze della vita sociale, è quello cui partecipa il popolo tutto […]quanto di meno si possa desiderare è l’ammissione di tutti a una parte della sovranità.

Ma dato che in una comunità che supera i limiti di una piccola città ognuno non può partecipare che ad una minima parte degli affari politici, ne segue che il tipo ideale di un governo perfetto non può essere che quello rappresentativo.”

(Mill 1861), p. 69.

È il mito della città-stato e di Atene, in particolare. Secondo alcune stime, nel corso del IV secolo a.C. vi erano circa 100.000 persone appartenenti a famiglie di Atene, con circa 30.000 adulti di sesso maschile aventi diritto di voto in assemblea (Thorley 2004). La politica poteva facilmente essere alla portata di tutti.

Tale compromesso è sembrato inevitabile per secoli, fino all’avvento di Internet. I vecchi media “passivi”, in particolare la stampa, la radio e la televisione, hanno accentuato gli aspetti positivi (informazione e dibattito pubblico) e quelli negativi (disinformazione e populismo) della democrazia rappresentativa.

Ma oggi l’interattività online potrebbe fare molto di più che limitarsi a estremizzare il bene e il male, sembra promettere una nuova sorta di agorà, digitale e democratica, che consenta il regolare coinvolgimento diretto di tutti i cittadini interessati. È la stessa promessa fatta dallo strumento del referendum. In entrambi i casi, agli elettori viene chiesto direttamente cosa dovrebbe essere fatto. L’unico compito in mano alla classe politica, amministrativa e tecnica sarebbe quello di attuare la decisione popolare. I politici diventerebbero dei dipendenti pubblici in senso molto letterale. Potrebbe sembrare una buona idea. In realtà non lo è, perché si basa su una confusione pericolosa. Vi spiego.

La democrazia rappresentativa non è un compromesso bensì la migliore forma di democrazia

Oggi ci sono due interpretazioni principali di democrazia. Una è procedurale (vedi ad esempio Schumpeter o Kelsen). In base ad essa

“[un regime democratico è] prima di tutto un insieme di regole procedurali atte a far giungere a decisioni collettive in modo che si favorisca e faciliti la più ampia partecipazione delle parti interessate.”

(Bobbio and Bellamy 1987), p. 19.

L’altra interpretazione, un po’ più popolare in passato, è quella sostanziale e afferma che

“[un regime democratico è] il governo del popolo, dove la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza raggiungono il più alto grado possibile e nel quale le capacità umane sono sviluppate al massimo, mediante la discussione libera e completa di problemi e interessi comuni, tra le altre cose.”

(Pennock 1979), p. 7.

Il proceduralismo si basa sulle regole (da seguire) che definiscono una democrazia; il sostanzialismo invece è basato sui valori (da realizzare) che definiscono una democrazia. Lo spazio logico può sembrare soddisfatto da queste due alternative che danno sia forma sia contenuto, ma vi è una terza possibile interpretazione della democrazia, che vorrei definire strutturale. Secondo tale interpretazione, un regime democratico è quello in cui vi è una separazione netta tra coloro che detengono il potere politico (inteso come sovranità) e possono delegarlo legittimamente ai cittadini tramite il voto, e coloro cui viene delegato tale potere politico, i quali sono in grado di esercitare il loro mandato responsabilmente e per tutto il tempo in cui sono legittimamente autorizzati. Per dirla semplicemente, secondo una visione strutturalista, un regime democratico non è solo un modo di esercitare il potere, ma è prima di tutto un modo di organizzarlo: coloro che detengono il potere non lo esercitano, ma lo delegano a chi lo esercita ma non lo detiene. Dal punto di vista strutturale, dunque, la democrazia rappresentativa non è un compromesso bensì la migliore forma di democrazia; considerarla meno preferibile rispetto alla versione diretta significa confondere, nella gestione del potere, gli aspetti procedurali con quelli strutturali.

