Oggi è successo ad una conferenza stampa con Sebastian Coe, il gran capo del comitato organizzatore di Londra 2012, Olimpiadi e Paralimpiadi insieme. Si parlava di quel successo superiore a ogni previsione che è stato il lavoro dei volontari, ovvero si parlava di 250mila persone, molte italiane, che si sono candidate sperando di essere tra i 70mila selezionati. Persone di ogni età e di varie professionalità. Un volontario ha confessato quello che avrebbe confessato chiunque di loro: “Oggi sono triste perché è il mio ultimo giorno, vorrei restare qui domani, e dopodomani ancora. Sempre“.
Non è solo la magia olimpica, è una società, e il discorso riguarda pure la nostra – non quella inglese – che si accorge che tanti discorsi sulla Big Society sono inutili se calati dall’alto.
Mentre diventano una svolta che tutti apprezzano quando sono realizzati dal basso. La Big Society sono i cittadini che si prendono un ruolo e che non aspettano di essere munti, con tasse, divieti, obblighi. La Big Society è lo sport, non solo quello felice delle Olimpiadi, lo sport di tutti i giorni, che si regge appunto sui volontari. Lo sport che, ha sottolineato giustamente sempre oggi Johan Cruyf, non è un’attività legata al tempo libero. Piuttosto, si tratta di tempo utile.
Chissà cosa resterà di questi dibattiti a braciere spento, ma è evidente che ogni tanto un pensierino a casa, al ritorno alla normalità che adesso ci spaventa si fa. C’è pure un volume dell’Inail distribuito a Casa Italia – che durante le Paralimpiadi si chiama EccezionalItalia, un gioco di parole chiaro ma forse troppo ardito per essere comprensibile a tutti – che si intitola “Going back home“.
Non si tratta solo del viaggio di ritorno per atleti arrivati qui a ogni parte del mondo, il tema è ovviamente il ritorno a casa, ovvero alla normalità dei disabili.
Di nuovo emerge il fatto che il pubblico che riempie tutti gli impianti è in realtà una folla tutt’altro che anonima. Non urla solo per gli atleti, urla per reclamare un ruolo suo, dice che la normalità è un dato che nessuno mette più in discussione. Bello, ad esempio, pensare che proprio grazie allo sport – nel caso specifico la maratona – una città come Venezia diventi accessibile perché i ponti che devono essere praticabili per gli atleti diventano finalmente passerella anche per le carrozzine, per chi cammina con le protesi. E poi?
Going back home elenca una serie di best practice per la vita domestica, per il ritorno al lavoro, per l’inizio dell’attività sportiva.
La prima edizione del volume, a metà anni 90, fotografava un’Europa e un’Italia che erano ancora agli esordi nel considerare la social security non solo come esempio di assistenza sociale ma, piuttosto, come perno di un programma più ampio. L’edizione di oggi è il risultato di un lavoro di squadra in cui gli esperti sono complementari ai cittadini che hanno dovuto sperimentare e sperimentano la disabilità .
Insomma, si torna sempre a casa, ma con speranze nuove, con la consapevolezza che appunto il ritorno può essere una nuova partenza. E il linguaggio crudo della crisi invece che essere un ostacolo può essere, in questo caso, un aiuto: un disabile non assistito nel suo recupero è un costo per la sua famiglia ed è un costo per la società: difficile stabilire quale sia il conto più salato da pagare. Un disabile coinvolto nel proprio reinserimento è in realtà una risorsa, un tesoro per la collettività .
Il Centro Protesi di Vigorso di Budrio dell’Inail non è solo il box dove si ritirano protesi, ma è un posto dove si impara la nuova cittadinanza che riguarda i disabili, dove si è aiutati nella ricerca di un lavoro. E questa attenzione la ritrovi ovunque, come nel modello di mano di ultimissima generazione, realizzato in realtà da Otto Bock, che si chiama Michelangelo, come a ricordare il livello di raffinatezza a cui si è arrivati. Raffinatezza anche emotiva.
Sono i pensieri di un giorno felice in cui l’unica tristezza è questa: prima o poi un sipario su questa recita calerà.
Perché il bello delle Paralimpiadi è lo stesso delle Olimpiadi: capitano ogni quattro anni. Ma stavolta è un bel sollievo pensare che ci lasceranno in eredità la consapevolezza di un ruolo nuovo che lo sport si è meritato e che adesso deve imparare a interpretare. “Going back home“: non dovremo più chiederci che cosa la società può fare per lo sport, ma cosa lo sport può fare per la società . È un bel pensiero, è la nascita della Big Society che Coe, Cruyf e altri loro compagni di squadra sono pronti a far decollare tenendo stretto il timone per non lasciarlo ad altri.
“In fin dei conti – ha detto ancora Cruyf, che segue le Paralimpiadi dal 1992, e che adesso gira il mondo per realizzare impianti di base e corsi scolastici e universitari per la sua fondazione – “si tratta di educazione fisica. Di rispettare e conoscere il corpo con cui sei nato, il corpo con cui morirai: bisogna tenerne conto. Abbiamo trascurato il problema per tanti, troppi anni. Adesso finalmente stiamo correggendo l’errore, stiamo tornando a occuparci di educazione fisica. E chiedere alla gente di sport di occuparsi di certi eventi non è uno sbaglio, è una mossa vincente: conoscono già l’ambiente“.