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La moda delle startup e l’importanza di sbagliare ( e dirlo)

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Da mesi si sente parlare pressoché in ogni dove di startup. Quasi che gli startupper italiani possano essere dei taumaturghi in grado di sanare le piaghe del nostro malandato sistema produttivo. Il dibattito, come spesso accade, non è immune da un certo tasso di superficialità e di provincialismo con cui una parte dell’informazione, quella più mainstream, e la politica affrontano la questione.

Se fino a ieri era tutto cloud o social, oggi è startup. Sappiamo bene, però, che trasferire sic et simpliciter modelli produttivi in un contesto diverso, sociale ed economico, è un’idea spesso illusoria, a volte fallimentare.

Non c’è dubbio che all’Italia negli ultimi anni sia mancata una visione strategica, sostituita, al contrario, da una prospettiva prettamente imitativa.

Il problema dell’innovazione in Italia non si risolve aggiungendo ad un nostro distretto il suffisso “Valley”.

Il movimento che si è creato attorno alle startup è assolutamente salutare, una ventata di aria fresca, e andrebbe trattato con maggior riguardo e profondità. Dietro molte di queste esperienze si “nascondono” cervelli che hanno deciso di non”fuggire”, ma di scommettere ostinatamente sulle possibilità del Paese.

Qualche giorno fa, ho presentato, insieme agli autori, Tech and the City, un modello per l’Italia: un interessante racconto di Maria Teresa Cometto e Alessandro Piol sulla New York delle startup innovative. Ecco, il libro, piuttosto che offrire linee guida, ci restituisce una serie di intuizioni e suggestioni che sarebbe opportuno incorporare nella ricerca della nostra via all’innovazione.

In primo luogo, Cometto e Piol insistono sull’importanza di un’amministrazione attenta e visionaria, che sappia essere, allo stesso tempo, non invadente.

Far sì che le imprese tech e creative possano effettivamente partire, magari offrendo loro luoghi marginali della città, e poi misurarne la forza sul mercato. Cosi si è caratterizzata l’esperienza di Bloomberg dopo i due “crolli” di New York, quello tragico dell’11 settembre e quello del NASDAQ. Quante risorse, invece, sono state dissipate nella moltiplicazione degli incubatori in Italia in questi anni?

Un secondo elemento è dato dalla capacità di un contesto urbano di attirare la creative class: il settore più avanzato e dinamico dei lavoratori della conoscenza. Quante sono le città italiane in grado di competere con successo con New York o Londra nella concorrenza internazionale dei saperi?

C’è poi il tema del sistema dell’alta formazione in grado di accompagnare tutto ciò.

Sarà in grado la nuova “Politica del Cambiamento” di rinunciare alle tentazioni particolaristiche e fare sistema per costruire un clima favorevole all’innovazione, alla creatività e allo spirito imprenditoriale?

A fine marzo il Ministro Profumo ha lanciato la Social Innovation Agenda, una piattaforma che nasce proprio con lo scopo di costruire le basi politico-istituzionali per creare terreno fertile per l’innovazione sociale e le startup.

Nonostante la crisi, o forse grazie alla crisi, le buone idee sembrano moltiplicarsi e con esse, pare, si stiano disegnando strumenti più adeguati.

Un esempio? I 25 milioni stanziati per finanziare i 40 progetti selezionati durante il 2012, nell’ambito del bando Social Innovation Nazionale. Ideati da giovani con meno di 30 anni, sono progetti che hanno lo scopo di risolvere problemi sociali legati al territorio.

Un atro esempio? Proprio il camper delle primarie, oggi colorato e trasformato in Barcamper. Lo abbiamo visto partire il 21 Marzo da Roma, e lo seguiamo proprio tra i post, nel suo viaggio verso 1000 startuppers italiane, per selezionarne 100 da far incontrare con investitori pronti a rischiare su nuove idee.

L’Italia, come sappiamo, è spesso restia ad abbandonare le sue certezze, dobbiamo invece assicurarci, al di la delle mode, che si affermi l’idea che la nuova generazione, ricca di talento e saperi, possa cambiare il modo stesso di intendere il mercato attraverso l’innovazione, coltivando il valore dell’imprenditorialità e di una finanza creativa, non speculativa e capace, invece, di rischiare.

Gli investimenti, ed in particolare quelli del settore venture, si basano sulla premessa che alcuni di essi falliranno. Negli Stati Uniti nessuno si scandalizza se un investimento non va a buon fine. Ecco, in Italia occorre affermare la cultura della “second chance”. Per qualche ragione in Italia non c’è tolleranza nei confronti dell’errore e del fallimento e non c’è ammirazione e apprezzamento per chi comunque “ci riprova”.

Questo è tanto più vero nelle imprese sociali. Così, non solo gli investitori non raccolgono il rischio di scommettere sull’imprenditore sociale, ma quest’ultimo teme di fare il passo più lungo della gamba. E questo non giova certo all’innovazione nel suo complesso.

Non è un problema solo del nostro Paese: la paura di rischiare nella dimensione sociale è denunciata anche all’estero. Lo stesso Ronald Cohen, il padre “big society capital” in un recente post su Harvard blog, ha stigmatizzato l’eccessiva prudenza del settore sociale.

Eppure, all’estero almeno, non hanno timore nel socializzare gli errori e far tesoro di queste esperienze. Secondo la Stanford Social Innovation Review ci sono cinque modi per “imparare dal peggio”.

Primo: definire con precisione l’obiettivo prefissato, altrimenti sarà difficile valutarne l’esito. Secondo: modificare le tecniche di monitoraggio in itinere. Terzo: resistere alla tentazione di voler vedere tutto in ottica bianco o nero. Quarto: mantenere una spazio di lavoro apposito per “progetti non chiari”, definito come spazio per l’insuccesso di qualità. Quinto, e per noi italiani forse il più difficile da praticare, parlare apertamente dei propri insuccessi.

Lo possiamo fare? Possiamo coinvolgere l’amministrazione pubblica, creare sistema e comunicare il rischio di innovare anche nella dimensione sociale, partendo dai nostri errori? La parte più giovane e creativa del Paese sta mostrando tutta la voglia di lanciarsi in questa direzione. Un nuovo modello si sviluppo come critica al capitalismo che ci ha portato alla grande recessione.

Speriamo davvero che nel prossimo governo vi siano interlocutori attenti a queste sfide.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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