Una delle peculiarità che rendono Fablab e Makerspace di forte impatto nel contesto sociale cui sono immersi è la loro capacità di trasformare gli individui dal ruolo di passivi utilizzatori a quello attivo di Makers in grado di trovare soluzioni alle proprie necessità, dare concretezza alle proprie intuizioni.
Ciò è possibile da un canto attraverso la valorizzazione di strumenti e materiali locali, dall’altro canto attraverso una conoscenza condivisa globalmente, non per schemi generali imposti dall’alto, ma iterando in maniera continuativa teoria e pratica.
Il percorso di questa trasformazione passa attraverso la capacità di guardare ciò che ci circonda con occhi nuovi perchè, forse per la prima volta, abbiamo provato sulla nostra pelle la felicità che ci coglie quando capiamo come funzionano gli oggetti intorno a noi e riusciamo a risolvere autonomamente delle necessità nostre o di altri, senza per forza indossare l’etichetta degli esperti.
Steven Johnson in un interessante intervento a TED del 2010, con la “traduzione” in fumetti nel video qui sotto, esplora le modalità e i contesti in cui tante piccole idee si trasformano in grandi idee e come facilitare il passaggio dalle prime alle seconde.
L’obiettivo è semplice: capire come si può migliorare l’incidenza di idee rivoluzionarie sarebbe rivoluzionario in sè.
Johnson giunge alla conclusione che le grandi innovazioni maturano lentamente e di solito a partire dall’unione di tante piccole intuizioni, spesso provenienti da persone diverse, che ad un certo punto si coagulano concretizzandosi in un vero e proprio passo avanti, creando una discontinuità molto forte rispetto a quello che c’è stato prima.
Due caratteristiche accomunano la nascita di questi momenti creativi.
Oltre ad un luogo in cui tali intuizioni possano prendere vita con lentezza insieme alle altre, è fondamentale creare dei sistemi perchè queste idee riescano a contaminarsi per diventare più grandi della somma delle loro parti.
Nell’era dell’illuminismo i caffè letterari hanno rappresentato i luogo del suo sviluppo. Ci si incontrava con una modalità diversa dal solito: si parlava di letteratura, si condividevano idee; erano i luoghi in cui finalmente la cultura si è diffusa nelle classi più popolari, uscendo dai confini disegnati da un’elite che fino a quel momento l’aveva mantenuta riservata.
A partire da questa analisi, Johnson considera come fattore determinante per l’enorme sviluppo scientifico fino ai giorni nostri, l’incremento delle connessioni, la possibilità crescente di accedere ad informazioni sul lavoro dei nostri predecessori per combinarlo con le intuizioni del presente, e che ci permettono di trasformarlo in qualcosa di nuovo, e i cui risultati qualcun altro, a sua volta ricombinerà.
Nel nostro Paese quando si parla di innovazione sembra che il problema principale consista nel trovare grandi investimenti per infrastrutture e tecnologie. Ben poco ci si preoccupa di trovare le persone in grado di costruire dei meccanismi per moltiplicare delle relazioni abilitanti, di stimolare la curiosità, di accendere la scintilla negli occhi dei bambini. E’ proprio questa in realtà la vera risorsa scarsa a cui poco si dà attenzione e poco si investe. Si fatica a individuare e valorizzare chi è in grado di mettere in piedi un ecosistema di innovazione dal basso come invece lo sono state, in qualche modo le tre persone di cui voglio raccontarvi oggi.
Arvind Gupta da 30 anni costruisce giocattoli. Ha iniziato la sua carriera come ingegnere elettronico per i camion della TATA , ma presto si è reso ben conto che non era nato per impiegare il tempo in quel modo. Beneficiando di un anno di aspettativa, negli anni ‘70 ha partecipato al programma di rilancio dell’educazione scientifica nei villaggi indiani finanziato dal governo e portato avanti da un biologo molecolare il cui motto era “Va’ incontro alla gente. Vivi con loro, amali. Parti da ciò che conoscono. Costruisci su ciò che hanno.”
Ed è quello a cui Gupta si è dedicato per tutti questi anni: diffondere la scienza nei posti più remoti dell’India a partire dal gioco. In questo ambito è nato il suo progetto più famoso “Toys from Trash” ( Giochi dalla pattumiera). Con un approccio diretto e molto pratico insegna ai bambini i principi dell’ingegneria e della fisica utilizzando oggetti recuperati e materiali di uso comune, utilizzando la pratica come veicolo principale per il passaggio di conoscenza.
