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La ricetta anti-crisi dell’Onu: più resilienza per tutti

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Ormai è sotto gli occhi di tutti: alcuni Paesi hanno reagito meglio di altri alla crisi economica di questi anni. E l’Italia non è tra questi.

Sapere da cosa dipende la capacità di reazione a shock esterni da parte di un sistema economico e sociale è fondamentale, in quanto – come ci ricorda l’ultimo rapporto sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite – anche se si superasse l’attuale crisi, altre difficoltà si presenteranno in futuro a causa di eventi economici, dei cambiamenti climatici, ecc.

E quindi bisogna prepararsi per saper superare le future crisi, magari disegnando e realizzando fin da oggi politiche adeguate a questo scopo

Negli ultimi anni gli psicologi e gli economisti hanno mutuato dall’ingegneria la parola “resilienza”, che indica la caratteristica di alcuni materiali di riacquistare le forma originaria dopo essere stati soggetti a schiacciamento o a deformazione.

Si parla, quindi, di resilienza delle persone, della natura, di una economia, di una società come capacità di reagire ad una situazione negativa proveniente dall’esterno, tornando autonomamente alla situazione precedente l’evento.

Fonte: Schema.it

Il citato Rapporto sullo Sviluppo Umano dal titolo emblematico “Sostenere il progresso umano: ridurre la vulnerabilità e costruire la resilienza”, ci ricorda come la vulnerabilità, cioè la continua esposizione al rischio, sia la condizione naturale per tutte le specie viventi, compresa quella umana. Ovviamente in millenni di storia le società hanno cercato di affrontare tale condizione sviluppando sistemi economici e sociali sempre più sofisticati, in grado di affrontare tali rischi, cioè di minimizzare l’impatto di fenomeni avversi sulle persone. Questo obiettivo è stato perseguito a partire dal secolo scorso attraverso lo sviluppo dei sistemi di sicurezza sociale e le politiche di regolamentazione dei mercati e delle attività produttive.

Più di recente si sono affrontati più sistematicamente i rischi di natura ambientale, anche sull’onda dei crescenti allarmi per il cambiamento climatico in atto sul nostro pianeta.

Ovviamente, la vulnerabilità non riguarda tutte le persone nello stesso modo: i poveri, i lavoratori precari, le donne, le persone con disabilità, i migranti, le minoranze, i bambini, i vecchi sono alcune delle categorie più esposte ai rischi, così come le comunità che vivono in zone a rischio idrogeologico o maggiormente soggette a calamità naturali. Tali persone sono più esposte ad eventi sfavorevoli di natura economico-finanziaria, ambientale, sociale o individuale (una malattia) e la loro resilienza è bassa in quanto esse possiedono capacità individuali limitate (assenza di risparmi, bassa educazione, ecc.) o vivono in comunità caratterizzate da una bassa coesione sociale, da istituzioni incapaci di reagire ad eventi sfavorevoli o che seguono regole e assetti organizzativi inefficienti.

Messa in questi termini, appare evidente che la vulnerabilità dipende sia da fattori individuali, sia dal modo in cui una società funziona. E la stessa cosa vale per la resilienza

Gli studi di questi anni mostrano che si può operare su due piani: quello preventivo, teso a ridurre la probabilità che si verifichino eventi sfavorevoli, e quello successivo, finalizzato a gestire le conseguenze degli eventi dopo che essi sono avvenuti. L’enfasi posta sul primo o sul secondo dipende in modo decisivo dalla cultura di una comunità: in altri termini, è la storia della formica e della cicala, cioè dell’approccio che si adotta nei confronti del futuro, per sua natura incerto.

Fonte: Social.tiscali.it

C’è chi tende a rimuovere il tema della vulnerabilità, sfruttando al massimo le possibilità legate alla condizione attuale, e c’è chi tende ad investire risorse per prepararsi ad affrontare i rischi derivanti dal futuro. Alcune delle politiche maggiormente utili a prevenire i rischi sono:

  • la regolamentazione dei mercati, specialmente di quelli finanziari, resi sempre più instabili dalla globalizzazione degli ultimi trenta anni
  • il contenimento del cambiamento climatico, realizzato riducendo le emissioni di gas nell’atmosfera derivanti da attività umane
  • l’investimento nell’educazione delle giovani generazioni, così da aumentare le loro capacità; la gestione dei sistemi economici tendenti a ridurre le fluttuazioni cicliche; la promozione di schemi previdenziali o assicurativi, obbligatori e volontari, attraverso una fiscalità più favorevole
  • gli investimenti per ridurre i rischi idrogeologici e la regolamentazione degli edifici costruiti a fini abitativi e produttivi; il sostegno alle nuove iniziative imprenditoriali caratterizzate da forte innovazione.

