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La fregatura delle automobili intelligenti ma intoccabili (e altri esempi da liberare subito)

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State mica pensando di comprarvi uno scintillante SUV della General Motors? Beh, forse conviene pensarci su due volte. Non solo per via dell’investimento cospicuo e importante (dai 50.000 dollari in su), ma anche perché non potremo mai riparare, modificare o toccare in alcun modo il software che ne gestisce praticamente tutte le funzioni. E ciò grazie alla Sezione 1201 del notorio Digital Millennium Copyright Act che in Usa impone vincoli precisi a tutela di ogni software proprietario.

Almeno questo hanno sostenuto legali della mega-corporation di Detroit la settimana scorsa a Los Angeles, nel corso di un’audizione tenuta dal Copyright Office per approvare o meno le eventuali eccezioni alle attuali normative sul diritto d’autore. Inclusa l’opzione per meccanici indipendenti e legittimi proprietari di mettere liberamente mano agli ingranaggi informatici degli autoveicoli odierni (e ancor più di domani, con l’avvento di auto senza guidatore, taxi-robot e quant’altro vanno pianificando Google, Uber & company).

Kitt, l’auto protagonista (con Michael Knight interpretato da David Hasselhoff) della serie tv “Supercar”

Certo, oggi non si tratta più delle “macchine di una volta”, bensì di piccoli ma sofisticati mobile computing network, dove funzioni cruciali come accelerazione, freni e manovre sono letteralmente guidate dalle stringhe di codice su cui gira il computer centrale. Non a caso i nuovi modelli della GM includono circa 30 unità di controllo elettronico. Da notare al riguardo una notizia fresca e non priva di una certa ironia: il sistema di (presunto) self-parking dei nuovi modelli Volvo richiede un pacchetto software aggiuntivo di 3.000 dollari per funzionare adeguatamente, cioè senza investire gli ignari osservatori, come succede invece in questo video pubblicato su un blog della Repubblica Dominicana).

Comunque sia, è ridicolo sostenere che, in mancanza di autorizzazione per accedere a questo software, le riparazioni in proprio diventano illegali. E neppure tiene la scusa è simili interventi “esterni” potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza del veicolo e causare poi rotture o incidenti imprevisti.

Senza contare i danni all’innovazione e all’occupazione, dato che più di qualche officina indipendente sarà costretta a chiudere.

Intanto gli avvocati ribadiscono che, pur se normalmente la GM richiede all’acquirente di sottoscrivere un contratto di licenza per il sistema di navigazione e d’infotainment OnStar, sarebbe impossibile fare lo stesso per ciascun software. Quindi il principio della sola licenza d’uso per l’acquirente va obbligatoriamente esteso al sistema computerizzato dell’intera autovettura. Punto e basta.

Posizione praticamente analoga a quella del gigante delle macchine agricole, la John Deere, la quale asserisce diritti a vita sul software installato sui suoi trattori.

Ogni alterazione del software renderebbe possibile a «pirati, sviluppatori esterni, concorrenti meno innovativi di trarre vantaggio dalla creatività, dall’espressione unica e dalla genialità specifica del software dei nostri veicoli», recita fra l’altro la documentazione presentata allo stesso Copyright Office.

Ma quest’arrogante affermazione dei diritti proprietari (ben oltre il codice informatico) non è forse una storia già sentita? Basti ricordare il monopolio del sistema operativo Microsoft a partire da metà ’80 sui personal computer di tutto il mondo. Oppure i lucchetti inossidabili che caratterizzano i gadget della nostra vita quotidiana – tablet, lettori di ebook, smartphone, ecc.. Senza dimenticare le limitazioni imposte alla condivisione di cultura e conoscenza dalle opzioni del Digital Rights Management spesso integrate nei prodotti elettronici d’uso comune legati ai suddetti device (ebook, file MP3, video-game, ecc.). E, tanto per fare un altro esempio, solo pochi anni fa Amazon non ci pensò due volte a far sparire da remoto l’edizione digitale di un titolo (guarda caso) di George Orwell, Animal Farm, dai Kindle di utenti che lo avevano regolarmente acquistato sul suo store, sempre per motivi di copyright.

Partita persa, dunque, per i cittadini interessati a pratiche di sharing e per i maker indipendenti? No, tutt’altro.

A fronte della rampante opera di recinzione condotta dal mercato, in ogni parte del globo va emergendo una ragguardevole serie di modelli arditi e innovativi – a riprova del fatto che oggi il potere va sconfitto principalmente nella sua manifestazione “corporate”.