Una democrazia rappresentativa è il miglior regime per evitare l’abuso di potere, gestire i rischi e correggere gli errori

Per comprendere la confusione, teniamo conto che dittatura è un qualsiasi regime in cui coloro che detengono il potere lo esercitano legittimando loro stessi. Questa identità tra fonte, legittimazione, ed esercizio del potere politico è pericolosa non perché necessariamente dannosa in sé, ma perché è un meccanismo molto fragile, privo di resilienza, incapace di riprendersi da qualsiasi errore. È questo il motivo per cui i regimi teocratici non hanno bisogno di essere democratici: hanno la pretesa di basarsi su verità assolute e sull’infallibilità. Se Dio è il dittatore, non è necessaria democrazia in quanto non viene fatto nessun errore e, pertanto, non serve alcuna gestione degli errori e dei rischi. Nel mondo reale, gli errori politici si verificano di frequente e ciò è inevitabile, sia a causa della fallibilità e della debolezza umana sia perché la politica si occupa costantemente di nuove incognite e di problemi irrisolti per i quali bisogna trovare nuove soluzioni, spesso sotto la pressione del tempo che passa e delle esigenze contrastanti. Pertanto, anche la forma migliore e più illuminata di dittatura (il dispotismo, secondo Mill) si perde in un sacco di errori. Ma ancora, non è questo il vero problema, piuttosto è molto pericolosa l’incapacità di risolvere tali errori. Ciò non avviene nel caso di una democrazia rappresentativa, in cui coloro che non esercitano il potere politico ma, in ultima analisi, sono la fonte di legittimazione dello stesso, possono più facilmente controllare e correggere il corso delle azioni intraprese da parte di coloro che sono stati eletti. Una democrazia rappresentativa non può definirsi il regime migliore per attuare decisioni politiche di successo, ma è il miglior regime per evitare l’abuso di potere, gestire i rischi e correggere gli errori, perché è più solido e resistente di qualsiasi altro regime, compresa la democrazia diretta.

Di conseguenza, dal punto di vista strutturalista, la separazione tra la sovranità (il potere politico che può essere legittimamente delegato) e il potere decisionale (il potere politico che viene temporaneamente e condizionalmente delegato in modo responsabile e può essere ritirato) è di vitale importanza. Nel corso dei secoli ci siamo resi conto che il modo migliore per raggiungere tale separazione è quello di dare potere a tutte le parti politiche interessate, ovvero, dando il diritto di voto a coloro che “subiscono” l’esercizio del potere politico delegato. Così la sovranità è diluita tra il maggior numero possibile di cittadini, ciascuno dei quali possiede una piccola goccia di esso. In tal modo vi è ancora più capacità di recupero che in una plutocrazia o in un’oligarchia. La speranza è che le milioni di gocce di scelte informate e auto-interessate possano tradursi in delegazione razionale e nel controllo di chi governerà. Chiaramente, maggiore è il numero di gocce e più robusto diventa l’equilibrio.

La democrazia diretta si avvicina molto di più alla dittatura di quanto la democrazia rappresentativa possa mai fare

Il risultato è che coloro in grado di conferire potere, ovvero i cittadini, devono essere in grado di delegare, controllare, criticare e ri-delegare coloro ai quali conferiscono il potere, discutendo e votando liberamente, razionalmente, in maniera tollerante e informativa. È qui che lo strutturalismo e il proceduralismo uniscono le forze. E dovrebbero farlo sulla base di una sorta di “progetto umano”, ovvero su una valutazione di ciò che potrebbe essere definito come buona politica. È qui che lo strutturalismo unisce le forze con il sostanzialismo e con i suoi valori. Ma se la manipolazione dell’aggregazione, soprattutto attraverso i mass media, finisce per addensare le gocce in onde populiste, e se tali onde sono autorizzate a esercitare il potere direttamente, allora si va incontro al gravissimo rischio di finire in una forma di dittatura, la “tirannia della maggioranza” (Adams 1787). La democrazia diretta si avvicina molto di più alla dittatura di quanto la democrazia rappresentativa possa mai fare, perché la sua unica possibilità di non cadere nel fascismo è affidarsi alla natura informata e razionale delle scelte dei cittadini. Si tratta di un idealismo a cui non ci si può affidare. Troppo spesso il risultato ha portato a scelte tragiche e danni irrimediabili: Gesù e Barabba o Brexit, per l’appunto.