Le Nazioni Unite sottolineano come tali politiche dovrebbero avere come obiettivo la fornitura universale di servizi educativi e di cura, il pieno impiego, la promozione dell’uguaglianza di genere e il superamento delle discriminazioni, la costruzione di istituzioni reattive e in grado sia di fronteggiare le sfide future, sia di gestire in modo efficiente ed efficace gli interventi in caso di disastri e crisi. I principi da porre alla base di queste politiche sono:

  • l’universalismo, dal quale derivano prestazioni orientate ai più deboli e a rafforzare la coesione sociale;
  • il focus sulle persone, così da potenziare la capacità degli individui di reagire alle crisi e da evitare l’aumento delle disuguaglianze delle opportunità;
  • la promozione di azioni collettive, così da aumentare la condivisione delle priorità e delle scelte, nonché del senso di appartenenza ad un destino comune, indispensabile per affrontare le sfide globali o di aree politiche comuni, come l’Europa;
  • il coordinamento tra le azioni dei governi e della società civile, sia per superare l’impressione che lo Stato possa risolvere tutti i problemi, sia per promuovere la reattività di tutta la società e delle comunità locali.

Se, dunque, politiche a favore della resilienza sono fondamentali per il nostro futuro, forse dovremmo cominciare a valutare le singole leggi da questo punto di vista

Ad esempio, solo per restare nell’ambito delle politiche sociali, come va valutato il Jobs Act sul piano della resilienza? O come dobbiamo giudicare la possibilità di anticipare il TFR? E la decontribuzione delle nuove assunzioni prevista dall’ultima legge di stabilità senza obbligo da parte delle imprese di aumentare l’occupazione? E l’assenza di un sussidio contro la povertà?

Fonte: Giuseppepagani.it

La analisi dell’OCSE ci indicano, ad esempio, che l’elevato uso del lavoro a termine e un’alta protezione dei lavoratori permanenti riduce la resilienza del mercato del lavoro, perché scarica l’onere dell’aggiustamento sul numero di persone occupate, invece che sui salari dei singoli dipendenti. Da questo punto di vista, un efficace sistema di relazioni industriali che consenta di redistribuire il lavoro tra gli occupati, invece che lasciare i meno protetti subire l’impatto di una recessione, aiuta il sistema economico ad essere più resiliente.

D’altra parte, l’assenza di un sistema di ammortizzatori sociali e di moderni servizi all’impiego che sostengano chi è senza lavoro nella ricerca di una nuova occupazione, anche attraverso una formazione adeguata alle future necessità delle imprese, aumenta la durata della disoccupazione e le disuguaglianze sociali, determinando una “trappola della povertà” dal quale è molto difficile uscire. Politiche sociali che riducono l’impatto sui giovani della perdita del lavoro dei genitori, e quindi quello che si chiama “effetto cicatrice”, sono fortemente positive sul piano della resilienza di una società, soprattutto se accompagnate con investimenti in formazione e politiche che favoriscono l’avvio di nuove imprese.

Il recente rapporto della Commissione Europea sugli sviluppi economici e sociali dell’Unione insiste sul ruolo che, nel corso delle crisi, giocano i sistemi di welfare che assicurano un reddito minimo per un periodo prolungato di tempo, condizionato dall’impegno del beneficiario a seguire corsi di formazione, a spostarsi sul piano geografico, ad avviare una nuova attività, ecc.

Politiche orientate a distribuire il lavoro tra le persone riducono l’impatto di una crisi, evitando lunghi periodi di inattività. Questi hanno effetti negativi sullo stato psicologico delle persone, indebolendo la loro capacità di reazione

Politiche volte alla cura dei minori (asili nido, ecc.) che favoriscono la partecipazione delle donne al mercato del lavoro aumentano la resilienza della società, così come quelle dirette a reintegrare nei cicli formativi coloro i quali hanno abbandonato prematuramente la scuola. Come questi esempi dimostrano, le analisi delle organizzazioni internazionali indicano chiaramente la direzione verso la quale muoversi per costruire un futuro diverso. Ma bisogna cambiare modo di pensare, così da divenire maggiormente padroni del futuro che si vuole costruire.

Non è solo una questione di risorse disponibili, ma di impostazione culturale. Senza un tale cambiamento – ci dicono le Nazioni Unite, l’OCSE e la Commissione Europea – sarà difficile non solo superare la crisi attuale, ma soprattutto gestire bene le future difficoltà.

ENRICO GIOVANNINI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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