Di palinsesti, share, ascolti, piani e strategie commerciali io non è che ne capisca un granché, quindi questa cosa qui, che non so se la si può chiamare idea o proposta o domanda da fare a chi ne capisce molto di più, ma in ogni caso non è che abbia delle pretese.
Un fatto che è successo il primo di giugno: la Rai ha rimosso più di centicinquantunomila video caricati dal suo canale youtube. Oggi ne restano 45 di video assaggi che per vederli tutti bisogna andare sul portale Rai.tv. Perché? Sembra che i 700mila euro annui che Google AdSense dava al canale youtube della Rai per poter mettere la pubblicità sui 7mila video che la tv pubblica italiana si era impegnata a caricare ogni anno non fossero un buon guadagno.
A parte alcuni problemi tecnici del portale Rai (utilizza Silverlight che spesso va aggiornato) e le pubblicità in pre-roll (prima dei video) che durano 30 secondi (come in tv) e non c’è modo di abbassarne il volume dal player (ma ora proverò a bloccarle con AdBlock). A parte che i contenuti che la Rai metteva su youtube non erano produzioni fatte ad hoc per quel social network, ma contenuti per la TV semplicemente riversati su youtube (andate a vedere, ad esempio, le produzioni che fa la NBA ad hoc per i vari social network). A parte poi anche l’audience potenziale che la Rai ha perso andando via da youtube: un social network localizzato in 61 Paesi, il secondo motore di ricerca al mondo con quasi un miliardo di utenti unici (soprattutto giovani tra i 17 e i 34 anni) che guardano 4 miliardi di video ogni mese, con il traffico mobile totale negli USA viene generato per youtube e facebook (secondo Sandvine).
A parte la cancellazione di un patrimonio culturale pubblico già precedentemente condiviso (sul quale ha preso la parola anche Edoardo Fleischner e Massimo Mantellini). A parte che è stato curioso vedere che dopo due giorni in cui la Rai aveva tolto tutti i suoi video, la stessa Rai celebrasse la riapertura di youtube inTurchia dopo due mesi di stop. A parte (in fondo il motivo di questo post è anche personale) il dispiacere di aver perso la mia playlist con i video delle trasmissioni, quelle belle, prodotte dal servizio pubblico e che forse facevano parte della costruzione di una memoria collettiva che poteva servire a qualcosa. A parte tutte queste cose, io che non ne capisco granché di palinsesti, share, ascolti, piani e strategie commerciali, e visto che c’è un Direttore Generale che ha trovato un altro modo per guadagnare sui contenuti che produce, io non ho da dire granché: aspettiamo di vedere quel che succederà e quanto la Rai guadagnerà da questa scelta.
Detto questo però propongo una cosa che ha a che fare con il concetto di servizio pubblico, che io non lo so bene cosa voglia dire, però so che mi piacerebbe che fosse una cosa che, nel caso della Rai, raccontasse le cose come stanno e o quanto meno il paese reale (come il titolo di una trasmissione che oggi non c’è più): e se il servizio pubblico facesse il servizio pubblico proprio su youtube raccontando il paese reale anche con le narrazioni di chi lo frequenta tutti giorni, il paese reale? E se lo facesse con produzioni e piani editoriali e commerciali studiati per un canale youtube e che venissero ripagate da strategie pubblicitarie, che magari tengano conto anche di crowdfunding e/o fundraising?
Con questo non dico mica di pubblicare video che durano 20 minuti fatti con slideshow di foto (spesso brutte) con la stessa musica che si ripete all’infinito e con le dissolvenze più fantasiose, come spesso succede soprattutto con le produzioni del noprofit. Molte produzioni e narrazioni del noprofit, però, sono cose nuove e fatte bene, sono storie che a sentirle e guardarle potrebbero essere utili per capire meglio, ci sono archivi di cortometraggi e pubblicità sociali che raccontano il paese vero, oltre che reale. E tutto questo non potrebbe diventare patrimonio culturale comune tutto questo?
Di palinsesti, share, ascolti, piani e strategie commerciali io non è che ne capisca un granché, però sfruttare queste produzioni e renderle patrimonio culturale comune da parte del servizio pubblico potrebbe innescare un circolo virtuoso perché stimolerebbe il noprofit a imparare a raccontarsi meglio con produzioni ad hoc, consentirebbe alla Rai di sviluppare una strategia ad hoc su un social network e le permetterebbe di raccontare il paese reale in modo diverso e di diffonderlo su scala mondiale.
Ovviamente tutto questo non sarebbe esclusiva del noprofit o terzo settore, né una cosa a costo zero, ma la rete stessa ha dimostrato che si possono fare produzioni di qualità e con budget proveniente proprio dalla rete come dimostra il crowdfunding: di una produzione culturale, soprattutto video, più l’interesse è pubblico su un video di qualità, più viene aiutato dalla rete. Di palinsesti, share, ascolti, piani e strategie commerciali io non è che ne capisca un granché, però penso che la Rai il racconto del paese reale, il racconto della realtà, delle marginalità, dei dolori come potrebbe fare il noprofit o il terzo settore o semplici cittadini attivi e la diffusione sulla rete, anche se non su youtube, se lo dovrebbe meritare. Se lo meriterà?
Milano, 21 giugno 2014ANDREA CARDONIReblog da Vita.it