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La prima volta che ho visto l’alieno

scienze

Ricordo benissimo il primo momento in cui ho visto l’alieno. Oh, certo, mi ero interessato a lui ed ai suoi grandi misteri, ma non l’avevo mai visto dal vivo. Ed ora finalmente potevo incontrarlo, ed era proprio lì, davanti ai miei occhi. Si muoveva sinuosamente, come se si stesse guardando intorno per decidere cosa fare. E apparentemente, a differenza di noi umani, non aveva nessun pudore: era nudo, e potevo vedere il suo incredibile corpo translucido, praticamente trasparente.

Quante discussioni, su di lui, sui suoi segreti. Avevo sentito Robert Horvitz, collega al MIT di Boston, ed era stato lui ad invitarmi, dicendomi felice che ero il benvenuto, che non vedeva l’ora di sapere qualcosa di più, da altri punti di vista, su questo meraviglioso alieno.

Horvitz, un uomo con la curiosità infinita degli scienziati veri, unita ad un’incredibile modestia, perché per tanti versi lui ne sapeva molto più di me dell’alieno, anzi.

Un intero laboratorio per studiare l’alieno

Praticamente aveva fondato un laboratorio solo per studiarlo. Uno strano laboratorio, tappezzato di fogli lungo tutti i corridoi, tutte le pareti, tutte le porte. Fogli uniti insieme, a formare una enorme striscia, con sopra scritto un testo, un lungo testo che continuava il suo racconto di foglio in foglio. Quel racconto era stato uno dei più grandi successi raggiunti sull’alieno, frutto di anni ed anni di lavoro, passione trascritta su carta: il dna completo dell’alieno, un traguardo epocale da poco raggiunto all’epoca.

Ma per quanto si possa scrivere su di lui, era tutt’altra cosa vederlo dal vivo, vederlo muoversi, pensare.

Anche grazie a lui, Horvitz avrebbe poi vinto il premio Nobel. Perché l’importanza dei segreti dell’alieno era unica, una miniera d’oro per l’umanità. Del resto, chi l’avrebbe mai detto, che studiare quell’alieno, così diverso da noi, avrebbe portato a svelare parte dei segreti della vita di noi esseri umani?

Una guida per scoprire i segreti della vita

Perché i segreti della vita non sono così distanti, a volte sono incredibilmente vicini a noi, basta ad esempio guardarsi le mani. Noi esseri umani abbiamo cinque dita per mano. Due mani, cinque più cinque, ed ecco le nostre dieci dita. Quante cose ci permettono di fare quelle dita, quanto hanno dato al progresso dell’uomo. Quanto ci hanno influenzato: noi usiamo i numeri con il sistema decimale perché di dita ne abbiamo dieci.

Dieci dita, dieci cifre, da zero a nove.

I computer, così diversi da noi, è come se avessero due sole dita, un dito per mano: usano un sistema binario, due sole cifre per fare i numeri, zero e uno.

Ma l’alieno, quell’alieno, non aveva neanche un dito.

O forse un dito, a seconda dei punti di vista, a saperlo guardare bene, ma forse era più un piede che un dito, visto che l’alieno praticamente non aveva neanche le mani. Ma cosa si fa con un piede solo, come si ragiona, come si conta, come si vive? Eppure tutto questo non sembrava preoccupare l’alieno, che continuava lentamente a muoversi davanti a me, in maniera del tutto naturale. Quell’alieno così diverso da noi, praticamente senza dita e con un piede solo. Eppure, tra i suoi segreti nascosti c’era anche, incredibilmente, quello delle nostre dita. E grazie a questi segreti di lì a poco svelati Horvitz avrebbe poi vinto il Nobel.

Lo stupore della creazione tra ordine e caos

Guardiamo le nostre dita: sembrano oggetti magari normali, ma quanta complessità nascondono. Pensiamo solo a quando non c’erano ancora, quando eravamo dentro al ventre materno, e quelle dita non esistevano. Nasciamo come esseri informi, e poi prendiamo forma.

Ma come accade? Come succede che da una materia grezza prendiamo poi proprio quella forma, gambe torso braccia collo viso orecchie naso narici occhi dita? Succede, tra le altre cose, per un fenomeno dal nome strano e complicato, l’apoptosi. Apoptosi, una parola difficile, in realtà una bellissima parola se si guarda da dove proviene: deriva dal greco, ed indica la caduta dei petali dai fiori, così come delle foglie dall’albero.Una parola poetica che però ha un risvolto pratico importantissimo: perché è grazie all’apoptosi se abbiamo le nostre dita, assieme a tutto il resto. Nasciamo come ammasso di cellule, e poi queste cellule si moltiplicano, crescono e con loro cresciamo noi.

