La spettacolarizzazione del reale è un dato di fatto, a cui ormai siamo abituati. La società dello spettacolo – come l’ha definita Guy Debord – è tutta attorno a noi – come recitava Megan Gale. Questo crea idiosincrasie mica da poco, sovrapponendo e mettendo quasi sullo stesso piano la cronaca nera, la violenza contro le donne, la politica, il gossip, le bestie feroci che si ribellano contro gli uomini, il terrorismo. Tutto diventa show. Tutto diventa racconto. Tutto viene frullato ed enfatizzato. Tutto viene buttato fuori e dichiarato con toni accesi e spesso pericolosi, che giudicano e posizionano, ma quasi mai analizzano.
IL CASO GOLPE
Un esempio recente. Quando i militari hanno messo sotto scacco il governo di Ankara, immediatamente molti media italiani hanno annunciato sicuri che c’era stato un colpo di stato e detto che Erdogan era stato arrestato.
Entrambe le affermazioni si sono poi rivelate essere parziali, nell’arco di poche ore. Sul fact checking e sulla cautela che sarebbero stati necessari nel riportare una notizia così importante, ha prevalso l’esigenza di annunciare l’evento subito, per primi, con forza e con toni pesanti. Non pensando che il terrore non andrebbe combattuto terrorizzando, ma anzi aiutando a capire, generando conoscenza, diffondendo messaggi di coesione, unità, senso di appartenenza e di accettazione (non è impossibile: ci riesce benissimo il nuovo Star Trek, ad esempio).
Tutti gridano in modo iper rapido le informazioni senza approfondirle, verificarle, spiegarle, contestualizzarle
Eppure, questo tipo di approccio sensazionalistico, iper rapido e sostanzialmente superficiale è purtroppo la prassi di gran parte dei media outlet che ogni giorno ci foraggiano di notizie.
Anche al di là del dramma degli attacchi dell’ISIS. Lo stesso paradigma lo ritroviamo quando si parla di omicidi, di eventi cruenti e di violenza (sempre di orrore si tratta). Non solo. Il metodo parrebbe essere lo stesso anche quando ad essere affrontati sono eventi molto più mondani: separazioni di coppie celebri, gravidanze inaspettate, ultime notizie dal mondo dei reali d’Europa.
FINITI NEL LOOP
Tutti gridano in modo iper rapido le informazioni senza approfondirle, verificarle, spiegarle, contestualizzarle e sostituendole con “altro” dopo che non sono più così fresche. Ovviamente, questo meccanismo si presta a travisamenti e amplificazioni da parte degli spettatori/utenti/consumatori, incastrati in un loop in cui le informazioni vengono buttate a getto continuo, senza più soluzione di continuità, senza più spazio per la riflessione.
Un cortocircuito in cui bisogna essere pronti a replicare e a dire la nostra, per dimostrare di essere sul pezzo e di avere un’opinione. Sempre.
I mass media gettano l’amo (Jennifer Aniston è incinta! Leslie Jones abbandona Twitter! Johnny Depp picchia la moglie! Un gorilla ha cercato di uccidere un bambino e quindi è stato amazzato! Kim Kardashian posta un selfie nuda insieme a Emily Ratajkowski!) e il popolo della rete lo raccoglie. Scatenando l’inferno.
Che poi i fatti siano veri o costruiti ad hoc, che siano più profondi di quello che sembrano o che offendano la persona di cui parlano, poco importa. Che la notizia e il clamore attorno ad essa durino pochi giorni (o poche ore), pure.
SOCIAL BAR
Dopotutto, i social network sono la versione post moderna del bar di quartiere, quello dove in viva voce si commentavano cronaca, sport e notizie frivole. Diventando tutti improvvisamente esperti. Oppure sostenendo “a parole” una causa. O magari anche urlando insulti contro qualcuno o qualcosa. La stessa cosa avviene oggi, su Facebook e su Twitter. In questi nuovi luoghi di scambio gli effetti sono però molto più pericolosi. Perchè non restano confinati tra le quattro mura di un caffè, ma anzi vengono liberati sulla pubblica piazza digitale, generando botta-e-risposta parossistici, e prese di posizioni tanto immediate quanto potenzialmente pericolose.
Siamo poco a poco diventati tutti promotori di un nuovo mindset che elimina del tutto il momento del ragionamento
Sui social abbiamo assistitito al progressivo e irreversibile insediarsi di un nuovo modo di esprimere opinioni, concetti, endorsement, critiche. Dai processi cognitivi che vedevano il pensiero (think) al centro (see– feel – think – do o see – think – feel – do) e che lasciavano dunque “decantare” un minimo la prima reazione, evitando di fare uscire un pensiero non elaborato e senza filtri; siamo poco a poco diventati tutti promotori di un nuovo mindset che elimina del tutto il momento del ragionamento (see – feel – do). E che, prediligendo l’impulsività di pancia all’elaborazione complessa di una sensazione o di un sentimento, scatena un rantolo di reazioni verbali. Un vortice di parole e feedback in cui solo perchè gli utenti possono dire ciò che pensano, dicono ciò che pensano per davvero, in alcuni casi senza preoccuparsi di prima accendere il cervello.