Seconda lezione

Questo mi porta alla seconda lezione. Abbiamo appena visto che i cittadini possano svolgere il loro ruolo politico tanto meglio quanto più sono informati. Non solo sui temi in discussione, ma anche sulle persone da eleggere, su quanto queste siano oneste, capaci e degne di fiducia e su come intendono gestire il loro potere delegato per il beneficio della res publica. Le tecnologie digitali dovrebbero essere un grande motore di informazione civica, per farsi un’idea di come stanno le cose, senza ipocrisia, e per smascherare le leadership politiche indegne: tutti i Berlusconi, i Farage, i Johnson, i Le Pen, i Putin e i Trump di questo mondo. Purtroppo non sempre ciò avviene, per dirla in maniera garbata. Certamente non era questo il caso della Gran Bretagna, dove la classe politica, dopo aver delegato di nuovo ai cittadini la decisione politica sull’opportunità di lasciare l’Unione Europea, ha ricorso a demagogia e populismo per influenzarli, contribuendo all’espansione della risonanza sui media senza dialogo o informazioni reali. Una volta fatto l’errore con la scelta a favore di Brexit, nessun politico ha avuto il coraggio di ricordare alla maggior parte, ormai resa tiranna, che la decisione ultima sulla Brexit spettava al parlamento. Tuttora sarebbe ancora possibile ignorare il referendum, non essendo questo giuridicamente vincolante in Gran Bretagna. Ma la classe politica, che si è de-responsabilizzata invocando il referendum, non ha certamente il coraggio di riassumersi la responsabilità ignorandolo.

Terza lezione

Veniamo alla terza lezione. La storia non conosce leggi necessarie. Ma al momento è plausibile che la Gran Bretagna, a un certo punto, si appellerà all’articolo 50 e inizierà il processo per lasciare l’Unione Europea; quindi la Scozia richiederà, e probabilmente vincerà, un nuovo referendum per l’indipendenza e tenterà di avviare il processo di adesione all’Unione Europea come paese indipendente; l’Inghilterra, il Galles e l’Irlanda del Nord saranno forse tutto ciò che rimarrà dell’Impero Britannico, la “Grande Inghilterra”, che avrebbe preferito suicidarsi piuttosto che diventare un “normale” paese europeo. Potrebbe verificarsi una disgregazione ancora più veloce di quella della Jugoslavia.

La politica non dovrebbe essere basata solo sulle politiche economiche (condizione necessaria). Dovrebbe essere guidata principalmente da un progetto umano e sociale

Un modesto vantaggio di un’implosione talmente tragica sarebbe la possibilità di un progetto politico europeo più fattibile. La politica non dovrebbe essere basata solo sulle politiche economiche (condizione necessaria). Dovrebbe essere guidata principalmente da un progetto umano e sociale (condizione sufficiente). L’Unione Europea non può essere fatta solo di leggi, regolamenti, sovvenzioni e fondi, di euro o di un mercato comune. Essa deve essere prima di tutto un progetto di convivenza sociale che apporti un valore aggiunto: stare insieme deve essere meglio che stare da soli. La forma di un tale progetto politico per una futura Unione Europea richiederà una progettazione molto intelligente, ma senza il Regno Unito che cerca disperatamente di premere sul pedale del freno, potrebbe essere finalmente meno difficile mettere insieme il mosaico europeo. E anche in questo caso, le tecnologie digitali saranno essenziali al fine di coinvolgere tutti i cittadini europei nella costruzione di una UE migliore. L’era post-Brexit potrebbe partire da un’”Europa delle reti”.

LUCIANO FLORIDI

Riferimenti

Adams, J. (1787). A defence of the constitutions of government of the United States of America. London, C. Dilly.

Bobbio, N. and R. Bellamy (1987). The future of democracy: a defence of the rules of the game. Cambridge, Polity.

Mill, J. S. (1861). Considerations on representative government. London, Parker, Son, and Bourn.

Pennock, J. R. (1979). Democratic political theory. Princeton, Princeton University Press.

Thorley, J. (2004). Athenian Democracy. London, Routledge.

Wolf, M. (24 June 2016). “Brexit will reconfigure the UK economy.” Financial Times.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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