Il suo sito raccoglie una serie di video in molte lingue (tranne in italiano) della durata massima di tre minuti in cui imparare, per esempio, a costruirsi una borraccia che mantiene i liquidi freschi:
Oppure un motore senza usare dei magneti:
Se la teoria fornisce una comprensione dei principi, imparare facendo rappresenta per Gupta un “sentire” fisico del principio, permette una maggiore comprensione e una predisposizione all’azione. Inoltre la gioia provata nel costruire un giocattolo è molto più coinvolgente e consente di acquisire una conoscenza che cresce organicamente senza un percorso predefinito all’origine.
Nello stesso ambito si muove il progetto che prende piede in Sierra Leone intitolato Innovate Salone, un programma di supporto per introdurre nelle scuole secondarie le metodologie del Design Thinking e il Problem Solving usando risorse e materiali locali.
Anche qui l’approccio non consiste nel calare conoscenze e soluzioni dall’alto, ma di attivare dei meccanismi per far maturare quello che già esiste.
Lo scopo principale è coltivare una generazione di giovani in grado di sviluppare soluzioni innovative di forte impatto sulle loro comunità. Con il supporto di mentors internazionali, un camp per la condivisione di idee e la selezione dei progetti che poi si tradurranno in prototipi funzionanti a tutti gli effetti, il progetto potenzia le capacità di azione di talenti locali e la loro forza trasformativa autonoma.
Uno dei protagonisti di questo percorso è stato il quindicenne Kelvin Doe, un mago dell’ingegneria autodidatta, sempre alla ricerca di componenti gettati via da altri per costruire batterie, generatori e trasmettitori. Durante il Salone ha presentato un progetto per la costruzione di una stazione radio per trasmettere notizie e musica, ma soprattutto per attivare un dibattito pubblico e condiviso nella sua comunità. A prima vista sembrerebbe una cosa semplice, in realtà i vincoli da superare sono diversi: per esempio nel suo paese l’energia elettrica è attiva solo una volta alla settimana.
Nel video qui sopra viene raccontata la sua storia e come nell’ottobre scorso, proprio grazie alla sua curiosità e intraprendenza sia diventata , la persona più giovane della storia ad essere invitato al Programma di Visiting presso il MIT di Boston.
Ma non è necessario andare in India o in Africa per trovare delle storie interessanti come queste e l’attenzione alle persone e alle relazioni passa anche attraverso delle scelte ancora più semplici. La storia con cui voglio concludere questo articolo è ambientata negli Stati Uniti alla Bronx High School of Science.
E’ una scuola superiore pubblica che attrae studenti talentuosi da tutta la città di New York e ogni anno partecipa alle gare di robotica in cui team composti da studenti di varie classi si sfidano nel costruire robot programmati per sfidarsi in prove di agilità. Ancora una volta secondo un approccio “hands-on”, sporcandosi le mani il prima possibile.
Fino a qualche anno fa i team che partecipavano a queste competizioni, erano sì misti, ma le ragazze che vi prendevano parte si occupavano principalmente di attività secondarie, tipo il recupero di materiali, la grafica delle magliette, la raccolta fondi e non della creazione vera e propria del robot.
La scorsa primavera è stato prodotto un documentario per ripercorrere le gesta delle Iron Maidens, uno dei team di sole ragazze nato nel 2006 e che nel 2011 si è aggiudicato il primo posto in una delle maggiori competizioni nazionali.
Il documentario, visibile integramente nel riquadro qui sotto, ci mostra di nuovo come l’approccio pratico, il passare molto velocemente dalla teoria alla pratica, creino delle dinamiche di crescita, impegno e collaborazione altrimenti irrealizzabili.
Ci mostra anche come il cambiamento sostanziale di abitudini culturali sia realizzabile non attraverso scelte burocratiche, come le quote rosa, ma dipenda dall’azione positiva di persone chiave. Per esempio, la scelta che ha fatto la preside della scuola del Bronx di inserire un ingegnere donna come docente, che è diventata presto un role model grazie al suo lavoro precedente, di progettazione di mainframe all’IBM e soprattutto di consapevolezza maturata nel lavoro di team a maggioranza maschile. Quindi un essere umano con un percorso insolito, adatto al contesto e in grado di rispondere alle sollecitazioni delle studentesse.
E se Neil Gershenfeld ci ricorda che “La vera forza dei fab lab non è la tecnica; è la socialità”, questi esempi ci insegnano che la vera forza dell’innovazione sono le persone e i contesti in cui sono immersi.
ZOE ROMANO
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