IL CASO LESLIE JONES
Gli insulti a Leslie Jones (una delle quattro protagoniste dell’ultimo Ghostbuster) sono la prova di come si possa far del male armati anche solo di una tastiera QWERTY, nascondendosi dietro al “Primo Emendamento” della Costituzione Americana (che sancisce la libertà di espressione). Pure se, come ben sottolinea Jones nella sua intervista con Seth Meyers, “Hate Speech and Freedom of Speech are two different things”. E infatti Jack Dorsey in persona ha chiesto scusa all’attrice ed è intervenuto per sanare la situazione.
Oltre a chi attacca e insulta, c’è poi chi, al contrario, è convinto che si possa davvero fare qualcosa di buono e di utile, semplicemente attraverso un social share.
In America li chiamano slacktivists, ovvero attivisti “pigri”. Individui convinti che si possa cambiare il mondo sdraiati sul proprio divano e armati di smartphone. Mentre invece la vera, radicale e potente funzione dei social è il loro essere strumenti accessori potenzialmente fondamentali nel raccontare la realtà dal basso e dal vivo. Il che comporta scendere in piazza, e dunque essere attivisti veri, di quelli che si rimboccano le maniche e lottano sul serio.
Reuters
WE ARE ORLANDO, MA POI…
Eppure, molti degli utenti del web (soprattutto quelli caucasici, dall’alto del loro white privilege) pensano che si possa partecipare al cordoglio di momenti di dramma collettivo come gli attacchi a Nizza o a Kabul o gli spari insensati contro gli African American in tante città degli Stati Uniti semplicemente con memi, fotografie, hashtag. Chiaramente il sentimento qui è sicuramente positivo e le intenzioni ottime, ma il risultato è di nuovo incredibilmente superficiale.
La naivetè con cui si pensa di “far qualcosa” volgendo per due giorni la propria foto profilo su Facebook con un filtro che recita “We are Orlando”, per poi cambiarla qualche giorno dopo con una che dice “Forza Azzurri”, lascia abbastanza di sasso.
È evidente infatti che le due cose non sono e non dovrebbero stare sullo stesso piano. Eppure, per qualche strana ragione, nel mondo distorto dei social lo sono.
Non basta condividere una foto in cui si “Prega per la Pace” o in cui si celebra il #LoveWins
La #IceBucketChallenge (che in efftti ha aumentato la awareness rispetto alla SLA permettendo di raccogliere tantissime donazioni, garantendo un effettivo progresso nella ricerca scientifica) è un caso isolato. E comunque ha funzionato perchè era la realtà vera e pensata a prevalere sul semplice share di video divertenti. Stessa cosa per i movimenti come #BlackLivesMatter, in cui la parte online amplifica l’impegno concreto e reale di tante persone che scendono in strada e protestano. Sul serio. Non basta condividere una foto in cui si “Prega per la Pace” o in cui si celebra il #LoveWins. Non è sufficiente parlare dello stupratore di Stanford o della mamma il cui figlio è finito tra le braccia di un gorilla. Anche perché vista la democratizzazione assoluta della rete non è detto che tutti prendano la posizione “giusta”. O che dicano cose intelligenti. Eppure, tutte le opinioni – buone o cattive che siano – una volta espresse possono diventare vere e diffondersi.
Certo, meglio che il mondo sia fatto di persone/user che reagiscono e commentano, piuttosto che di couch potato che subiscono imbelli qualsiasi cosa gli venga propinato.
AUTOREVOLEZZA
Ma questo non basta. Occorre imparare a ristabilire voci autorevoli, credibili e certificate che diffondano informazioni e conoscenza e non solo notizie. Ad esempio Wikipedia è bella e aperta e collaborativa, certo. Ma se si deve cercare con sicurezza qualcosa, non è magari meglio affidarsi a Treccani.it? E poi, anche e soprattutto, occorre ritrovare la capacità di distinguere tra ciò per cui la chiacchiera social è lo spazio di dibattito più adatto e dunque sufficiente, e ciò per cui invece “Il faut s’engager” sul serio, non solo a parole e non solo per un attimo.
Gli attimi e le parole veloci, per ora, usiamoli per cose più futili e più pop come commentare la separazione tra Calvin Harris e Taylor Swift (che poi volendo, anche lì ci sarebbe da scavare e da scoprire).
Per tutto il resto, serve più impegno e serve più consapevolezza. Che si consegni la notizia o che la si riceva.
FRANCESCA MASOERO