Ma come cresciamo? Se queste cellule crescessero sempre, saremmo praticamente delle grosse palle di cellule, ben poco funzionali. Certo, qualcuno magari crescendo diventerà lo stesso un pallone gonfiato, ma è solo un modo di dire, per fortuna. Nella nostra crescita invece accade quella specie di miracolo, ed alcune cellule di quel pallone iniziano a morire: ma non di una cattiva morte, bensì di una morte buona, quella che fa sì che invece di un ammasso di cellule si formino delle separazioni, che poi danno ad esempio luogo alle nostre dita. Come le foglie cadono dagli alberi, ed i petali dai fiori, anche parte delle nostre cellule ci lasciano, si staccano da noi, per permetterci di vivere.

È un processo delicatissimo, un equilibrio precario tra ordine e caos: se c’è troppa poca apoptosi, e si spengono meno cellule del previsto, si generano tumori; se c’è troppa apoptosi, e si spengono più cellule del dovuto, abbiamo l’atrofia, menomazioni del nostro corpo. La morte e la vita devono restare in equilibrio, un magico precario equilibrio che genera il nostro corpo, che genera un essere umano così come lo conosciamo. Un equilibrio quindi tremendamente complesso e difficile da comprendere.

Finché non si è usato l’alieno: così diverso da noi, con quel suo fisico bizzarro a dir poco, eppure studiandolo si è riusciti a capire meglio parte di questo meraviglioso meccanismo di equilibrio. Ed Horvitz ha vinto il Nobel, appunto.

Io non ero interessato all’alieno per le dita, bensì per un’altra sua parte: il suo cervello. Cervello che potevo praticamente vedere, ora che l’avevo davanti a me: mi sembrava di intravedere le connessioni nervose, dentro quel corpo trasparente.

L’avevo studiato, come altri, restandone affascinato. Analizzato neurone per neurone, in ogni parte del sistema nervoso. E poi, come spesso si fa nella scienza, cambiato punto di vista, cercando di volare più in alto, cogliendo l’essenza delle cose. Cos’è un cervello dopotutto? Da un certo punto di vista, solo neuroni e sinapsi.

Ma cambiando paio di occhiali, possiamo vederlo in un altro modo: ci sono delle stazioni che collegano altre stazioni, come una specie di grande sistema di trasporto. Invece di segnali elettrici che guizzano, c’è informazione che viene scambiata, la merce di scambio dentro ad un cervello. Se guardiamo con questo nuovo paio di occhiali, possiamo studiare questa costruzione vedendo il tutto come un sistema di gestione dell’informazione: com’è efficiente, che struttura ha, come è stata costruita. E confrontarla con altri sistemi, magari molto diversi.

E quello che è uscito fuori analizzando quella struttura, l’essenza di quel cervello alieno, è che quella mente in realtà era già presente in altri posti sulla Terra.

Ad esempio l’orgoglio dei nostri tempi moderni, l’intera rete Internet, con i suoi computer, i suoi cavi che cingono il mondo, l’enorme rete che tutti ci connette, ha la stessa struttura del cervello dell’alieno, se vista con il giusto paio di occhiali. Una corrispondenza incredibile, se si pensa che stiamo parlando da un lato di una parte biologica di un organismo vivente, un cervello, frutto di migliaia di anni di evoluzione, e dall’altra invece di un’entità completamente artificiale, fatta di metallo e plastica. Internet, per come l’abbiamo costruita in pochi anni, si è evoluta come un vero e proprio cervello. La prova che forse la vita va vista veramente senza pregiudizi: non conta di cosa siamo fatti, ma come siamo fatti.

Tutta questa complessità quindi, assieme a tanti altri incredibili segreti che si stanno man mano scoprendo ancora oggi, era racchiusa dentro al corpo dell’alieno. Che poi così grande non era, giacché lo stavo osservando così bene solo grazie a qualcosa che Horvitz mi aveva gentilmente fornito lì nel suo laboratorio: un microscopio.

L’alieno era piccolo e senza mani

Sì, perché l’alieno in realtà era piccolo, come tutti quelli della sua razza, circa un millimetro. Una razza dal nome strano: Caenorhabditis elegans. In realtà tutti quelli che lo conoscono lo chiamano più familiarmente C. elegans: perché quello che conta è la seconda parte del nome, elegans, elegante, una forma a prima vista poco complessa eppure così pregna, l’eleganza della semplicità apparente.

Come si guarda al futuro? Qual è la giusta scala delle cose? Buona parte dei segreti della nostra vita, del nostro fisico e della nostra mente, della natura lì fuori e del nostro progresso tecnologico, Internet inclusa, erano già da millenni dentro quello strano essere, lungo un millimetro, senza vestiti, orgogliosamente nudo di fronte a me. Così piccolo, se misurato con un banale metro. Così grande, universalmente grande, se solo visto nel giusto modo.

C’è saggezza, nei detti popolari e nei modi di dire. Quindi, la prossima volta che sentiremo parlare dell’espressione “nudo come un verme” pensiamoci: perché alla fin fine, tra noi ed il C. elegans, quel verme lungo un millimetro, non c’è poi una così gran differenza, anzi. A parte i vestiti, appunto.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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