OPEN KNOWLEDGE

Rispetto al caso specifico di GM e John Deere, organizzazioni come la Electronic Frontier Foundation, la Intellectual Property & Technology Law Clinic, e la Digital Right to Repair Coalition sono già impegnate a tutelare la libertà dei cittadini di accedere, riparare e modificare il software degli autoveicoli veicoli acquistati, con o senza la benedizione del produttore. Online circolano inviti pubblici a protestare con il Copyright Office, a sollecitare i legislatori a sostenere proposte di legge come l’Unlocking Technology Act e il Your Own Devices Act, oltre a specifiche normative che garantiscano il Fair Repair per tutti. E Kyle Wiens, fondatore di ifixit.com, sito di riparazioni automobilistiche in stile do-it-yourself, è convinto che prima o poi i consumatori si opporranno con forza a queste tattiche industriali.

Come all’alba degli anni ’90 a fungere da apripista contro le enclosure proprietarie di cui sopra era stato il movimento del software libero promosso da Richard Stallman, ancora una volta è il magma digitale a stimolare quest’ondata inarrestabile di attivismo. La quale, per citare solo alcuni casi importanti, qualche mese fa ha costretto le autorità Usa riaffermare il pieno sostegno della Net Neutrality, in opposizione alle spinte protezioniste dei grandi carrier. E nel 2011 ha portato alla bocciatura dell’ennesima normativa “anti-pirateria” voluta da Hollywood e dalle major discografiche – il SOPA/PIPA, Stop Online Piracy Act e Protect IP Act. Una campagna che, va ricordato, deve molto al programmatore-attivista Aaron Swartz, il quale poi passò a “liberare” il database proprietario di sentenze giuridiche Pacer, gettando così le basi per progetti di riforma di ampio respiro come Demand Progress o public.resource.org.

IL CASO JURISWIKI

Battaglie queste che hanno visto analoghi corrispettivi (e successi) in molti Paesi, inclusa l’Italia con JurisWiki, la piattaforma condivisa per l’informazione giuridica (sentenze e relativi commenti) lanciata recentemente da Simone Aliprandi e basato sugli open data, con gli inevitabili strascichi di cui è si è discusso parecchio su questa testata.

Non sorprende perciò che sia ancora la cultura globale di internet a immaginare e costruire spazi condivisi per il cambiamento, mettendo in luce le colossali e inquietanti disfunzioni dell’industria e della governance neoliberiste.

L’ECOSISTEMA DEI COMMONS

Si tratta del variegato universo dei commons, che vede in prima fila progetti come FarmHack, comunità globale open-source per l’agricoltura sostenibile, oppure il Global Village Construction Set, piattaforma aperta e condivisa per produrre in maniera semplice ed economica 50 differenti macchinari industriali per costruire un piccolo villaggio con tutti i comfort moderni. Ancora, la rete dell’Open Source Ecology sta mettendo a punto attrezzature agricole condivisibili e a basso costo per comunità autosufficienti, come LifeTrac, un trattore multi-uso e open source con componenti modulari, economici, facili da assemblare e mantenere – tutti elementi non proprietari. E poi c’è Wiki-speed, start-up di Seattle con un migliaio di collaboratori sparsi in 20 Paesi, che sta usando i principi dell’open source per mettere a punto una macchina da corsa modulare, leggerissima e dai consumi irrisori, che ha già partecipato alle prime gare e ottenuto vari riconoscimenti.

Un movimento in cui non mancano le strutture più teoriche, come la P2P Foundation a cui collaborano studiosi e accademici di ogni parte del mondo, le pianificazioni localizzate proposte dalla Commons Transition oppure eventi come la Oui Share Fest, che la settimana scorsa ha radunato a Parigi migliaia di animatori dell’economia collaborativa – espressione e pratica ben più azzeccata di una “sharing economy” che nasconde aspetti ambigui e top-down.

Tutto questo per dire che, inquadrando nel giusto contesto le uscite di GM e John Deere, queste si rivelano per quello che sono: i colpi di coda di un sistema economico-industriale che fa acqua da tutte le parti.

A fronte degli ennesimi tentativi di privatizzazione dei beni condivisi – tra cui software e open data, ma anche acqua, terra, biodiversità, opere creative, spazi pubblici e culture indigene – tanti cittadini e attivisti replicano con una ragguardevole serie di modelli arditi e innovativi a livello locale. Dagli autoveicoli intelligenti ma intoccabili ai device digitali lucchettati, dalle arroganti imposizioni delle multinazionali alle smart cities del prossimo futuro è in gioco innanzitutto la tutela delle libertà individuali e l’affermazione di spazi condivisi per il cambiamento.

Non si tratta certo di un sogno ideologico né di una fantasia utopica, bensì di un fenomeno inarrestabile e articolato che in ogni parte del globo raccoglie gruppi e individui determinati a creare alternative funzionali contro ogni tipo di recinzioni e limitazioni (destinate comunque a fallire).

BERNARDO PARRELLASanta Fe, New Mexico (USA), 9 giugno 2015

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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